Mafia e potere alla sbarra
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Mafia e potere alla sbarra - Umberto Ursetta
Derio
Prefazione
di Nicola Tranfaglia
Sono molti i punti di vista a partire dai quali si può percorrere storicamente il cammino che ha caratterizzato lo sviluppo delle associazioni mafiose prima in Sicilia, poi in tutta Italia negli ultimi ottanta anni e più che ci separano dal periodo fascista al ventunesimo secolo in cui stiamo vivendo.
Quello che pone al centro le vicende giudiziarie, e in particolare i processi, è senza dubbio alcuno tra i più fecondi e interessanti giacchè attraverso di essi si può cogliere una prospettiva che mette insieme il comportamento della classe politica, di quella che di solito si definisce la pubblica opinione, i giudici e, quando ci sono, i principali partiti politici.
Il saggio di Umberto Ursetta si legge con interesse, sia per la conoscenza degli avvenimenti che l’autore dimostra, sia per la chiarezza dell’esposizione storica e giuridica.
Il primo caso esemplare che si narra nei due capitoli iniziali del libro di Ursetta riguarda il capomafia Calogero Vizzini di Caltanissetta.
Inviato al confine dal regime fascista è qualificato dalla questura della città siciliana come un soggetto pericoloso abigeatario, capo mafia della provincia e in relazione con abigeatari e mafiosi di altre provincie
.
A differenza di molti capomafia di quegli anni, Vizzini resta in Sicilia e sarà tra i mafiosi che collaborano con gli angloamericani per lo sbarco delle truppe alleate nell’isola nel luglio 1943.
Per le benemerenze acquisite in quelle settimane gli sarà conferita (come al suo successore Genco Russo) la croce di cavaliere della Repubblica come ricompensa per le persecuzioni subite dal prefetto Mori, confondendo l’azione di Mori con quella del regime fascista e accantonando la qualità di capomafia esercitata per più di vent’anni da Vizzini.
Ma il ruolo del mafioso nisseno è anche quello di consigliere assai ascoltato del governatore dell’Italia Charles Poletti negli anni che precedono il passaggio dei poteri dall’amministrazione angloamericana alle istituzioni repubblicane nel 1947.
Poletti chiede a Vizzini di indicargli le persone giuste per svolgere la funzione di sindaco nei comuni occupati e di qui deriva la presenza di molti uomini di rispetto nelle nuove amministrazioni dell’isola. Ma questo dice anche molto sull’alta considerazione che gli occupanti angloamericani hanno delle associazioni mafiose.
E tra l’altro conferma, in prospettiva, la nascita della pacifica coabitazione tra mafia e partito cattolico di maggioranza in Sicilia e, quindi, in Italia.
Ma ci sono altri due aspetti importanti da sottolineare nella storia dei rapporti tra mafia e istituzioni religiose e civili.
Il primo è le ottime credenziali di cui gode Vizzini nella Chiesa siciliana.
Ne abbiamo una prova lampante: quando il capomafia venne nominato dagli alleati sindaco di Villalba, il vescovo di Caltanissetta, non potendo partecipare all’insediamento per altri impegni, mandò un suo rappresentante ufficiale a rendergli onore.
Ma lo stesso può dirsi per quanto riguarda alcuni magistrati visto che l’autore riporta nel suo libro il commento non equivoco che il presidente della Corte di Cassazione espresse nel 1954 subito dopo la morte di Calogero Vizzini: "Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta (sic!).
Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e del miglioramento della collettività."
Ma l’aspetto più significativo sul piano storico di quella vicenda si trova nel percorso giudiziario del processo nato dall’aggressione avvenuta il 16 settembre a Villalba dell’onorevole Girolamo Li Causi e di altri partecipanti al suo comizio.
Dopo alterne vicende narrate nel libro, il processo si conclude prima in Cassazione il 4 febbraio 1952 con l’annullamento della prima sentenza e quindi con un nuovo processo di fronte alla Corte di Assise d’appello di Catanzaro seguita da un nuovo giudizio della Suprema Corte che il 9 gennaio 1957 riduce le pene dei condannati. E sull’ultima sentenza interviene a 13 anni di distanza dai fatti il presidente della Repubblica che con un decreto del 5 settembre 1957 concede la grazia ai condannati.
Calogero Vizzini non può approfittarne perché scomparso tre anni prima.
È così evidente la volontà dei giudici di punire il meno possibile i mafiosi che hanno aggredito Li Causi e i suoi compagni che non c’è da stupirsi dell’epilogo che viene confermato dai successivi processi che si tengono in Sicilia per l’assassinio dei sindacalisti Accursio Miraglia e Placido Rizzotto e che si concludono con un nulla di fatto.
Il terzo sindacalista ucciso è Salvatore Carnevale, segretario della Camera del lavoro di Sciara.
In un primo tempo sono imputati quattro campieri della principessa Notarbartolo e la vicenda giudiziaria si conclude con una beffa perché dopo un primo processo a Santa Maria Capua Vetere in cui i campieri sono condannati all’ergastolo, nei successivi gradi di giustizia, le cose cambiano e prima la Corte d’Appello di Napoli li assolve per insufficienza di prove e quindi la Corte di Cassazione conferma l’assoluzione.
Potremmo continuare con l’elenco di altre centinaia di processi che finiscono con il nulla di fatto o con condanne ridicole rispetto alla gravità dei fatti.
Occorrerà attendere gli anni settanta e le prime inchieste giudiziarie del giudice Terranova per avvicinarci a una repressione che, senza risolvere (e non potrebbe in ogni caso riuscire a farlo) il problema completamente, si avvicina in parte al punto centrale per una efficace repressione della mafia: cioè all’attacco di quella che è diventata ormai un’associazione criminale con regole e riti precisi.
Le pagine di Ursetta non perdono di interesse per il lettore, anzi sono per certi aspetti più interessanti perché la mafia urbana che è subentrata a quella agraria degli anni cinquanta e sessanta è diventata una grande potenza militare e finanziaria e, di fronte all’egemonia raggiunta dai corleonesi all’interno di Cosa Nostra, l’obbiettivo diventano magistrati e politici che ostacolano le attività e i guadagni cresciuti con la speculazione edilizia (il sacco di Palermo tra gli altri) e il traffico internazionale degli stupefacenti.
Arriviamo così agli assassini del giudice Terranova e quindi del procuratore Costa, del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, del segretario regionale del PCI Pio La Torre, del prefetto di Palermo generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del giudice Chinnici in un decennio carico di delitti che è difficile definire esclusivamente di mafia.
L’offensiva dei corleonesi è mirata con molta precisione contro magistrati e uomini politici che in un modo o nell’altro ostacolano l’ascesa di Cosa Nostra verso il perseguimento dei suoi profitti ma anche verso il conseguimento di obbiettivi di maggior spazio politico all’interno della repubblica.
Su un binomio come questo, a distanza di trent’anni dagli avvenimenti, è difficile dubitare. È con il maxi processo del 1984-92 che si conclude con la conferma da parte della Corte di Cassazione dell’istruttoria condotta dai giudici del pool di Palermo che Cosa Nostra entra in crisi e la lotta giudiziaria contro l’associazione mafiosa siciliana incomincia a conseguire risultati di rilievo.
La reazione dei corleonesi è rabbiosa sicché proprio nel 1992 hanno luogo le due stragi che colpiscono Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta e qualche mese dopo Paolo Borsellino con tutta la sua scorta.
Ma il 1992, come appare con chiarezza dal racconto di Ursetta, è un anno di decisiva importanza giacché i corleonesi uccidono l’on. Salvo Lima che non li ha difesi dalle gravi conseguenze giudiziarie e altri uomini vicini a Cosa Nostra come Ignazio Salvo.
L’autore dedica l’ultima parte del suo saggio ai processi che hanno come imputati prima il senatore Giulio Andreotti assolto con prescrizione, poi il funzionario di Pubblica Sicurezza Bruno Contrada condannato in maniera definitiva, quindi Marcello Dell’Utri, senatore e collaboratore strettissimo dell’attuale presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, contro il quale è in corso il processo d’appello, infine Salvatore Cuffaro, ex presidente della Regione Siciliana e attuale senatore della Repubblica per l’Unione di centro, condannato in primo grado per favoreggiamento.
Il ragionamento di Ursetta, che si attiene con scrupolosità di giurista agli atti giudiziari e alle risultanze processuali, mette in luce con chiarezza gli aspetti ancora oscuri di queste vicende ma anche quelli ormai chiariti dalle indagini giudiziarie.
Viviamo purtroppo in un paese in cui la classe politica (o meglio una parte rilevante di essa) vive con indifferenza, e a volte addirittura con arroganza, le accuse dei giudici, anche quando queste si accertano come veritiere e provate, pur con tutte le garanzie di un processo.
Come è naturale che avvenga un simile comportamento è tra le cause (anche se non l’unica) del discredito della politica nella società italiana e del distacco sempre maggiore che vivono gli italiani rispetto a quel che succede nei palazzi della politica.
La lettura del libro di Ursetta è, anche da questo punto di vista, interessante e significativa particolarmente in questo periodo contrassegnato dal grande silenzio che le televisioni e i giornali decretano per i processi di mafia, piccoli e grandi.
Prima parte
Il patriarca Vizzini
1. Il fascismo lo confina
Calogero Vizzini, meglio conosciuto come don Calò, a partire dal 1943, con la caduta del fascismo, e fino alla sua morte, avvenuta il 10 luglio 1954, è il capo indiscusso e rispettato della mafia siciliana. La sua storia personale si intreccia strettamente con quella di Cosa nostra. È lui ad avere il pieno e assoluto comando dell’associazione mafiosa dell’isola e a deciderne la strategia. In quegli anni la mafia si identifica con Vizzini e viceversa. Non si muove foglia che don Calò non voglia. Tutto è sotto il suo diretto controllo e nessun uomo d’onore osa prendere iniziative senza il suo benestare. Si tratta di una specie di monarca assoluto al quale nulla sfugge, ogni decisione passa dalle sue mani. Il suo ruolo di capo carismatico è tale che nel raccontare la sua vita si racconta anche un pezzo di storia della mafia siciliana.
Vizzini nasce il 24 luglio del 1877 a Villalba e sin da giovane dimostra di possedere una notevole intraprendenza, divenendo ben presto uno dei più potenti gabelloti del palermitano. Il gabelloto è il mafioso più in vista del luogo in cui si trova il feudo, ed è proprio per questo che il latifondista lo sceglie per affidargli la gestione del suo terreno. La condizione necessaria per diventare gabelloto è quella di essere uomo di rispetto. Il suo compito consiste nel garantire la pace sociale nelle campagne, facendosi carico di reprimere nel sangue le rivendicazioni dei braccianti e dei contadini poveri.
Ogni iniziativa di lotta dei lavoratori della terra diretta a modificare i rapporti sociali di tipo feudale esistenti nell’agricoltura siciliana trova la sua feroce opposizione e, se necessario, è anche pronto a uccidere pur di garantire il mantenimento dei privilegi dei proprietari terrieri. Nulla, insomma, deve cambiare, tutto deve restare immutato, a questo serve il gabelloto al quale il latifondista affida in gabella il feudo.
La sua presenza è stata sin dall’Ottocento una garanzia per la conservazione del latifondo e lo diventa ancora di più dopo la caduta del fascismo quando nelle campagne siciliane, e in generale in tutto il Mezzogiorno, si apre uno scontro molto aspro tra il movimento contadino, che si batte per un profondo cambiamento dei rapporti sociali ed economici, e i proprietari terrieri, contrari a qualsiasi cambiamento che metta minimamente in discussione i loro privilegi.
Tornando a Vizzini, nel 1925 viene mandato al confino dalla polizia fascista non perché antifascista ma per la sua pericolosità sociale, essendo un esponente di primo piano della criminalità organizzata. La questura di Caltanissetta, in una nota del 3 dicembre 1926 indirizzata al prefetto, lo descrive come un soggetto pericoloso abigeatario, capomafia della provincia e in relazione con abigeatari e mafiosi di altre province
[1]. Una descrizione che non lascia dubbi sullo spessore delinquenziale del giovane Vizzini, già allora conosciuto dalle forze di polizia come il capomafia della provincia di Caltanissetta. Con l’arrivo a Palermo di Cesare Mori, il famoso prefetto di ferro, per la mafia si preannunciano tempi duri. L’energica azione repressiva da lui attuata rende difficile la vita alla criminalità mafiosa, tanto che alcuni uomini d’onore per sottrarsi alla cattura sono costretti a espatriare negli Stati uniti, continuando tuttavia a mantenere rapporti con quelli rimasti in Sicilia. Vizzini non espatria, resta in Sicilia in attesa di tempi migliori.
2. Amico degli alleati
Caduto il fascismo, a riprova della sua sopravvivenza al ciclone Mori, la mafia ritorna a far sentire la sua presenza nella società siciliana favorendo lo sbarco dell’esercito americano nell’isola. Il sostegno dato alle forze alleate le consente di poter facilmente riorganizzare le proprie fila e riprendere a pieno le sue attività illegali. Non solo, ma le benemerenze acquisite le permettono anche di contare nelle decisioni riguardanti la vita politica, inserendosi con suoi uomini nel vuoto prodotto nella pubblica amministratizione dalla caduta della dittatura fascista. La mafia sfrutta, insomma, nel migliore dei modi la collaborazione fornita nel luglio del 1943 alle truppe americane impegnate nelle operazioni militari contro il nazi-fascismo.
Naturalmente il fatto che molti uomini d’onore traggano vantaggio dagli eventi bellici non sminuisce affatto l’importanza dell’azione intrapresa dalle forze alleate, che con lo sbarco in Sicilia danno inizio alla lotta di liberazione dell’Italia dall’occupazione militare tedesca e dall’oppressione esercitata dal regime fascista. Liberazione che avviene con il contributo determinante delle formazioni partigiane. Riconoscere l’importante ruolo avuto dalle forze alleate nel contribuire a liberare il popolo italiano dal nazifascismo non deve però far tacere il fatto che numerosi boss vengono accreditati presso le autorità americane come antifascisti. Un accreditamento che non deriva dall’essersi opposti alla dittatura fascista, ma dall’aver subito la repressione del prefetto Mori. Di conseguenza, tutti coloro che erano incappati in un suo provvedimento restrittivo divengono per ciò stesso vittime del fascismo acquisendo meriti antifascisti. Così si spiega che ai due mafiosi più noti e potenti del dopoguerra, Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo, conosciuto anche come Zu Peppi Jencu, viene addirittura conferita la croce di cavaliere della Repubblica come ricompensa per le persecuzioni fasciste da loro subite[2].
Ma don Calò non riceve solo onorificenze, egli è uno dei personaggi più ascoltati dagli alleati subito dopo il loro arrivo in Sicilia. Basti dire che Charles Poletti, nominato Governatore militare d’Italia (capo dell’AMGOT), lo fa condurre presso il comando militare pregandolo di indicargli le persone giuste
per svolgere le funzioni di sindaco nei comuni occupati e i professori giusti
ai quali affidare l’insegnamento nelle università. Il più importante boss assurge così al ruolo di fidato consulente nella scelta del personale universitario e della pubblica amministrazione, incidendo in maniera significativa non solo nella vita politica siciliana ma addirittura in quella culturale, segno evidente di quanto la mafia fosse tenuta in considerazione dalle autorità americane.
Vizzini viene pure ricompensato per i servizi resi. Oltre a essere nominato colonnello onorario, il 27 luglio 1943 assume la carica di sindaco di Villalba. Ma don Calò non è il solo capomafia a essere chiamato a ricoprire incarichi pubblici importanti, anche Genco Russo viene nominato sindaco di Mussomeli, mentre a Vincenzo Di Carlo viene affidato il compito di responsabile dell’Ufficio per la requisizione del grano. Gli incarichi ricevuti consentono ai mafiosi di acquisire maggiore prestigio tra la popolazione, di accrescere il loro potere e di accumulare ingenti ricchezze.
3. Una famiglia di devoti
Vizzini non gode soltanto della stima degli alleati, ma vanta ottime credenziali anche all’interno della Chiesa. La sua famiglia è ben rappresentata nelle gerarchie ecclesiastiche con due suoi zii vescovi, un altro arciprete e due fratelli preti, mentre un terzo stava per diventare anche lui sacerdote. Un biglietto da visita di tutto rispetto, tanto che il vescovo di Caltanissetta, Giovanni Jacono, ne tesse le lodi scrivendo che si tratta di una famiglia veramente sacerdotale
e non nasconde di aver aiutato don Calò a evitare il carcere[3]. Che l’alto prelato non provasse alcun disagio nell’avere rapporti con il capomafia si evince dal fatto che quando Vizzini fu nominato sindaco di Villalba dal tenente americano Beecher, il vescovo, non potendo presenziare alla cerimonia ufficiale alla quale era stato invitato, si premurò di mandare un suo rappresentante a rendergli onore[4].
Il solido legame esistente tra Vizzini e il vescovo di Caltanissetta non sorprende, la Chiesa è stata per lungo tempo silente di fronte al fenomeno della mafia, tra le gerarchie