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Sofia nel mio autunno nevrotico
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Sofia nel mio autunno nevrotico

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About this ebook

«Mi considero geneticamente non predisposta alle questioni sentimentali. E non mi stupisco che l’amore sia disinteressato a me.»

Daria ha 24 anni e non ha mai avuto un ragazzo. Introversa nerd dei nostri tempi, è schiva e abitudinaria. L’esatto opposto di sua madre Cinzia, psicologa vulcanica e anticonformista. Nonostante i goffi tentativi di Cinzia, tra loro non c’è modo di comunicare.
Qualcosa cambia con la comparsa di Sofia, appena arrivata a Roma dalla provincia toscana per studiare Arte senza troppa convinzione.
Il bacio inaspettato di Sofia farà dubitare Daria della propria identità sessuale e Cinzia del suo sbandierato anticonformismo, per rivelare alle due donne una personalità più autentica che non sospettavano di avere.

Ambientato in una suggestiva Roma autunnale, accompagnato da una colonna sonora fatta di Smiths, Pulp e Belle & Sebastien, Sofia nel mio autunno nevrotico è un romanzo a due voci che affronta i temi delle affinità elettive, dell’attesa e del desiderio con una scrittura esuberante e al tempo stesso intima.
LanguageItaliano
Release dateNov 3, 2015
ISBN9788899401023
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    Sofia nel mio autunno nevrotico - Chiara Apicella

    Primo tempo

    Daria

    12 settembre

    Palpitante di pensieri che non voglio ascoltare, mia madre ha cominciato un diario. Una volta ha provato a leggermi alcune righe; dicevano più o meno: «Se chiudo gli occhi vedo tutto blu», «nelle mie mani stringo un’emozione fraudolenta», e bla bla bla. Sperava, credo, in una forte reazione da parte mia. Ho pensato che stesse vivendo un periodo davvero stressante; poi mi ha sorriso, e allora ho farfugliato: «È carino...» Vedere il suo viso scomporsi in un’espressione delusa mi è dispiaciuto, ma nel giro di qualche minuto la vicenda si è dissolta nell’aria, insieme alle altre cose tristi che sono diventate abitudine.

    Io invece non so perché l’ho iniziato. Non c’entra niente, lo so, ma preferisco scriverlo adesso, almeno poi potrò concentrarmi sul resto: non ho mai avuto un ragazzo, e l’unica a saperlo è Giorgia. Io e lei per tanti aspetti ci assomigliamo... insomma, nonostante Giorgia piaccia alla gente. E io sono soddisfatta così. Quando il suo cellulare squilla o lei mi racconta delle sue comitive, vedo in questo una sorta di giustizia prevista per l’essere umano che mi fa pensare con ottimismo a tutto quanto, persino al fatto che lei sia la mia unica amica. Credo sia un processo simile a quello per cui, anche da single, si può provare tenerezza nell’incrociare coppie che si tengono per mano. Magari vuol dire vivere di riflesso, non so. A ogni modo, è un meccanismo che consente di essere sereni anche se le altre persone guardano la tua vita e pensano che sia triste e vuota.

    A volte, quando racconto a Giorgia qualcosa di personale, ho l’impressione che voglia lasciar cadere il discorso. Come ieri all’università.

    «Stamattina ho scoperto di avere una minuscola voglia sul seno. Incredibile che me ne sia accorta a ventiquattro anni, eh?»

    «Lasci sul piatto tre quarti di pizza? Da’ qua».

    Qualche anno fa interpretavo questo atteggiamento come disinteresse, e mi offendevo senza dirglielo. Poi ho capito: Giorgia si sente a disagio nel vedermi a disagio, e scorge il mio disagio anche dove non c’è. Fraintende sempre i miei silenzi, ma è la persona che mi conosce meglio. Forse perché il suo peso l’ha resa più sensibile; probabilmente, perché l’avere un solo genitore ci ha avvicinate. All’inizio pensava che anch’io fossi orfana. Le avevo lasciato intendere questo, non so: sono sempre stata piuttosto laconica al riguardo. Quando ha scoperto che non era così, le sono bastati pochi indizi per ricostruire la realtà. Non tanto diversa, del resto; solo molto più deprimente. Da allora Giorgia non mi chiede più niente, a meno che non pensi che io ne senta l’esigenza. Io, però, l’ho sentita davvero poche volte.

    ​Cinzia e la sua vita onirica

    La notte precedente Cinzia aveva avuto un incubo a cui aveva poi ripensato tutto il giorno, e questo era inusuale per lei. Cinzia infatti in genere faceva sogni gradevolissimi, tanto che aveva cominciato ad appuntare anche quelli sul suo quaderno celeste, e questo l’aveva spinta a creare due sezioni distinte: il lato dritto era dedicato ai pensieri diurni, il rovescio ai sogni. A volte si sbagliava, e raccontava i sogni sul lato dritto o viceversa. Allora sbuffava, pensando che avrebbe dovuto strappare le pagine e scrivere da capo, o cancellare con una linea netta e scrivere comunque da capo. Ma quella copertina celeste e la filigrana di quelle pagine sottili che, illuminata dal sole, sembrava un fitto bosco di rami le facevano abbandonare subito l’idea, e strappare le pagine appariva improvvisamente una violenza gratuita, mentre tracciare una linea netta implicava un carattere determinato e fattivo che Cinzia non sentiva proprio di avere. In fondo da quando Daria si era mostrata chiaramente disinteressata alle pagine di quel diario, che Cinzia aveva iniziato proprio con la speranza di farglielo leggere prima o poi, non aveva più senso rispettare un ordine di cui avrebbe dovuto rendere conto solo a sé stessa. Tale deprimente circostanza aveva come unico risvolto positivo la più assoluta libertà di scrittura: nessun altro, così, sarebbe stato testimone della ripetitività dei suoi sogni. Sogni in cui Daria la chiamava «mamuz» e non «ma’».

    «E poi?»

    «Niente... Lui mi ha riaccompagnata...» «E?»

    «Dài, mamuz, andiamo oltre...»

    «Okay, Daria, ma prudenza, mi raccomando».

    «Certo, mamuz. Mi hai insegnato a essere responsabile».

    «Mamuz, vieni a vedere Harry ti presento Sally con me?» «Ma lo conosciamo a memoria!» «E allora? Anche Insonnia d’amore lo conoscevamo a memoria, ma ieri l’hai preferito a La doppia vita di Veronica!»

    «Meg Ryan mi fa bene… Vada per Harry ti presento Sally, dài. Ma domani variamo!»

    Cinzia sapeva che quelle conversazioni non sarebbero mai esistite, ma le piaceva ripensarci mentre girava il cucchiaino nel suo caffè salato. Poco dopo aver attinto dal barattolo giallo anziché da quello arancione. Poco prima che Daria le passasse accanto e le urlasse: «Ciao ma’. Non torno a pranzo», sparendo al di là della porta e lasciandola stordita, con in bocca il sapore sbagliato e un messaggio troppo veloce per essere colto.

    Sogni modesti, erano i suoi. Sembravano pubblicità progresso, e non avevano bisogno di effetti speciali. Forse perché dotata di senso del ridicolo persino in stato d’incoscienza, Cinzia nei suoi sogni interveniva poco, punteggiando con commenti pertinenti ciò che Daria diceva.

    Nell’incubo della notte passata, però, non aveva avuto neanche il ruolo di spalla, ma era stata la spettatrice impotente. Appena sveglia, ancora con le immagini nitide che pulsavano nella sua mente, prese la bic blu dal comodino e, aprendo il quaderno dal lato sbagliato, cominciò a scrivere.

    Al consultorio era arrivata Daria.

    Sarà venuta a trovarmi, pensava Cinzia con fierezza, appostata dietro la macchinetta del caffè. Ma Daria si soffermava a parlare con Livia.

    «E poi?»

    «Niente... Lui mi ha riaccompagnata...» «E?»

    «Dài, Liviuz, andiamo oltre...»

    «Okay, Daria, ma prudenza, mi raccomando».

    «Certo, Liviuz. Mi hai insegnato a essere responsabile». E scomparivano entrambe verso lo studio di Livia.

    Cosa significa?, si chiese Cinzia, grattandosi nevroticamente la tempia mentre aspettava che il primo adolescente problematico si affacciasse al suo studio. Stupido sogno. Che c’entra Livia? Scarabocchiò sul quaderno e finse di sforzarsi per cercare l’interpretazione più ovvia. Odiava pensare al loro rapporto in termini competitivi. Livia era una collega seria e professionale, a cui spesso Cinzia chiedeva come fosse più opportuno trattare un paziente, ma era prima di tutto un’amica. Per essere precisi, Livia applicava all’amicizia con Cinzia la stessa serietà dimostrata sul lavoro.

    «Quante pagine hai scritto stanotte, sottraendo tempo al sonno?»

    «Una, due... Non so dirtelo di preciso, perché ho sbagliato verso e ho continuato dall’altra parte».

    «La prossima volta facci caso».

    «Livia, che senso ha quantificare queste cose?»

    «Ha senso. Voglio capire che livello ha raggiunto il tuo autismo».

    «Sei tu che mi hai spinto a tenere un diario...» «Quando eri depressa! Sei ancora depressa?»

    Ma Livia, con il suo modo di fare costruttivo che sfiorava la saccenteria, era riuscita sempre a risollevarla dal fango. Quando Antonio se n’era andato, per esempio, e Cinzia aveva sentito che si sarebbe piegata lentamente, Livia era stata lì. E tutte le volte che aveva pensato di non riuscire a crescere Daria da sola, Livia l’aveva convinta del contrario.

    «Sono stanca...»

    «Prenditi qualche giorno di ferie».

    «Non ce la faccio più... Troppi problemi...»

    «Non sono problemi, ma ordinaria amministrazione». «Avrei bisogno di sfogarmi... di parlare con qualcuno...» «E io che ci sto a fare?»

    «A tutte le ore del giorno e della notte...» «Comprati un diario».

    «Tipo diario segreto?»

    «Se vuoi puoi farmelo leggere la mattina al lavoro».

    Senza slanci romantici né oracoli da interpretare, Livia era ciò di cui Cinzia aveva bisogno. Aveva un solo imperdonabile difetto: era una madre modello. Come moglie, infatti, Cinzia aveva l’impressione che fosse lievemente pedante, e questo doveva andare anche a discapito della sua passionalità. Come psicologa, poi, era sicuramente encomiabile, ma a volte Cinzia sentiva che i pazienti preferivano la sua spontaneità rispetto alla precisione tediosa dell’amica. Come madre, però, era ineccepibile. Se avessero chiesto a Edoardo e a Daria un parere sulle loro madri, Edoardo sarebbe stato entusiasta, mentre Daria avrebbe alzato le spalle con uno sbuffo d’indifferenza.

    Non posso essere invidiosa di Livia, si disse, e rinnovò il proposito di diventare una donna migliore. Decise intanto di offrirle un caffè, pensando che i cambiamenti partono dal basso.

    «Disturbo?»

    «No. Entra, entra».

    «Volevo offrirti un caffè. Perché non esci tu?»

    «Okay. Aspetta che prendo le sigarette». Oltre al difetto di essere una madre modello, Livia ne aveva un altro, non meno trascurabile: era una fumatrice fiera di esserlo. Non una di quelle donne sciatte che odorano di nicotina, ma una di quelle yuppie che si preoccupano di chiedere: «Ti secca se fumo?» A Cinzia seccava sempre, ma considerava quella domanda un colpo basso, e ogni volta rispondeva: «No problem, scherzi?», premurandosi di stare alla giusta distanza e non controvento.

    Davanti alla macchinetta del caffè, Cinzia si rese conto di aver dimenticato ancora una volta la tessera a casa: non solo non avrebbe potuto offrire un caffè a Livia, ma avrebbe dovuto chiederle un prestito.

    «Come va con Daria?», le chiese Livia pour parler.

    Cinzia deglutì: l’assenza di un dialogo con Daria non stimolava una conversazione con qualcun altro. Silenzio genera silenzio, pensò corrugando la fronte, e si ripromise di appuntare queste tre parole nel quaderno.

    «Grazie Livia, ma non c’è tanto da dire... Ieri notte l’ho sognata, sai?» E per un attimo si convinse a raccontarle tutto: la visita di Daria al consultorio, la complicità fra loro due... Livia l’avrebbe interpretato come una messa a nudo: l’invidia di Cinzia sarebbe stata redenta dalla sua onestà.

    Livia, da parte sua, all’idea di ascoltare un altro sogno dell’amica – dopo l’ultimo della fatina Cinzia che curava i malati con la forza del sorriso – rimpianse di aver dato l’avvio a quel goccia a goccia di confidenze aleatorie. Aveva da lavorare, porca vacca!

    Con sollievo di entrambe, arrivò al consultorio un’adolescente e si sedette in sala d’attesa.

    Le due colleghe raschiarono il fondo del bicchierino per cavarne gli ultimi granelli di zucchero, mentre cercavano una frase adatta per congedarsi. Ma non trovarono niente e si limitarono a un cenno del capo.

    ​Da casa all’Upim, dall’Upim a casa

    13 settembre

    Stamattina, mentre il tram faceva il suo percorso consueto per portarmi all’università, ingannavo il tempo con il solito giochetto sul pensiero degli altri. Lo faccio da anni, tanto per corredare una necessità quotidiana con un rito diventato abitudine: non mi annoia mai, forse perché al di là dei vetri piazza Quadrata, via Nomentana e piazza Galeno rimangono lo sfondo familiare delle mie giornate, mentre le facce delle persone si allargano o si restringono come una fisarmonica, e non sono quasi mai le stesse della volta precedente. Immaginare i pensieri della gente dà una sensazione di onnipotenza. L’unico modo per verificarli, del resto, va necessariamente scartato: «Scusi, stava per caso pensando che toccherebbe a suo marito andare a prendere vostro figlio a scuola, per una volta?» Sarebbe imbarazzante. Ma sarebbe stupefacente se quella donna rispondesse: «Sì, stavo giusto pensando che mio marito è un uomo inutile e tocca fare tutto a me». Vorrebbe dire che la gente comincia a non pensare più al vicino come a un estraneo, ma come a un confidente casuale. Non siamo pronti per una rivoluzione del genere.

    Stamattina ho sottoposto il gioco a una variante. Cercavo d’inquadrare il passeggero che si adattasse meglio a un «sento la brezza autunnale scompormi i capelli, attraversarmi dalla testa ai piedi e irradiarsi fino alla punta delle dita». Mia madre sarebbe stata la candidata ideale, ma non era su quel tram, e soprattutto è proprio a lei che mi ero ispirata. Nessuna di quelle persone sembrava farle compagnia. Probabilmente calcolavano le rate da pagare. Questo è il genere di cose che si fanno su un tram. E non penso che sia più triste, tutt’altro. In un certo senso, una persona è caratterizzata più dalle sue preoccupazioni quotidiane che dal resto. Ricordo che da piccolina mi andavo a sedere sulle ginocchia di mia madre quando passava in rassegna le bollette da pagare: forse quelli sono stati i pochi momenti d’intimità fra noi due.

    Mi piace prendere il tram. Sui mezzi pubblici sei costretto a subire la vicinanza di gente che poi scomparirà per sempre, e non diverrà un ricordo: sparirà e basta. Questo la rende rassicurante. Persone che ti affiancano per quel breve tratto in cui le vostre vite coincidono, e che poi si allontanano senza rimpianto.

    Il percorso in tram ha diversi risvolti educativi; a volte diventa un rito iniziatico alla pazienza suprema. Quando devi sopportare la voce stridula del bambino, la tosse catarrosa dell’anziano, il tuo carattere viene forgiato senza che tu te ne renda conto, e l’autobus si trasforma in un maestro zen al quale dovresti molto più di un biglietto obliterato, che in genere rifiuti persino di comprare.

    Ma sul tram possono anche avvenire eventi imprevisti, che turbano l’armonia di tutto il resto. viale Regina Margherita si svoltolava come un nastro, con i suoi bar e i suoi negozi pieni di vita intorno, mentre io ero in piedi, a osservare una coppia di mezza età seduta davanti a me. Non capivo se fossero annoiati o avessero appena discusso. Non so quale alternativa avrei preferito: forse la seconda. Girandomi, ho scoperto che dietro di me un ragazzo con una felpa color blu elettrico mi scrutava i fianchi. Gli ho lanciato un’occhiata infastidita, e lui mi ha ammiccato. Ho subito premuto il pulsante per prenotare la fermata, e in quel momento si sono materializzate di fronte a me mia madre e la sua amica Livia, che mi guardavano scuotendo la testa e si scambiavano ipotesi.

    Livia: «Hai mai pensato di farle seguire una terapia?» Mia madre: «Pensi che servirebbe?»

    Livia: «Non so, ma così non può andare avanti. Ha ventiquattro anni!»

    Mia madre: «Io alla sua età avevo già partecipato a un’orgia...» Livia: «Lo vedi? Non è normale. Credi c’entri la separazione da tuo marito?»

    Mia madre: «Ci ho pensato tante volte, sai? Ma Daria non mi dice niente...»

    Livia: «Un giorno fammici parlare, e vedo se riesco a capire qualcosa».

    Non è paranoia. Conosco mia madre. Fra le sue domande fumose, quelle volte che ceniamo insieme, si nasconde sempre il desiderio di capire perché una ragazza che lei considera uno sprone alla sua vita stia sempre sola, senza amici, senza ragazzo. Io so che è così, e che è sempre stato così.

    So pure che farei volentieri a meno dell’amore, e il fatto che permei così tanto la vita delle persone, comprese quelle che non l’hanno mai provato, mi sembra un’enorme violenza. Se m’innamorassi, forse diventerei anch’io una voce del coro che canta: «Love is real, real is love». Ma mi considero geneticamente non predisposta alle questioni sentimentali. E non mi stupisco che l’amore sia disinteressato a me: insomma, non credo di avere particolari attrattive. Non amo l’amore, ma amo l’autunno, e nonostante in questo momento somigli a mia madre nel concedere diritto di vita a un pensiero del genere, è la stagione che più sento aderire al mio corpo. Amo l’idea che, dopo lo strazio dell’estate, ogni tassello riprenda diligentemente il suo posto, e torni a formare l’insieme che non vorrei mai venisse infranto: il ritmo degli esami, i viaggi in autobus, le passeggiate da casa all’Upim e dall’Upim a casa. Vorrei che le persone accettassero che i motivi di benessere possono variare, che non esiste un solo modo di sentirsi felici.

    Credo che in questo persino Giorgia la pensi diversamente da me. Lei vede le persone gioire per certe cose, e spera che la vita le riserverà anche a lei. Si fida della gente, e allo stesso tempo ne teme il giudizio. Ieri parlavo con lei sulla scalinata di Lettere.

    «Su cosa hai deciso di fare la tesina, alla fine?»

    «Mah», ha detto gonfiando le guance, «non saprei. Credo su

    Gli spettri o La contessina Julie. E tu?» «Credo che sceglierò Il gabbiano». «Non avevi deciso Aspettando Godot?»

    «È che mi sembra poco affidabile; alla fine neanche si presenta...»

    «Battuta agghiacciante...» «Ma hai riso!»

    «Non eri tu a imbarazzarti quando tua madre si lancia in giochi di parole assurdi?»

    «Sì». Ho addentato il mio panino col prosciutto. «E allora?» Gliel’ho avvicinato, come a dirle: «Vuoi?», e lei voleva. Ne ha addentata l’altra estremità e, con un morso solo, lo ha dimezzato, sebbene avesse un panino col salame nella mano sinistra. Il mio sguardo si dev’essere incupito per qualche istante, perché avevo fame, e il gesto di condividere il mio panino corrispondeva a una pura formalità.

    «E allora», ha ripreso Giorgia con la bocca piena, del tutto incurante del mio sguardo livido, «dovresti essere più indulgente con lei». Giorgia trova spesso spunti per difendere mia madre, anche quando non ce n’è motivo. A volte mi chiede di lei, e io non capisco mai se succeda perché Giorgia una madre non ce l’ha o perché è incuriosita dalla mia, e ne intuisce la solitudine.

    In quel momento ho visto un’amica di Giorgia che aveva seguito il corso di teatro con noi diventare, da punto sorridente in fondo al viale, figura via via più distinta. Seduta a lezione sempre due posti più in là rispetto al mio, con Giorgia che faceva da calcestruzzo in mezzo, sarebbe potuta diventare anche una mia amica, ma io ho evitato tutte le occasioni che l’avrebbero trasformata in qualcosa di più di un «ciao ciao».

    «Ciao!»

    «Ciao», abbiamo risposto in coro io e Giorgia, con un timbro diverso della voce che indicava il diverso grado di entusiasmo nel vederla. Monica ha colto quel ciao come un invito a sedersi vicino a noi. Giorgia ha sorriso, facendo scorrere con pesantezza il sedere venti centimetri più in là, nonostante ci fosse lo spazio per fare due capriole. Io, grata che avesse scelto lo scalino su cui era seduta Giorgia e non il mio, sono rimasta immobile, in silenzio.

    «Mangiate?» Domanda pleonastica: non si profilava una conversazione brillante. Monica saggiamente non ha atteso una risposta e ha continuato: «Allora, su cosa fate la tesina di teatro contemporaneo?»

    «Sono in dubbio se scegliere Gli spettri o La contessina Julie». Io avevo la bocca piena e non potevo parlare, così Giorgia si è fatta mia portavoce. «Daria invece la fa sul Gabbiano», e informando Monica guardava me, forse per rimproverarmi velatamente che non fossi io stessa a riferirne l’argomento. Capita spesso che Giorgia riempia i miei silenzi quando siamo in compagnia.

    Monica era solo il preludio a una parentesi di socializzazione forzata, perché poco dopo ci hanno raggiunto altri due compagni del corso di teatro, uno del corso di arte e due del corso di storia dell’anno scorso: tutti lì, a mostrarsi contenti per la presenza di Giorgia e indifferenti per la mia. Mentre il mio scalino era sgombro, quello di Giorgia ha cominciato a sembrare una strada di mare con le case a schiera. E gradualmente il mio silenzio è diventato assoluto, mentre gli atteggiamenti di Giorgia sempre più studiati. Il suo modo di ridere, rigenerante come una cascata di luce, veniva costretto in un risolino composto; le sue mani paffute andavano di corsa a rintanarsi fra le cosce grasse. Giorgia cessava di essere ridicola ai suoi occhi quando lo diventava ai miei, e in compagnia della gente si trasformava in una persona magra e pacata, della quale non avrei mai scelto di essere amica.

    «Ehi, oggi qualcuno ha notato la cravatta di Bonanni?» «Beh, era difficile non notarla...»

    «Perché? Com’era?»

    «Non puoi capire... era di un colore... tipo fuxia, e aveva delle strisce...»

    «Arancioni, ragazzi! Arancioni! Io l’ho sempre detto che era gay».

    «Tu sei fissato... Vedi gay ovunque!»

    «Sentite, che dicevo dell’assistente di Mosseri, e un mese dopo abbiamo scoperto che viveva con un uomo da anni? Che era gay! E, fidatevi, anche Bonanni lo è».

    «Per una brutta cravatta?»

    «Per la cravatta fuxia, per la cintura che aveva l’altra volta, per tutti i suoi atteggiamenti... Guardate che io su queste cose ci piglio!»

    «Secondo me perché sei un po’ gay anche tu». «Comunque era una cravatta assurda...»

    Giorgia dall’inizio alla fine non è intervenuta nella querelle, e la cosa non sarebbe strana in sé, dal momento che né io, né la ragazza bionda del corso di storia, né il ragazzo smunto del corso di arte vi abbiamo preso parte. Ma io sono asociale, gli altri due ragazzi sembravano terribilmente timidi, e prima che arrivassero tutti loro, ancora prima della battuta agghiacciante su Beckett e del morso di Giorgia al mio panino, io e lei avevamo riso di quella cravatta per mezzora, e Giorgia non si preoccupava delle sue mani paffute né di risultare sguaiata. In compagnia degli altri, invece, teme che una ragazza grassa che cerca di far ridere diventi necessariamente ridicola, anche se ha usato l’ironia e non un naso da clown. Come se, fra l’altro, bisognasse avere le physique du rôle qualunque azione decidiamo di fare. Vogliamo dare un bacio romantico? Non ci è concesso, se non abbiamo gli occhi azzurri di Jennifer Aniston! Vogliamo insultare chi ci ha offeso? Non possiamo, se la nostra faccia è tonda e bonaria!

    E poi nessuno di quei ragazzi ha la sua arguzia. Ma Giorgia è così: quando riceve una critica il suo volto sembra squagliarsi come cera, e per ricomporsi deve intervenire la sua fierezza, quell’orgoglio che la fa essere tagliente, menefreghista, e più simile a me.

    ​La menopausa come «femminilità rispolverata»

    Quella mattina, assorta nel verdeacqua delle mattonelle nel suo bagno, Cinzia ripensò alla sua infanzia con un sorriso. Spesso quelle mattonelle le evocavano immagini serene, e lei se ne lasciava rapire volentieri. La sensazione di benessere, però, quella volta durò poco, perché Cinzia notò qualcosa che la fece sussultare. Chinandosi per prendere la carta igienica, infatti, aveva scorto una traccia rossa sugli slip.

    Ma come, non sono andata in menopausa l’anno scorso?, si chiese, mentre con una mano si toccava la testa per prendere gli occhiali. Ondeggiando col busto, notò che le pendevano dal collo, li inforcò e si accorse che quella che sembrava una macchia di sangue era una semplice macchia di colore, risalente all’ultima lavatrice. Fu lo spunto per far compiere ai suoi pensieri un salto gigante, e passare dai teneri lidi dell’infanzia agli aspri anfratti della menopausa.

    «È finita un’èra, ma ne è iniziata una diversa, fatta di femminilità rispolverata e sicurezza di non rimanere incinta». Sebbene le apparisse patetico pensare a tale eventualità, considerato che non usciva con un uomo da più di due anni, era questa la frase consolatoria che le aveva propinato Livia, nel giorno piovoso in cui Cinzia aveva bussato alla sua porta per comunicarle con tono grave: «È ufficiale, Livia. Sono in menopausa». Cinzia, quella volta, si era sentita molto abbattuta. Improvvisamente la vecchiaia si era impossessata del suo corpo inerme, e le sue rughe erano diventate segnali mafiosi per avvertirla di qualcosa che non si poteva più scongiurare. Ma Livia era intervenuta prontamente con il suo aforisma sulla «femminilità rispolverata», quel perfetto accostamento di parole che aveva sussurrato a sé stessa quando, qualche anno prima, si era trovata di fronte alla medesima consapevolezza. Il caso di Livia però era lievemente diverso. Lei infatti poteva rispolverare ogni giorno la sua femminilità: le bastava volgere la testa verso il lato sinistro del letto, su cui giaceva l’avvenente marito, e sorridere con espressione intrigante. Cinzia invece si era resa conto ben presto che l’arrivo della menopausa significava solo sfiancanti vampate di calore. Oltre a questo e a qualche raro pianto improvviso, la menopausa non sembrava promettere altro, e di certo non le aveva aperto la strada a inesplorati orizzonti di piacere.

    Il viso indistinto di un uomo si confuse con la frustrazione generale. Era sempre lo stesso viso gentile, che non apparteneva a nessuno e la faceva sorridere di una speranza goffa, informe, che le arrossava le guance dall’imbarazzo. Pensò amaramente che a sua figlia non sarebbe importato se lei avesse frequentato qualcuno.

    Quella mattina Cinzia non era in vena di andare al consultorio, e proprio quella mattina si trovò di fronte un imberbe con la faccia da schiaffi.

    «Dimmi, Cristiano...»

    «Christian», la corresse il ragazzo, e Cinzia sentì un principio d’insofferenza pungerle le caviglie.

    «Dimmi, Christian: perché sei venuto qui?»

    «Ho sentito parlare di questo consultorio da un amico…» Cinzia aveva scoperto recentemente che fra i giovani veniva reputato alla moda dire di essere andati al consultorio. Serviva a creare quell’alone di mistero che i ragazzi si sarebbero spruzzati addosso in continuazione, se solo fosse esistito in confezione spray. Quando era giovane lei, seguire una terapia era un fatto privato, e non si andava da uno psicologo se davvero non se ne sentiva il bisogno. Ma i tempi erano chiaramente cambiati e Christian, rinnovandole quella consapevolezza, diventava ancora più urtante. La solitudine di Cinzia tornò quindi in primo piano, e lei si chiese cosa stesse facendo seduta a quella scrivania, con un ragazzo con la cintura borchiata dall’altra parte che la scrutava in attesa di qualche domanda.

    «Quindi non c’è una ragione specifica per cui sei venuto...» «Mah... una ragione specifica no. Diciamo più un insieme di ragioni...» L’inflessione marcatamente romana di Christian faceva apparire le sue ragioni ancora più pretestuose e inutili, e Cinzia avvertì che il formicolio le si stava arrampicando come una serpe dalla caviglia su per il polpaccio.

    «E qual è quest’insieme di ragioni?»

    «Per esempio, la mia ragazza lo vuole fare solo con il preservativo...» Sentire le altre ragioni, a quel punto, appariva a Cinzia una totale perdita di tempo.

    «Questo è un problema per te, Christian? Lo sai quanto è rischioso non prendere precauzioni, sia per una gravidanza indesiderata che per malattie a cui neanche penseresti?»

    «Lo so, ce l’hanno spiegato a scuola». Cinzia ammirava

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