Il diario di Cassandra
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La storia è la prima parte, dove tutto ha inizio.
Cassandra è una giovane fanciulla del 600, che vive con la famiglia in un povero villaggio dei pressi di Londra.
Tuttavia Cassandra dimostra di essere una ragazza particolare e viene denigrata da tutti per il rosso dei suoi capelli, considerato il colore del male, dalle credenze popolari. Viene inoltre additata come "la nipote della strega".
La fanciulla quindi vive in uno stato di solitudine e disagio, appoggiata solamente dall'immenso affetto che la sorellina minore, prova nei suoi confronti.
La povertà della sua famiglia, vede costretti i genitori di Cassandra a venderla in sposa ad un ricco nobile, Lord Lavitz.
Ma vuole davvero sposarla?
Le reali intenzioni dell'elegante uomo non sono quelle di celebrare un matrimonio con la giovane, ma un sacrificio.
Si rivela infatti essere un licantropo, il quale necessitava del cuore di una vergine molto particolare, per compiere un macabro rito.
Fortunatamente Cassandra viene salvata da un giovane uomo, Lord Kingsdale, nemico di Lavitz, in quanto vampiro.
Tristi vicissitudini portano in seguito, ad avvicinare Lord Kingsdale a Cassandra, la quale le propone di alloggiare nel suo castello, fin tanto non riuscirà a trovare sistemazione migliore per vivere in serenità da sola.
Tra i due scoppia una tenera e inaspettata passione, che sfocia poi in un amore viscerale, unico.
Non mancheranno tuttavia gli ostacoli, in particolare uno. L'acerrimo nemico di Lord Kingsdale: Zetesis.
Costui distruggerà il loro amore. Come?
Scoprilo immergendoti in questa avventura di emozioni, pensieri, erotismo tra i due protagonisti dell'intera serie.
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Il diario di Cassandra - Elèonore G. Liddell
Il diario di Cassandra
Le informazioni di cui sopra costituiscono questa nota del copyright: © 2015 di Elèonore G. Liddell. Tutti i diritti riservati.
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1
Un assordante silenzio. Profumo di vaniglia nell'aria. E la rassicurante quiete della pioggia.
La stava osservando distrattamente quel tardo pomeriggio. Egli si sentiva fin troppo malinconico in quel momento, ma forse era solo una stanchezza che ogni tanto lo opprimeva dentro, nelle viscere.
Era un Cavaliere vampiro, dall’aspetto di un uomo giovanissimo, con un viso talmente etereo da sembrare quasi il volto di un ragazzino. I capelli scuri ne risaltavano il pallido incarnato e opachi occhi di ghiaccio raccontavano una storia. Una storia che il Cavaliere teneva dentro, la conservava nel profondo e mai nessuno, si promise, l’avrebbe mai conosciuta.
Sebbene egli fosse d’aspetto così innocente, portava sulle spalle il peso di secoli e quella stanchezza soffocante che ogni tanto gli naufragava i pensieri, era il fatto che aveva vissuto abbastanza a lungo da disgustarsi di tutto ciò che lo circondava, da iniziare ad odiare tutto ciò che esisteva al mondo. Aveva i segni e le cicatrici di lotte, di guerre, di illusioni, di parole non espresse, di promesse non mantenute. Erano segni che quasi comparivano sul suo corpo come fossero tatuaggi impressi nella sua carne con un inchiostro magico, invisibile a molti.
Calava la sera oramai, la pioggia cessò ed il Cavaliere si preparò ad uscire.
Aveva fame.
Doveva a tutti i costi abbandonare il suo castello e andare a caccia di quegli esseri tanto insignificanti quanto gustosi, chiamati umani.
Nella piazza di un villaggio al di là del bosco in cui egli viveva, si teneva quella sera una festa.
Era una festa paesana dove soprattutto ci si divertiva tra danze e musica, frequentata da giovani donne in età da marito e per la maggior parte vergini. Un pasto delicato ma ottimo, per il Cavaliere vampiro. All’eccezionale evento partecipavano anche bambini e qualche anziano, ma egli non li avrebbe attaccati, aveva solo la brama di farsi una scorpacciata con tutti gli altri maledetti parassiti.
La piazza era ormai colma di persone, solamente un uomo mancava all’appello e in quel momento si stava dirigendo verso il portone di un teatro, quando il Cavaliere balzò addosso al malcapitato, stringendolo come una morsa dall’inimmaginabile forza e affondando i suoi perfetti canini nel collo dell’uomo. Gli strappò la carne con feroce eleganza e gli succhiò il sangue fin che la luce negli occhi dell’uomo non si spense. Lo morse e lo divorò poi con tale foga da ferirsi egli stesso. A quel punto il giovane lo calpestò, spaccandogli la spina dorsale, spappolandogli le ossa.
Fu in quel momento che il suo sguardo si posò su un curioso oggetto vicino al portone del teatro. Si avvicinò e lo guardò meglio.
Era una bambola.
Probabilmente l’aveva abbandonata lì una bambina e normalmente, al Cavaliere non sarebbe importato, ma quella bambola lo colpì.
Era molto bella, indossava un abito celeste molto elegante, quasi da principessa. Lunghi capelli a boccoli rossi, la carnagione diafana accentuata da guance rosee, le labbra scarlatte e le pupille degli occhi erano due autentiche pietre che ricordavano il mare. La sua bellezza però era sgualcita da alcune crepe sul viso e sul corpicino, il vestito leggermente strappato e i capelli arruffati.
Senza nemmeno rendersi conto di quel che faceva, il Cavaliere la prese fra le mani e la osservò. Rimase per qualche breve, ma intenso istante a fissarla. Non aveva idea del perché quella bambola lo attraesse così tanto, ma aveva un tale dolce magnetismo che decise di portarla nella sua dimora.
La cena poteva aspettare, quell’ incontro era molto più importante.
Tornato al castello egli si mise all’opera per pulirla, per pettinarla, curarla. La bambola tornò ben presto a risplendere della sua sfavillante bellezza ed emanava un’aurea di dolcezza.
Egli normalmente sarebbe rimasto quasi inorridito da un tale spettacolo, ma quella creatura così piccola e indifesa lo rapì totalmente, tanto da spingerlo a fare una cosa che poteva sembrare assurda.
La baciò. Poggiò le sue labbra ancora lambite di sangue, su quelle della bambola e a quel punto le pietre di acqua marina iniziarono a brillare, le manine scricchiolarono le dita affusolate e un lieve sussurro uscì dalla sua bocca.
La bambola aveva preso vita.
Il Cavaliere vampiro restò sbalordito e lei gli sorrise. Si guardarono a lungo negli occhi, senza dirsi nulla. La bambola lo scrutò, osservando languidamente il volto del giovane. Ad un certo punto lo ringraziò poiché nessuno si era mai preso cura di lei.
L’avevano a lungo maltrattata e derisa, senza rendersi conto che non era un semplice giocattolo, ma l’animo di una donna rinchiuso in quel corpicino. Il Cavaliere fu talmente coinvolto da quella delicata presenza che la promessa fatta a se stesso si spezzò.
Non poteva non raccontare a nessuno la sua storia. Ora c’era Lei a cui raccontarla.
Lei era riuscita a toccarlo nel profondo, a vedere le sue cicatrici. E così si aprì alla bambola e ben presto la sua storia divenne la loro storia.
Con un lieto fine, colmo d’amore.
***
Ogni volta che facevo questo sogno, mi svegliavo con un sorriso beato sul volto. Mi interrogavo spesso sul suo significato poiché non comprendevo se fosse positivo o negativo. A volte mi spaventava la figura tetra di quel vampiro, altre volte invece mi dava una calda sensazione allo stomaco.
Non potevo parlare con nessuno dei miei sogni, né di questo, né di altri. Nessuno avrebbe capito e così mi sfogavo scrivendo un diario.
Il mio nome è Cassandra McBride, nata il 12 luglio del 634 d.C. e avevo 13 anni quando cominciai ad imprimere su pergamena i miei pensieri, le mie preoccupazioni, i piccoli problemi che affliggevano un'adolescente in un'era difficile e povera.
Oltretutto, mi avrebbero condannata se avessi parlato di un vampiro, come ogni giorno quando mi additavano per strada e le signore anziane mi guardavano storto. Tutto per i miei capelli rossi, il colore del demonio, secondo le credenze popolari.
Non avevo nessun amico, i genitori dei bambini del mio villaggio, che si trovava nei pressi di Londra, non glielo permettevano di giocare con me. In compenso avevo i miei fratelli, Meredith e Kade di 9 e 16 anni.
Loro non mi detestavano, anzi alle volte prendevano le mie difese quando qualcuno mi insultava.
Vivevamo in una casetta con i nostri genitori. Non eravamo poverissimi, però non potevamo permetterci molte cose. Mia madre badava alla casa e passava maggior parte del tempo a curare il nostro orto ed i campi.
Non si curava invece granché di noi, sebbene preferisse i miei fratelli a me. Non era felice di avere una figlia con i capelli rossi, per il motivo che ho spiegato prima.
Mio padre invece, era più tollerante con me, ma il suo preferito restava Kade, in quanto maschio.
Lavoravano insieme nella bottega di mio padre, ereditata da un amico di famiglia. Faceva il falegname ed era ben voluto da tutti al villaggio. Io e la mia sorellina, invece, eravamo costrette a rammendare gli abiti o lenzuola delle signore. Un modo come un altro per guadagnare qualche moneta in più e distrarci.
Infatti non potevamo permetterci la scuola e così avevamo tanto tempo libero, forse troppo. La mia sorellina la lasciavo di tanto in tanto giocare coi nostri cuginetti durante i pomeriggi di sole.
Ed io cucivo o scrivevo brevi versetti, arti apprese da mia nonna.
Avevo sei anni quando mi insegnò a tessere, ricamare, filare la lana. Credo fosse l'unica persona della mia famiglia che mi amò , incondizionatamente, senza giudicarmi o badare ai miei difetti.
Mi coccolava con le sue storie, mi portava a raccogliere frutti nei pomeriggi di primavera oppure giocava con me sulla neve durante gli inverni più rigidi. Mi confessò una volta che ero la sua preferita, perché ci trovava in me qualcosa di speciale, un qualcosa che in nessuno o in pochi, si poteva scorgere.
Rimproverava mia madre quando si lamentava del mio aspetto. Mia nonna stessa, in gioventù, ebbe problemi con gli abitanti del villaggio, in quanto l'accusarono di essere una strega, poiché aveva una conoscenza per le erbe e le piante curative e le sapeva utilizzare in maniera a dir poco miracolosa.
L'ammiravo tanto per com'era e per le cose che riusciva a compiere. Morì soltanto qualche mese prima che io scrivessi queste pagine.
Andavo spesso a trovarla nel cimitero del villaggio che si trovava sul sentiero del lago.
Il lago, quanto amavo farmi cullare da quella piatta distesa fresca, come quel giorno.
Stavo a mollo con gli occhi chiusi ad ascoltare le dolci melodie della natura. Mi calmavano e l'acqua sentivo che in qualche modo, mi proteggeva dandomi vigore, energie.
A contatto con questo elemento, stavo davvero bene, ripuliva i miei problemi e le mie angosce.
Tranne il pensiero di quei sogni, che restava fisso nella mia mente. Infatti quando mi addormentai, caddi in balia di un nuovo sogno, questa volta un po’ meno romantico.
Il villaggio si trovava sotto assedio da alte fiamme che bruciavano tutto quello che accarezzavano e disintegravano i corpi della povera gente che urlava di dolore mentre vestiti e pelle si squagliavano al calore.
Io correvo disperata tra le vie in cerca dei miei fratelli, quando davanti a me apparve una bestia terrificante. Aveva il pelo nero e lucido, con due enormi zanne dalle quali gocciolava una disgustosa bava.
Se ne stava a due zampe, immobile a fissarmi famelico, mentre io avevo in petto il cuore che martellava all'impazzata. Solo quando si mise a quattro zampe, mi decisi a muovermi, a scappare con tutto il fiato che avevo in corpo.
Le fiamme minacciarono il mio percorso e così dovetti dirigermi verso il bosco. La bestia mi inseguiva ad una velocità allarmante. Slittai tra gli alberi ed i rovi del bosco che mi strapparono l'abito celeste ed elegante che stavo indossando.
Credo di non esser mai stata così ben vestita, ma fu ben presto ridotti a brandelli.
Correvo, mi ferivo i piedi, mi tagliavo le mani ed il viso, ma la paura di essere presa mi spingeva in avanti. Continuavo così a correre, a fuggire inseguita dal mostro e da mani di fuoco.
Ad un certo punto, arrivai al limitare del bosco. Sotto a me non vi era che il nulla più assoluto. Le fiamme inghiottivano minacciosamente tutto quello che incontravano, raggiungendo subito dopo, gli alberi del bosco. Quasi potevo sentire il calore del fuoco, alitarmi sulla schiena nuda.
A quel punto, mi raggiunse il ruggito della bestia assieme al suo alito fetido e la sua atroce presenza. Non ebbi altra scelta, dovetti saltare.
L'acqua che inalai mi fece