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Il gatto buddhista
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Il gatto buddhista

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About this ebook

I ventidue racconti di Vio Cavrini diventano una sorta di bussola magica orientata sul filo della memoria e delle emozioni più intime. Un passaporto per attraversare i continenti dalla Birmania all'Argentina, da Cuba all'India, dall'Europa all'Africa, da Bologna alla California. Cronache di viaggio e di vita si intrecciano e ci accompagnano lungo un percorso emozionante, arricchito da esperienze, a volte divertenti ed esaltanti, a volte tristi e dolorose, che dimostrano come sia possibile conoscere i sentimenti del mondo, senza necessariamente affrontare spedizioni estreme. Da queste esperienze l'autore trae un insegnamento semplice e profondo: viaggiando con sensibilità e attenzione veniamo spesso a contatto con persone e fatti che lasciano un segno nella nostra vita e a volte ci aiutano a comprenderla. “Il gatto buddhista” è il racconto che apre il volume e che, in un certo senso, è anche la chiave per la lettura delle altre 21 finestre aperte sul mondo e sull'anima. Musobianco è un gatto saltatore, ma è proprio lui o una reincarnazione? La risposta c'è, ma è solo dentro di noi.
LanguageItaliano
PublisherPOLARIS
Release dateNov 20, 2015
ISBN9788860591685
Il gatto buddhista

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    Il gatto buddhista - Vio Cavrini

    IL GATTO BUDDHISTA

    e altri racconti di viaggio

    Di

    Vio Cavrini

    per le vie del mondo

    racconti e narrazioni di viaggio

    Prima edizione cartacea: 2015

    Prima edizione ebook: 2015

    Copyright ©2015 Polaris

    ISBN 9788860591685

    La guida è disponibile anche in formato cartaceo

    Casa Editrice Polaris

    www.polariseditore.it

    Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte dell’opera può essere riprodotta, distribuita o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo, o registrata in database, senza il permesso scritto dell’editore.

    Benché sia stata prestata la massima attenzione nella raccolta delle informazioni contenute nella guida, nessuna responsabilità per eventuali danni o inconvenienti occorsi a cagione del suo utilizzo potrà essere imputata all’autore, all’editore o a chi, sotto qualsiasi forma, la distribuisce.

    SOMMARIO

    Prologo:

    La Grande Casa, dove tutto ebbe inizio

    Il gatto buddhista

    Chaco

    Fernando

    ¡Correcto, compañero!

    Vite in attesa

    La montagna di Dio

    Brigitte

    Sorrisi di pietra

    Diamanti sulla sabbia

    Il mio cinema

    Facciamo benzina e via!

    La biblioteca nel bar

    Il buio a mezzogiorno

    The Mad Greek Café

    L’ultima città nascosta

    Va’ per la tua strada, orso!

    Ettore e Piero

    L’ora sbagliata

    L’ultimo tè

    100% BLACK

    Sulle ali del vento

    Il recinto del male

    Prologo:

    La Grande Casa, dove tutto ebbe inizio

    La Grande Casa era dove abitavano nonni, zii e cugini del ramo materno della mia famiglia. Era una delle tante case coloniche distribuite dalla mezzadria nella Bassa Bolognese, tutte simili ed equidistanti tra loro. Là trascorrevo le mie giornate di bambino ancora libero dalla scuola. E anche quando iniziarono i miei impegni scolastici, passavo i pomeriggi nel suo cortile. Che é stato la mia jungla, la mia steppa, il luogo delle scoperte e della fantasia, dove penso di avere imparato ad amare i viaggi.

    La Grande Casa si trovava in aperta campagna ad alcuni chilometri dal paese. Pur isolata dal mondo, si può dire che fosse una casa normale che, tuttavia, diventava un po’ speciale, almeno per me, perché di fianco le correva la ferrovia, quasi la sfiorava. Era una ferrovia secondaria che dalla fine dell’Ottocento, quando fu costruita, ha attraversato molte vicissitudini e cambiato molte denominazioni, ma per tutti è sempre stata ed è ancora La Veneta. Per andare nei campi di là dalla ferrovia si doveva attraversare un vero passaggio a livello, custodito da un vero casello ferroviario nel quale viveva e lavorava un vero casellante con la sua famiglia. Avevano un figlio della mia età di nome Sergio.

    Da speciale la casa diventava addirittura unica, dato che poco lontano scorreva il fiume. Come tutti i fiumi della Bassa non scorreva tra due rive, ma tra due argini che si alzavano sopra la piatta distesa dei campi e che ai miei occhi di bambino sembravano altissimi.

    Il fiume e la ferrovia, arrivati da chissà dove, venivano a incrociarsi proprio lì, vicino alla Grande Casa e all’incrocio era stato costruito un ponte. Nero, tutto di ferro, enorme e impressionante e, nonostante fosse destinato al passaggio della sola ferrovia, consentiva anche un minimo, rischioso transito pedonale. Il ponte si trovava all’altezza degli argini e per arrivare lassù il binario, l’unico che c’era, impiegava alcuni chilometri di leggera e costante salita. Così, di fianco alla Grande Casa, il treno viaggiava su una massicciata alta quanto lei e dal basso potevo osservarne le ruote, le balestre e altri particolari tecnici celati alla vista laterale. Un insolito punto di vista che, per quel che può valere, ho sempre considerato un privilegio: chi ha mai potuto osservare un treno da sotto? Molti anni dopo scoprii che ai piedi della massicciata applicavo, senza saperlo, il metodo Keating, il professore del severo e tradizionalista collegio Welton, che invita gli allievi a salire sulla cattedra per far loro comprendere l’importanza di sottrarsi al conformismo per osservare il mondo da punti di vista diversi. Diciamo che quella massicciata è stata la mia cattedra. Provavo un timoroso rispetto per la ferrovia, entità troppo vasta per i miei limitati orizzonti di allora.

    Spesso mi arrampicavo sul binario e mi fermavo in alto, tra le rotaie. Di là, se puntavo lo sguardo verso la salita, verso l’argine del fiume, vedevo la ferrovia sparire, inghiottita dalle fauci del ponte di cui scorgevo solo l’inizio. Quando arrivava da quella parte, veloce perché correva in discesa, mi sembrava che ci fosse poco spazio tra me e il treno. Anche se in realtà c’era tutto il tempo necessario, temevo che una volta o l’altra non sarei riuscito a mettermi in salvo. M’intimoriva il boato che il treno generava precipitandosi sul ponte di ferro prima ancora che riuscissi a scorgerlo e che sembrava minacciarmi: Attento, sto arrivando!.

    Se invece contemplavo la discesa, dando le spalle al ponte, lo spazio si dilatava davanti ai miei occhi e con un senso di serenità guardavo le rotaie che si allontanavano e sembravano avvicinarsi sempre di più, fino a toccarsi in un punto lontanissimo e irraggiungibile. Contavo il numero delle traversine fino a quando non riuscivo più a distinguerle l’una dall’altra. Se arrivava da quella direzione, il treno appariva come un puntino remoto in lento avvicinamento - da quella parte per lui c’era la salita - e avevo tutto il tempo per aspettarlo, spostarmi dalle rotaie e vederlo sfilare accanto a me. Credo che ognuno abbia un’idea o un’immagine personale dell’infinito. A me, quando penso all’infinito, tornano in mente quelle due linee che si congiungevano all’orizzonte e quelle traversine che non riuscivo a contare da tante che erano.

    Nel 1982, a cento anni dall’approvazione del progetto, la Regione Emilia Romagna e la Provincia di Bologna dedicarono alla Veneta una mostra fotografica. Sul grande manifesto che la presentava al pubblico campeggiava una foto in bianco e nero, presa dall’alto della ferrovia. In essa solo io e la mia famiglia riconoscemmo la Grande Casa. Con tristezza la foto denunciava che erano scomparsi i grandi alberi della mia infanzia e mancava il ponte - che era alle spalle del fotografo - ma tutto il resto c’era: l’ampio cortile ormai disadorno, il casello di Sergio, il binario e un’infinità di traversine che si perdevano all’orizzonte. Con orgoglio considerai quel manifesto un omaggio alla Grande Casa, un riconoscimento tardivo che si aggiungeva al mio e che meritava da tempo.

    Il gatto buddhista

    Lago Inle, Myanmar (Birmania),

    dicembre 2010

    Da due giorni navigavamo sulle acque tranquille del lago Inle. Avevamo visitato mercati, villaggi, pagode, monasteri e botteghe di artigiani. Eravamo anche finiti, quasi senza rendercene conto, di fronte agli occhi tristi di alcune donne Padaung, con il collo torturato dagli anelli. Provenivano da una regione molto lontana a sud del lago interdetta agli stranieri. Per questo e per non rinunciare alla fiera delle meraviglie, le autorità Birmane avevano pensato di trasferirne alcune sul lago a disposizione delle macchine fotografiche degli stranieri. Un incontro angosciante nel quale ricordo di non essere riuscito nemmeno a capire se ero più turbato dalle due ragazze giovani, con pochi anelli e il collo ancora di proporzioni normali, ma già condannate a un destino atroce o dalle due donne anziane con molte rughe sul viso e molti anelli intorno al collo. Più di venti.

    Sbarcammo nel pomeriggio al monastero di Nga Phe Kyaung, uno splendido edificio costruito tutto in tek a metà del ’700 su centinaia di pali piantati nelle acque del lago. All’interno molti altari sorreggevano statue di Buddha di legno e lacca, alcune con più di cento anni alle spalle, illuminate dalla luce dorata del sole calante.

    In un angolo della grande sala che ospitava gli altari dei Buddha vidi una ventina di gatti intenti a trastullarsi, sbadigliare e pisolare. Niente di strano, eravamo nel Monastero dei gatti saltanti. Sembra che negli anni sessanta l’unico monaco rimasto nel monastero, per vincere la solitudine, passasse il tempo ad addestrare alcuni gatti a saltare in un cerchio. Da allora i piccoli felini sono diventati l’attrazione del monastero, forse più della bellezza dei Buddha che custodisce.

    All’improvviso, vincendo la naturale pigrizia, si alzarono tutti insieme e si diressero veloci verso una finestra, come ubbidendo a un ordine del Re dei gatti. Ma non erano giunti ordini da nessuna autorità felina, solo un monaco che portava la cena. Furono serviti a gruppetti in piccole ciotole e si misero a mangiare di gusto.

    Da buon felino solitario, terminato il pasto, ognuno s’incamminò lentamente verso un angolo tranquillo della sala a pensare ai fatti suoi. I più romantici fecero un elegante balzo che li portò sui davanzali delle finestre per ammirare il tramonto. Lo stesso tramonto che anch’io potevo intravedere di là dalle loro sagome scure. "Ma sono questi i jumping cats?", mi domandavo.

    Certamente no, non potevano essere loro i famosi gatti saltanti.

    Continuammo la visita del monastero e dopo mezz’ora una piccola folla di visitatori attirò la mia attenzione: tutti mi davano le spalle e guardavano in basso, davanti ai loro piedi. Li raggiunsi e mi feci largo. Eccoli i gatti saltanti. Erano là.

    Erano sei, gli unici a fare qualcosa mentre i loro compagni oziavano poco lontano. Un monaco, inginocchiato a terra, li incitava a saltare in un piccolo cerchio che teneva in mano. Dopo diversi incoraggiamenti, i gatti spiccavano a turno un salto con l’eleganza e la leggerezza dei felini e attraversavano il cerchio. Ero stupito. Io amo moltissimo i gatti e li amo soprattutto per l’abilità che dimostrano di vivere da millenni alle spalle dell’uomo senza dare nulla in cambio, a parte la fantomatica caccia ai topi. Disinteressati a tutto, solitari, indipendenti, nella mia esperienza di padrone di gatti non sono mai riuscito a determinare il loro comportamento. Anche le mie carezze sono sempre state soggette alla loro disponibilità, mai sono dipese da me. In quel momento, vedendo i gatti che saltavano a comando, come ammaestrati, vacillava in me la loro immagine.

    Appena atterrati, mi sembrava che i jumping cats guardassero il monaco con sufficienza, come per dire: Contento?. In realtà reclamavano la ricompensa, un bocconcino che il monaco offriva loro a ogni salto con un gesto furtivo. Ah, ecco! Tutto era chiaro. Erano i soliti, indolenti e indisciplinati gatti che avevo sempre conosciuto e che, fatti due conti, consideravano conveniente quel piccolo sforzo in cambio dei graditi bocconcini. Ma senza esagerare, perché avevo notato che nessuno di loro era andato oltre il terzo o il quarto balzo. Va bene saltare un po’ in cambio dei bocconcini, ma non è che si possa saltare da mattina a sera, nemmeno per tutti i bocconcini del mondo.

    Evidentemente quella era la giornata dei piccoli felini. Nella mattinata infatti eravamo andati in visita a una fattoria che allevava gatti di una razza speciale. Erano burmesi, bellissimi mici a pelo corto, lucido e marrone. La Birmania è il loro paese di origine e alla fattoria li allevavano cercando di preservare la razza originale.

    Il saltatore più bravo era un gatto agile ed elegante, bianco e nero.

    Musobianco..., sussurrai. E forse fu qualcosa di più di un sussurro, perché due visitatori mi guardarono e mi sorrisero. Era uguale a lui, era lui, Musobianco. Lo so, Musobianco era morto tanti anni prima di fianco alla Grande Casa, ma ero in un paese buddhista e il Buddismo ammette la reincarnazione. Perché non accettare l’idea che quel gatto bianco e nero fosse proprio Musobianco in una successiva vita? Ero felice di rivederlo, ma anche dispiaciuto per lui. La sua esistenza non doveva essere stata esemplare e certo non si era guadagnato meriti nelle vite precedenti, se l’avevo conosciuto gatto e gatto lo ritrovavo dopo decenni. I karma che si erano succeduti non gli erano stati favorevoli ed era ancora molto lontano dal Nirvana.

    Musobianco era troppo preso dal gioco e dai bocconcini che riceveva dal monaco a ogni salto ben eseguito per accorgersi di me. Non poteva riconoscermi e continuò i suoi balzi insieme con gli altri. Quando lo spettacolo terminò, il monaco fece un inchino agli spettatori, ringraziò tutti con le mani giunte sul petto e si ritirò. I gatti gli andarono dietro, seguendo i bocconcini. Anche Musobianco andò con lui, senza darmi il tempo di salutarlo e di raccontargli che avevo punito il treno assassino.

    Nella cascina accanto alla Grande Casa vivevano da sempre molti gatti. Vivevano della benevolenza di mia zia che li sfamava senza sottilizzare sul loro numero. Odiati da Tom, il nostro cane, che non ebbe mai la soddisfazione di acchiapparne uno, vivevano in completa libertà, non avevano un nome, figliavano fuori da ogni controllo. Sfruttavano la famiglia senza dare nulla in cambio. Pagavano invece un prezzo molto alto al treno che correva di fianco alla casa. Trascorrevano le giornate nell’ozio, ignari del mostro che correva accanto a loro cercando di ucciderli. C’erano quelli che perdevano la coda o una zampa ed erano i più fortunati. C’erano quelli che un giorno scomparivano e non li vedevamo più.

    Mi domandavo come fosse possibile che gli stessi gatti, che si arrampicavano agili e silenziosi sugli alberi per fare strage di merli e che non ero mai riuscito a sorprendere per una carezza, potessero farsi uccidere da un mostro molto più lento del più lento degli uccelli, grande come una casa e tanto rumoroso da essere udito a chilometri di distanza. E un giorno vidi come avvenivano i delitti.

    Stavo attraversando la ferrovia quando ne vidi uno, un bellissimo gatto bianco e nero con il muso bianco, accucciato sulla rotaia di destra mentre il treno gli correva incontro. Era girato verso il mostro di ferro, all’apparenza lo stava guardando. Dormiva? Il treno si avvicinava ma il gatto non si muoveva. Provai a chiamarlo, ma il rumore era ormai troppo forte. Lanciai alcuni sassi nella sua direzione, ma era troppo lontano. Quel giorno il treno mi sembrava anche più veloce del solito e in un attimo gli fu sopra.

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