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Una birra a Kathmandù: note di viaggio dal Nepal
Una birra a Kathmandù: note di viaggio dal Nepal
Una birra a Kathmandù: note di viaggio dal Nepal
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Una birra a Kathmandù: note di viaggio dal Nepal

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Reportage di un lungo viaggio compiuto nella Valle di Kathmandù, costeggiando a nord-ovest la dorsale himalayana e spingendosi sino al Terai ed il Chitwan. Uomini, paesaggi, percorsi, storia, architetture e filosofie del Nepal odierno, tetto del mondo e meta del viaggio per antonomasia, punto di incontro tra le popolazioni mongole dell’Asia e quelle caucasiche delle pianure indiane; un eden mistico - dove più di 2.500 anni fa nacque Siddharta Gautama, il Buddha - che dalle pendici delle nevi himalayane scivola nelle umide pianure indiane del sud e dove risulta difficile separare la storia dalla leggenda e quest’ultima dal folklore. Massimo cammina in mezzo a yak, sherpa, sadhu, stupa, tuk-tuk,  e trekkers , giunge di fronte all’Everest e all’Annapurna, si cala nell’inquinamento folle di Kathmandù e nel suo progresso distruttivo, si muove tra immense risaie, disordini edilizi, la Freak Street, dèi, dèmoni, birra ed alcool artigianale, induisti e buddhisti, hippies reduci e meccanici-filosofi, regole ancestrali, caos, colore, ironia, molti sorrisi e molto dolore, esaminando il quotidiano vivere nepalese e raffrontandolo con gli scritti di Giuseppe Tucci (1894 - 1984), relativi alle spedizioni da lui effettuate dal 1930 al 1956, e quelli di numerosi altri autori come Bernier, Cartier-Bresson, David-Néel, Le Bon, Levi, Maraini, Toffin. Un viaggio facile da programmare, ma difficile da immaginare.
LanguageItaliano
PublisherPOLARIS
Release dateNov 24, 2015
ISBN9788860591661
Una birra a Kathmandù: note di viaggio dal Nepal

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    Book preview

    Una birra a Kathmandù - Massimo Rossi

    Prologo

    Qualcuno mi ha domandato che cosa interessa a noi del Nepal. Ed io rispondo: dove c’è un uomo, uno solo, lì siamo anche noi, dove c’è memoria di un passato lì troveremo la modulazione nuova delle stesse illusioni, l’inveramento diverso, ma non discordante, degli archetipi dello spirito umano.

    G. Tucci

    Era fin dal viaggio in Tibet di due anni addietro che stava prendendo forma l’idea di recarmi in Nepal. Nel percorso tibetano avevo rasentato i suoi confini e condiviso una cena con un gruppo di giovani sherpa, che mi avevano chiesto cosa sapevo del loro Paese. Già, cosa ne sapevo?

    Sherpa - mongoli venuti dal Tibet nei secoli XII e XIV. Sher significa est, e Pa popolo, da qui il loro nome.

    Sapevo che era la meta del viaggio per antonomasia, un insieme spirituale e spaziale incastonato tra l’ex Tibet orientale e l’India, piano inclinato che dalle più alte vette dell’Himàlaya del nord scivola nelle calde e umide pianure indiane del sud. Sapevo che era una ex appendice esotica dell’Inghilterra ma anche l’unico Paese dell’Asia meridionale a non essere mai entrato a far parte di alcun impero coloniale; che era stato crocevia di scambi commerciali e culturali e punto di incontro tra le culture delle popolazioni mongole dell’Asia, di lingua tibetano-birmana, e le popolazioni caucasiche delle pianure indiane, di lingua indoeuropea. Sapevo che era il terzo Paese più povero dell’Asia, entrato nel mondo moderno solo alla fine degli anni 60 e dove il 33,9% della popolazione viveva con meno di 1,25 dollari statunitensi al giorno. Sapevo che era una terra complessa, dove in 147 mila chilometri quadrati vivono ventotto milioni di abitanti divisi in centoventicinque gruppi etnici diversi, sparsi tra pianure, colline e montagne, che parlano centoventitré lingue e dialetti; che era un luogo di pacifica convivenza tra hindù, buddhisti, animisti, musulmani, sikh e cristiani. Terra di yak, sherpa, yeti e stupa, paradiso dei backpacker e dei trekker, ricco di arte e monumenti, di grandiosi complessi di culto permeati di profonda e autentica religiosità, patrimonio artistico e architettonico unico. Sapevo di Kathmandù, dei suoi templi, dei villaggi disseminati nelle valli, e non potevo non conoscere l’epopea della Freak Street, dei magic-bus e del libero amore, narrata nei tanti racconti dei superstiti della mitica Shangri-Là.

    Era una terra che, assieme al Tibet, mi aveva sempre attratto per il suo alternarsi di re e regine, amori, matrimoni e incoronazioni, maharajà, principi bambini, mogli fedifraghe, primi ministri intriganti, famiglie e caste in lotta feroce fra loro. La sua storia recente vedeva il massacro della famiglia reale, un violentissimo conflitto armato interno, la fine di una monarchia secolare, il trionfo elettorale del Partito Comunista, il desiderio diffuso di emancipazione e giustizia sociale, la proclamazione della più giovane Repubblica del mondo.

    Il Nepal, quest’eden mistico situato alle pendici delle nevi eterne dell’Himàlaya, dove nacque Siddhartha Gautama, il Buddha, e dove esploratori come Giuseppe Tucci si sono mossi quando il lontano era ancora lontano. Scrive quest’ultimo, nel resoconto della spedizione effettuata nel 1952:

    Il Nepal è dunque uno dei paesi più vari e complessi dell’Asia: ricco di colore ma anche di dolore. Sotto la vivacità dei vestiti e l’allegria chiassosa dei bazar si cela come un’angoscia, il presagio di un malfido corruccio della natura; l’avverti in ogni simbolo o forma. Sotto il sorriso e lo splendore delle cupole dorate dei templi incupisce la mole rossiccia delle cappelle senza finestre, impenetrabili: le porte non aprono un mistero ma lo difendono. (G. Tucci, Tra Giungla e pagode, Libreria dello Stato, Roma, 1953)

    Per tutto questo, e spinto da quelli che Jeff Grenwald11 definisce come "pruriti e pizzicori al ventre molle dell’inconscio", ho prenotato un volo della British Airways da Londra per Delhi e un Jet Airways per Kathmandù, e sono partito. Alla ricerca di altre domande, sapendo in fondo ben poco di un posto dove non ero mai stato, e per un viaggio del quale avevo tracciato le percorrenze ma non i tempi. Un viaggio facile da programmare, ma difficile da immaginare.

    Circa un mese dopo

    Sono rientrato da poco a Kathmandù, dopo un passaggio su un kathmanbus Tata asmatico, colorato e pieno zeppo (anche sul tetto) di persone di una allegria contagiosa, capre e galline. Ho vagato per lungo tempo in una terra complessa, tra i templi, i monasteri, la Valle, l’alta montagna, i villaggi, percorrendo le Highway solo di nome e le stradine di Patan, Bhaktapur, Bungamati, Kirtipur, Ghorka, Bandipur, Sarangkot, Lumbini e decine di altri villaggi; sedendomi nelle piazze principali a osservare ed essere osservato, chiudendo le serate con un bicchiere di birra o di alcool artigianale e giungendo sino al Terai e il Chitwan. Il tutto tra templi perfettamente conservati o cadenti, persi tra le campagne o sepolti da disordini edilizi, tra immense risaie terrazzate o discariche improvvisate, tra l’aria frizzante dell’Annapurna o quella bruciata dai gas di scarico lungo la Prithvi o l’Araniko Highway, e in mezzo al festival del Dashain, dove per festeggiare la vittoria della dèa Durga sulle forze del male si dà il via alla mattanza di decine di migliaia di animali.

    Il Dashain commemora la grande vittoria degli dèi sugli spiriti maligni. Una di queste vittorie è raccontata nel Ramayana, dove il dio Ram, dopo una cruenta lotta, sconfisse e annientò Ravana, il crudele re dei dèmoni. Si racconta che Ram ebbe successo in battaglia solo quando la dèa Durga venne invocata ed evocata. La celebrazione del festival glorifica il trionfo del bene sul male, simboleggiato dalla dèa Durga mentre uccide il terribile dèmone Mahisasur, che terrorizzava la terra con le sembianze di un bufalo indiano. Durga (l’inaccessibile) è una delle molte forme di Shakti, spesso identificata come moglie di Shiva. Secondo il mito Durga fu creata con le fiamme che uscirono dalle bocche di Brahma, Vishnu, Shiva, e di altre divinità minori, per la battaglia in cui sconfisse il demone Mahisasur. Nacque adulta e bellissima, pur presentandosi ai suoi nemici con una forma terribile. Viene spesso raffigurata mentre cavalca un leone o una tigre, e con otto o dieci braccia, in ognuna delle quali porta una delle armi degli altri dèi, cedutale per la battaglia contro il bufalo-demone.

    Ho toccato con mano l’accelerazione di una storia, tradizionalmente e culturalmente impostata sulla lentezza, verso un progresso distruttivo. Il tutto sotto gli occhi vigili del Buddha, che scrutano in ogni direzione guidando le umane vicende, e a cui fanno da sfondo le vette più alte della terra.

    Esco dall’albergo in Kantipath Road e scendo poi lungo una strada senza nome, in direzione della Durbar Square. Passo accanto agli incensi fumanti di un microscopico tempietto, uno dei tanti che sbucano nei posti più impensati, messi lì da gente comune che si dedica al proprio dio prima di una normale giornata di lavoro e si sente libera di cercare il rapporto col divino nei posti che ritiene più consoni. Il divino che è in ogni cosa, in ogni luogo e dentro l’uomo, come attesta la famosa parola hindi a valenza spirituale namasté (onoro il divino che è dentro di te), sempre pronunciata unendo i palmi delle mani con le dita rivolte verso l’alto, all’altezza del petto, del mento o della fronte, e facendo al contempo un leggero inchino col capo.

    Scriveva Tucci: "Dato quest’ambiente saturo di fede e di superstizione, è naturale che il Nepal pulluli di templi più che qualunque altra regione a me conosciuta della pianura indiana. Ce n’è di tutte le età e di tutte le dimensioni. Dai grandi templi a pagoda alle piccole celle e ai minuscoli santuari lungo le strade o rintanati negli angiporti. E poi, qualunque luogo consacrato da una tradizione religiosa o da una leggenda, può essere oggetto di venerazione e di ritrovo di fedeli. Prime fra tutti le pietre, scialagrama; se ne vedono per ogni dove e si distinguono immediatamente per il rosso carminio di cui sono cosparse".

    Attraverso lentamente Durbar Square, brulicante di gente che va e che viene, passo di fronte alle sue pagode, saluto Shiva e Parvati sempre alla finestra del loro tempio in un abbraccio malizioso, sfioro il Kumari Bahal, il palazzo dove vive, dai sette anni fino alla pubertà, la Kumari, la bambina venerata come una dèa e, giunto all’imbocco della Ganga Path, svolto a destra sedendomi a un bar della Jochhne (Freak) Street poco lontana, in mezzo a gente che non mi appare estranea e a hippy reduci, con jeans e capelli bianchi, che vengono dritti da quarant’anni prima. Chiedo, con un namasté diventato ormai istintivo, una birra Nepal Ice o Everest, possibilmente fredda. Mi piace sorseggiarla lentamente e stare a osservare la vita che mi scorre intorno, cercando di vederla da diverse angolazioni, provando a immaginare le storie che mi passano accanto e gustando quel senso di libertà che deriva dall’essere in posti dove non conosci nessuno, dei quali hai solo letto in libri altrui, così come ho fatto per buona parte del mio viaggio. Potrei rimanere qui per ore, mentre passa tutta l’umanità a colori: portatori con i loro pesantissimi pacchi, santoni itineranti, tuk-tuk, mendicanti, venditori di hashish o di balsamo di tigre, scimmie perplesse, moto sguaiate, bambini vestiti tutti uguali di ritorno dalla scuola, uomini e donne che si recano ai templi a pregare e lasciare le offerte alle divinità.

    Finisco la mia birra e il mio namasté è già pronto a uscire per chiederne un’altra, accompagnata da un piatto di riso con lenticchie e verdure (dal bhat e tarkari) condite dall’immancabile curry. Mentre aspetto prendo dallo zaino le quattro moleskine con gli appunti scritti durante il viaggio, e zeppe di foglioline, biglietti ed etichette di birra: apro la prima e la stendo sul tavolo. Sì, sono tornato con molto da raccontare.

    E, allora, che la storia cominci.

    Bahal, o baha, è uno spazio quadrato o rettangolare che ha sui quattro lati abitazioni a due piani, dove le famiglie possono risiedere per generazioni (non solo quindi come unità di residenza ma anche di parentela). Tre gli elementi essenziali di un bahal: di fronte all’entrata ha un tempio dedicato a un Buddha o a un bodhisattva; presenta uno stupa o un chaitya al centro del cortile, spesso affiancato da un albero della bodhi (dell’Illuminazione); un tempio tantrico (aga) che ha all’interno una divinità segreta e il cui accesso è consentito ai soli iniziati. Alcuni monasteri sono chiamati bahi, da bahir (esterno) in quanto collocati in periferia.

    Nepal, Kathmandù. Mese di Kartik, anno 2069 per il Vikram Samvat

    Welcome in Nepal

    Vista dall’aereo durante l’avvicinamento, Kathmandù (Kantipur), posta a 1.355 metri di quota, dava l’impressione di essere un grosso pugno di riso gettato su un verde piano da biliardo, osservato severamente dalla imponente catena himalayana posta alle sue spalle, dalla quale spiccava l’Everest con i suoi 8.848 metri. Un riso sparsosi ovunque, senza aver seguito alcuna linea logica. In quel volo viaggiava con me un temporaneo consorzio umano di trekker provenienti da molti Paesi, con alcuni dei quali avevo fatto conoscenza all’aeroporto di Delhi, molti giovani turisti forse alla ricerca di miti non riproponibili all’infinito, qualche nostalgico e pochi nepalesi.

    Everest. Per i nepalesi Sagaramatha, Dio del cielo, per i tibetani Chomolungma, Dèa Madre dell’Universo.

    Scendiamo al Tribhuvan Airport (Tribhuvana antharrastriya vimanasthala), unico scalo aeroportuale internazionale della Repubblica Federale Democratica del Nepal (Sanghiya lokatantrika ganatantra Nepala), un aeroporto campestre e molto naif, assediato dalla città e dalle enormi montagne. Nessun hub, niente giganteschi autobus in attesa, ma vecchi camion antincendio e un altrettanto vecchio trattore. Un luogo dove la tecnologia sembrava essersi presa una pausa di riflessione. Scendo dalla scaletta, e una statua bronzea di Garuda (la cavalcatura alata di Vishnù) mi dà il primo benvenuto in questa terra, e in una decina di lingue diverse. Poco più in là una frase su una sorta di murale "We do not fly in the clouds because here in Nepal the clouds are made of stone" (Qui non voliamo tra le nuvole perché in Nepal le nuvole sono fatte di pietra), forse un gentile avvertimento dei piloti.

    Era il mese di Kartik dell’anno 2069, secondo il calendario nepalese (il Vikram Samvat). Ero in Nepal, il Tetto del Mondo. Ero a Kathmandù, un nome che evocava altri luoghi presenti nell’immaginario collettivo, come Lhasa, San’a, Bagdad, Machu Picchu, Timbuctù, Samarcanda, Ushuaia. L’idea che fosse una città lontana veniva rafforzata dagli addetti dell’aeroporto, che indossavano tutti una maglietta con le coordinate geografiche (27°41’N-85°21’E), forse effetto di un periodo di saldi.

    Il Vikrama è un samvat (calendario hindù costruito secondo i precetti della religione induista). È un calendario lunare (ogni anno è composto da dodici mesi e ogni mese è costituito da due fasi, quella luminosa e quella oscura, che corrispondono ai periodi di luna crescente e calante) e risulta posticipato di 56,7 anni rispetto al calendario gregoriano. Ora, anno 2012 d.C., mese di ottobre, eravamo nell’anno 2068/2069 del Vikram Samvat, calendario ufficiale del Nepal. Nella tradizione indo-nepalese il Vikrama (coraggio) sembra derivare da re Vikramaditya, che lo introdusse dopo la vittoria sul popolo degli Sciti nel 56 a. C. È spesso abbreviato in B.S. e sostituì il calendario Nepal Sambat nel 1903.

    Dopo la lunga, disordinata e divertente trafila per ottenere il visto di ingresso (rilasciato dopo un gentile welcome in Nepal da parte dell’ultimo dei cinque funzionari), esco alla ricerca dell’autista della MAB Travels & Tours di Kathmandù, che avevo contattato via e-mail molti giorni prima dietro indicazione di amici da poco rientrati dal Nepal. Il cartello "Massimo, we are here" era ben evidente e, fatta la conoscenza con Rijal Nawaraj, la guida newari che mi avrebbe accompagnato nel lungo giro attraverso il Nepal, partiamo per la città (i cartelli indicatori la davano distante dall’aeroporto sei chilometri, mentre in realtà i primi quartieri di una delle 35 Ward, cioè i distretti amministrativi, che la compongono erano appena girato l’angolo).

    Entriamo a far parte di un traffico convulso e assordante, dove motorini, risciò, autobus e macchine cariche di cose e persone corrono suonando incessantemente il clacson, incrociandosi per stradine strette e animate di gente e passando a pochissima distanza da bambini, donne, uomini e animali che, provenienti da ogni direzione, camminano tranquillamente incuranti del traffico. Un mondo dove tutto procede in un caos assoluto e geometrico, forse governato da Leggi misteriose o strani sortilegi, in un’aria pesante carica di polvere e smog. I pochi semafori non funzionano per la frequente mancanza d’energia elettrica o per l’incuria e il traffico è regolato da pochi vigili urbani, quasi sempre ignorati. Il codice della strada sembra una opzione che segue la legge della giungla: che vinca il più forte (o il più sacro)! La vacca, con il suo sguardo indolente, sembra avere la prevalenza su tutto. L’autobus ha però la precedenza sulla macchina, la macchina sul motorino, il motorino sulla bici, senza contare carretti, pedoni, capre, tuk-tuk e risciò. Tutti corrono, suonano, sorpassano, suonano o si inchiodano sull’asfalto bucherellato. E suonano. Una strada dove sembra svolgersi la vita: chi fa la doccia nella fontana pubblica, chi macella carne, chi espone, con commovente ordine, povere merci sui teli stesi a terra, chi effettua riparazioni, chi vende pentole, chi gioca, chi sta seduto a guardare il traffico. Ma tutti sul bordo della strada e tutti che respirano polvere e gas nervino di vecchie auto malconce. Quest’aria di un altro posto è, infatti, greve, e in molti fanno uso di mascherine a coprire naso e bocca. Si susseguono caotici scorci di notevole miseria, con rifiuti accatastati ovunque perché verranno raccolti nottetempo, ma che durante il giorno attirano cani randagi e mucche che frugano alla ricerca di cibo. Il tutto in una giungla di edifici con la presunzione di essere moderni e solo la certezza di esserlo stati, con piloncini di cemento armato che incorniciano mattoni rossi e dai quali sporgono i tondini di metallo arrugginito per l’armatura successiva, strutture che incrementano il senso di provvisorio che aleggia ovunque, come sui pali della luce già razionata: grosse spaghettate di fili elettrici in ogni direzione e ad altezza d’uomo. Rijal mi vede osservare con un misto di perplessità e mi dice, in italiano: Questa è Kathmandù. Io lo guardo e gli dico: È un grosso casino. Lui ride. Sì. Questa è Kathmandù.

    Kathmandù (anticamente Manju Pattana e poi Kantipur), fu fondata dal re Guna Kamadeva nel 723 d.C., alla confluenza dei fiumi Bagmati e Vishnùmati.

    La leggenda, come quasi tutte le leggende o favole basata sulla lettura sanscrita del Mahabharata e sul Ramayana, entrambi grandi poemi epici hindù, narra che la città venne fondata dal re su richiesta di Mahalakhsmi (dea della saggezza, della forza, dell’armonia e della bellezza), che gli era apparsa in sogno descrivendogli come avrebbe dovuto essere: con la forma della spada di Devi (uno dei nomi di Kalì), si sarebbe chiamata Kantipura, e gli scambi ed i traffici l’avrebbero resa fiorente. Anche gli altri dèi vollero visitare il luogo tutti i giorni, sino a che il re seguì il consiglio della Grande dèa e in un giorno propizio pose le fondamenta della nuova città: vennero costruite 18.000 case; la fontana dorata di Suvamapranali lungo la strada che porta a Thankot, in India; un luogo di cremazione a ovest; santuari a est, sud e nord. Alla fine la città venne chiamata Suvamapranali-Kantipur.

    Ma di quel periodo non rimane praticamente nulla, se non un antico documento in cui si parla dell’esistenza di un edificio in legno, il Kastha Mandap, che più tardi darà il nome alla città. Kathmandù è capitale del Nepal unificato dal 1768, da quando il re Prithvi Narayan Shah la conquistò scendendo da Gorkha con il suo esercito. Poco più piccola di Singapore, nella sua metastatizzazione verso le periferie - un vero terremoto urbanistico - si è fusa con le due ex Città Stato di Patan (Lalitpur o Yala) e Bhaktapur (Khwopa o Bhadgaon), raggiungendo i due milioni di abitanti (negli anni ‘70 non arrivava a 200.000) e diventando, purtroppo a pieno diritto, una Mega-urban region (Mur), nella quale le strade, tranne poche eccezioni, non hanno una denominazione (quindi non esistono indirizzi) e ci si orienta solo utilizzando gli incroci stradali (Chowk) principali o le piazze (Tole) - Indra Chowk, Asan Tole, Chhetrapati - utilizzate come riferimento urbano per le migliaia di esercizi commerciali, abitazioni, alberghi e ristoranti che si trovano nei loro paraggi. O ci si muove con un GPS.

    Una urbanizzazione anarchica, indice di una crescita (anche demografica) tumultuosa: la popolazione dell’area metropolitana, la ex Shangri-Là, cresce al ritmo di oltre 150.000 persone all’anno. All’interno di questo caos vi sono musei, accademie, università, gli esempi più significativi dell’arte e dell’architettura nepalese e i templi e monasteri distribuiti tra Kathmandù e la Valle, riconosciuta nel 1979 come Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Quasi come se ci fossero due Kathmandù: la capitale fiabesca ricca di storia e quella immersa nella tragica evoluzione postmoderna, con la distesa frenetica di case dai profili scomposti, ciminiere, centri commerciali, antenne pretecnologiche e parabole, homeless, vacche, polvere e smog. Così come ci sono due Nepal: quello presente nell’immaginario culturale occidentale, e da sempre idealizzato come bacino della spiritualità orientale, dove la profonda pregnanza di culto religioso e filosofico ha modellato la letteratura, le arti e il vivere comune; una terra di grande armonia e di forti contrasti, miti, leggende, riti, tradizioni e credenze popolari; un Paese dalla storia antica e dal fascino senza tempo, culla di civiltà e religioni, punto d’incontro tra buddhismo e induismo, India e Cina. Ma anche il Nepal che si infrange sulle condizioni di grave degrado politico, sociale e ambientale che, indiscutibilmente, affliggono l’intero Paese.

    In seguito a un sogno il bodhisattva Manjushri (Manjushree) svuotò la Valle dalle acque rendendola abitabile, in seguito a un sogno re Guna Kamadeva creò Kantipur (poi Kathmandù), che in seguito al progresso è diventata una Mega-urban-region da GPS, che, alla luce delle fioche lampade presenti e filtrata da una spessa coltre di smog, richiama le ambientazioni alla Blade Runner. E nasconde un vero patrimonio.

    Dopo un avventuroso giro su parte della Ring Road, la grande circonvallazione lunga ventisette chilometri che circonda tutta Kathmandù (grande come anello ma stretta e disastrata come strada), entriamo sulla Kantipath Road. Giunti quasi al termine, in direzione del quartiere di Thamel, e sempre attraverso clacson e ingorghi, Rijal, usando il Sir, mi dice che stiamo per arrivare all’hotel. La nostra conversazione si svolge in inglese. L’inglese nepali non sempre è facile da capire, ma vorrei non utilizzasse il Sir, allocuzione che ritengo si debba riservare solo a chi tiene a stare a distanza. Questo Sir accompagnato da un lieve inchino del corpo o del capo, ed eredità di una lunga convivenza con gli inglesi, mi mette a disagio.

    Il Nepal è stato protettorato nell’Impero anglo-indiano dal trattato di Sugauli del 1816, con il quale riuscì a conservare l’autonomia in cambio di tributi e cessioni territoriali, sino all’indipendenza indiana nel 1947.

    Pur comprendendo le difficoltà di una lingua che non ha il tu e il lei, gli chiedo se è un problema per lui chiamarmi con la versione inglese del mio nome: Max. È d’accordo con me, e annulliamo così in breve tempo, con il suggello di una stretta di mano, secolari distanze di natura psicologica o sociale.

    Arriviamo infine all’hotel. Saluto Rijal dopo aver preso accordi per il giorno seguente e, passando in mezzo a un gruppo di cani che abbaiano in modo ossessivo verso punti indefiniti, vado alla reception. Dopo il disbrigo delle formalità un simpatico signore, con un pastrano militare, un cappello da ufficiale e dei baffetti inquietanti, solo dopo avermi indirizzato una buona dose di Sir mi accompagnerà alla camera... salutandomi con un perfetto Aa... ttenti!.

    Dopo ventiquattro ore di viaggio, tre cambi aerei, il cibo pessimo, le lunghe attese a Londra e Delhi, la complessa ricerca dei bagagli da parte del Baggage Team all’Indira Gandhi International Airport, la Ring Road, il traffico, lo smog, i Sir, la differenza di 4,45 ore, il caldo (in ottobre 25-30°c.), sono forse un po’ stanco. Ma sono a Kathmandù. E allora via verso la zona di Thamel, poco distante, in cerca di un posto dove cenare.

    Uscendo dall’hotel, fatte poche centinaia di metri in un concerto di clacson, cani e scalpelli, arrivo all’incrocio (Chowk) con la Tridevi Marg. Alla mia destra l’imponente Narayanhiti Palace Museum, risalente al 1970. Il suo nome deriva da Narayan, una forma del dio hindù Vishnù, e da Hiti, dispensatore di acqua. Per molti anni residenza principale delle famiglie reali, fu teatro di una delle più grandi tragedie nepalesi: il primo giugno 2001, secondo i resoconti ufficiali, il principe ereditario Dipendra compì una strage nel Palazzo Reale quale furiosa risposta al rifiuto dei suoi genitori di accettare la sposa da lui scelta. Dipendra uccise il re Birendra e la regina Aishwarya insieme a una decina di parenti, tra i quali il fratello Niranjan e la sorella Shruti, e si ferì gravemente alla testa con la sua stessa arma, per poi morire dopo due giorni di agonia durante i quali era stato, assurdamente ma era pur sempre il principe ereditario, proclamato sovrano. Un orribile massacro nella Shangri-Là himalayana, capitale del misticismo. Pochi giorni dopo Gyanendra, fratello minore di Birendra che non si trovava nel Palazzo Reale al momento della sparatoria (e alla casualità sembra non crederci nessuno), sarà proclamato dal Consiglio reale re del Nepal per la seconda volta (la prima fu dal novembre 1950 al gennaio 1951, alla età di soli tre anni).

    Lascio alle mie spalle il museo, oggi meta di un turismo macabro che fa business, attraversando di corsa la strada piena di moto starnazzanti e inoltrandomi lungo la Tridevi Marg. Un cartello con la scritta Thamel trasformato nell’acronimo di "To Homely Atmosphere More Enjoyable Living" (in un ambiente familiare la vita è migliore) ne annuncia l’ingresso.

    Negli anni ‘70 Thamel era un’area boschiva posta ai confini della città, dove era presente un solo alberghetto di tredici stanze, il Kathmandù Guest-House, meta dei Beatles in cerca di canne e ispirazione. Ora è una area boschiva di insegne pubblicitarie in inglese e in devanagari, con nomi altisonanti come Himàlaya, Makalu, Yeti, Everest, Annapurna, Higlander, Adrenaline Rush, Potala, seguiti dalle specifiche Guest-house, Hotel, Inn, Resort, Trek & Expedition, Call Center, Internet Point, Cyber Cafè, Restaurant, Bookstore, Boutique, Laundry, Art Gallery, Massage, Outdoor Equipment: in pratica tutto ciò di cui i turisti occidentali possono aver bisogno. Anche un "Thamel: free wi-fi". Nel percorso incrocio lunghe file di piccoli taxi Suzuki Maruti, che sembrano già riempiti dal solo autista; questuanti o venditori di hashish che fanno apparire, in alternativa e come in un gioco di prestigio, piccole scacchiere e piastre calamitate con gli occhi di Buddha; venditori di oro che fanno solo a te l’offerta del giorno; scomposti fasci di fili della luce che attraversano le vie o che le accompagnano e buttadentro di fronte a ogni ristorante. Entro in uno dei tanti.

    Devanagari o Nagari, un sistema di scrittura risalente al XIII secolo, composto da circa cinquantadue lettere principali che si combinano per formare sillabe. Si scrive da sinistra a destra in linee orizzontali.

    Sarà un’ottima scelta. Un ipnotico Om Mani Padme Hum di sottofondo (il mantra per ottenere la liberazione, quindi la pace e la libertà dalle sofferenze), due porzioni di momo (palline di pasta bollita ripiena, in questo caso di verdure) con uno spesso velo di curry, pane tibetano e una birra Everest freddissima. Ma che scivolava giù come un ruscello. Sono l’unico cliente, cosa che inizialmente mi aveva preoccupato sulla qualità. Mangio di gusto mentre tento di erodere la Torre di Babele parlando con il proprietario e sua moglie (nelle zone turistiche l’inglese, il tedesco, lo spagnolo, a volte l’italiano, sono conosciuti), conversazione alla quale si uniranno più tardi, molto partecipi, due giovani clienti nepalesi entrati in un secondo momento, che si spostano a mangiare con me dopo una sequenza di rapidi namastè, e una ragazza e un ragazzo olandesi, trekker in attesa del volo di ritorno. Una conversazione serena, ricca di consigli su dove andare nei prossimi giorni, domande sull’Italia, l’Olanda e il Nepal, sulle differenze ma soprattutto sulle somiglianze. Un incontro che valeva bene un altro giro di birra.

    Ma tra la stanchezza del viaggio, e i tre/quarti di birra Everest, il sonno comincia ad avere il sopravvento. Lascio allora il gruppo con lunghi articolati saluti accompagnati da risa e strette di mano e lascio Thamel, nell’aria satura di un forte odore di incenso, olio, spezie, burro fritto e gas di scarico. Ritorno sulla buia strada che mi porta verso l’hotel, con biciclette, jeep, risciò, tuk-tuk e moto da schivare all’ultimo centimetro utile, come i pedoni che spuntano fra i paraurti dei taxi e i cartoni sotto i quali qualcuno dorme.

    Entro in camera e, dopo una rapidissima doccia, crollo sul letto pensando che oggi, dato il Vikram Samvat, sono 56 anni, 8 mesi e 15 giorni più vecchio, che nel lungo viaggio compiuto in Etiopia tribale, per il calendario giuliano vigente, ero 7 anni e 113 giorni più giovane, che comunque sia non riesco a ricordare la mia età e che in tutta questa confusione matematica sono davvero qui, a Kathmandù, in Nepal, il Tetto del Mon... Click!

    Il misticismo himalayano: a Pashupatinath e Boudhnath

    Qualche Homo turisticus in fuga

    Il giorno velato di uno smog marroncino mi vede fare colazione sulla terrazza dell’hotel, dopo una notte condita dall’abbaiare dei cani e dal suono di numerose campanelle. Siamo solo in tre: un inglese, un olandese e un italiano (sembra una barzelletta...). Io prendo un kheer (budino di riso) e un caffè lungo, seguendo le indicazioni del ragazzo che veniva dalla cucina. L’inglese ci guarda con l’espressione di un killer di italiani, olandesi e ragazzi che vengono dalla cucina. O forse era solo molto assonnato. Dopo la rapida colazione scendo nella hall. Aspetto Rijal, che arriverà con solo mezz’ora di ritardo, convincendomi di come il fattore tempo sia qui una variabile, alla quale spero di adeguare rapidamente i miei ritmi occidentali.

    Tucci: L’orologio cessa il suo impero: questo inesorabile distributore e padrone delle nostre ore più non serve; il tempo è scandito da altri ritmi, è segnato dal silenzioso corso del sole e della luna: le albe ed i tramonti sono i limiti necessari ed assoluti.

    Questa mattina ci sposteremo nella parte orientale di Kathmandù per raggiungere il tempio di Pashupatinath, nella località di Gaurighat (o Jaya bageswori), e poi andremo verso il grande stupa di Boudhnath. Due delle destinazioni imperdibili per la loro bellezza architettonica e dove alloggia il misticismo himalayano; simboli di fede, religione, cultura e tradizione. Il sacro, secondo hindù e buddhisti.

    Pashupatinath (Pasupatinatha, Pashupati), 27°42’35N-85°20’55E, UNESCO World Heritage Site dal 1979, Ref. 121 bis.

    Il tempio hindù più importante del Nepal e versione nepalese di Varanasi. In tutti i giorni dell’anno, dall’alba al tramonto, qui vengono cremati i defunti. Inserito nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità dall’ottobre del 1979, è a tutt’oggi il più importante centro di culto shivaita del Nepal e uno dei quattro più importanti dell’Asia.

    Varanasi o Benares, nello Stato federato dell’Uttar Pradesh, abitata da circa 4.000 anni, e dove un buon induista deve essersi recato almeno una volta nella vita.

    Il culto di Shiva si forma nei primi secoli dell’era moderna e nello stesso periodo si forma un insieme di testi, gli Agama, che contengono le dottrine relative al rito, al culto delle immagini, all’edificazione dei templi, alla condotta etico-sociale.

    Attira innumerevoli devoti da tutto il subcontinente indiano, che vengono qui a meditare o a morire e ai quali poco importa dell’architettura e della storia legata al tempio, in quanto prepotentemente attratti dal darshan (in sanscrito: visione di buon auspicio), la comunicazione con Shiva in una delle sue più importanti e antiche manifestazioni: Pashupati, Signore degli Armenti e primordiale ordinatore della terra (uno dei 1008 nomi e forme). Ma attratti anche dal fatto che la vista del lingam (oggetto dallaforma ovale, simbolo fallico considerato segno di Shiva), secondo la leggenda, gli consentirà di non rinascere nel corpo di un animale.

    Siamo arrivati qui imboccando, dal centro distante circa cinque chilometri, la Gyaneshwor Road e proseguendo poi lungo un breve e caotico tratto della Ring Road.

    Mi accordo con Rijal per ritrovarci tra non meno di tre ore, pago le 500 Rs del mio biglietto di ingresso N. 394316 (Your cooperation and support are greatly appreciated) e mi incammino lungo il viale - ornato da bancarelle di incensi, polveri colorate, campane tibetane e altri souvenir - che mi porterà sulle rive della sacra Bagmati.

    Tucci: La Bagmatì, che l’estate è quasi completamente asciutta, ma che nella stagione delle piogge s’ingrossa in piene assai spesso spaventose e distruttrici, proprio a sud di Catmandu, piega ad angolo retto verso sud uscendo dalla valle in una gola rocciosa ed angusta che è un luogo sacro per i nepalesi e intorno a cui tanto i buddisti quanto gli indù hanno creato poetiche leggende.

    Sto per entrare in uno dei luoghi più sacri del Nepal, dove il business non riesce a intaccare la spiritualità e il misticismo legati al tempio dove l’uomo diventa cenere, poi dispersa in quel fiume che dopo un lungo percorso raggiungerà i confini dell’India e la madre di tutti i fiumi, il sacro Gange (Ganga, in sanscrito, nome della dèa dell’acqua che sgorga dai capelli di Shiva).

    La leggenda relativa a Pashupatinath narra che il dio Shiva, stanco delle continue visite dei devoti che lo importunavano con le loro preghiere, avesse deciso di abbandonare, assieme alla consorte Parvati, la sua dimora a Benares sulle rive del Gange, e, trasformatosi in cervo d’oro con un solo corno (alcune fonti scrivono gazzella, altre antilope), avesse cercato asilo nelle foreste intorno alla attuale Pashupatinath.

    Per un certo periodo, gli altri dèi accettarono di farsi carico delle richieste dei fedeli di Shiva, ma dopo qualche tempo, esasperati dal doppio lavoro, si coalizzarono per convincere il dio a tornare a Benares e riprendere il suo ruolo. Vishnù il coscienzioso conservatore, Brahma il grande creatore e Indra il re del cielo e degli dèi, si recarono a Pashupatinath e catturarono Shiva afferrandolo per il corno per costringerlo a tornare alla sua forma umana.

    Il dio finalmente acconsentì, ma nella lotta il corno, spezzatosi e caduto a terra, si ramificò in quattro parti e si trasformò nel lingam, la pietra a forma di fallo che da tempo immemorabile è associata al culto di Shiva, con il suo volto scolpito (chaturmukha) nei quattro punti cardinali e rappresentante Vishnù, Surya, Devi e Ganesh (sembra ci sia anche un quinto volto, visibile solo agli Illuminati). Dopo il ritrovamento del lingam, avvenuto in circostanze miracolose da parte di un pastore che scavò nella terra che la sua mucca irrorava continuamente di latte, la zona fu trasformata nel santuario di Shiva nella sua forma di Pashupati, venerato come divinità protettrice del Nepal.

    Il viale in leggera discesa si apre su un complesso architettonico, attraversato dalla Bagmati, modesto (forse) rispetto alla architettura indiana, ma che sembra aver avuto una propria evoluzione stilistica negli edifici religiosi. Ovunque, su semplici teli stesi a terra sul largo marciapiede o su grosse basi circolari (che sembrano essere più piloni di contenimento delle due rive che altari), sacerdoti vestiti di bianco e con il cranio rasato preparano le offerte (foglie di tulsi intrecciate che contengono verdure, riso, incensi, semi, polveri colorate) accompagnandole con preghiere, mentre i guru, rivolgendosi ai propri gruppi di discepoli, sembrano disegnare in aria un percorso, una strada. Chissà per dove. Alcuni venditori espongono, disposti disordinatamente, kit di offerte da abbandonare alla corrente del fiume, collane di fiori e sacre (rudraksha), incensi, polveri colorate, immagini raffiguranti il pantheon degli dèi hindù. Sulla riva opposta, non molto distante, numerose basi per le pire ricoperte da tetti in alluminio (alcuni a tre livelli sembrano voler riprodurre la struttura a pagoda), mentre alle loro spalle spuntano i numerosissimi tetti a campana dei templi e alle spalle di questi ultimi un bosco sul quale sembra premere la città. Sulla riva dove mi trovo il marciapiede è a tre livelli, che vanno restringendosi nell’avvicinarsi al primo ponte che collega le due rive, ora affollate di officianti e fedeli. Non mancano fili elettrici ad altezza d’uomo, rivolti in ogni direzione.

    Nei primi momenti è penetrante l’odore acre del fumo proveniente dalle pire per le cremazioni, che sembra dare al tutto una atmosfera irreale. Prima del ponte ce ne sono dieci, e ne sono in funzione tre mentre una è in preparazione. Vedo in distanza gli addetti alle pire che, man mano che i corpi si consumano, aggiustano ciò che ne rimane per arderli al meglio, così da risparmiare il raro (e costoso) legname. Su entrambe le rive si affollano fedeli e turisti, bambini che giocano e si rincorrono, altri che stanno scandagliando le basse acque della Bagmati alla ricerca dei denti d’oro delle salme. In sottofondo un brusio di voci, preghiere, tamburi, flauti, campane, tablas; ovunque uomini e sacerdoti, donne con la loro sari sgargiante che si accalcano per le abluzioni a poca distanza dalle pire; sadhu veri e falsi; fedeli che attendono di consultarsi con uno dei sacerdoti presenti e ricevere le offerte da depositare sulla corrente del fiume; una platea di spettatori indiscreti dotati di potenti teleobiettivi impegnati a fotografare - senza il rispetto che ci vuole in questi luoghi sacri - le pire funebri, e tanta povera gente dalla quale proviene il mantra Om Namah Shivaya in onore del Dio della Distruzione, incaricato di rigenerare e rivoluzionare il mondo e, per questo, amato dalle caste più umili. Quasi tutti i presenti, compresi molti dei turisti, recano sulla fronte il tika (o tilak) applicato al centro della fronte, definito come il Terzo Occhio e considerato come il punto di collegamento tra lo spirito umano e il divino.

    Tika - Segno fatto sulla fronte con le dita, utilizzando kumkum - rosso, polvere di sandalo - beige, curcuma - gialla, cenere, argilla o altro. Il tika è portato da donne e uomini nelle festività religiose od ogni giorno secondo le tradizioni locali. Un sacerdote applica il tika a chi entra in un tempio come segno di benedizione della divinità.

    Il tutto in un caos straordinariamente calmo, dove colpisce l’assoluta assenza di lacrime e strazio e nel quale si muovono, in mezzo a sassi, immondizia di ogni genere e ghirlande di fiori arancioni, poche magre vacche, un gruppetto di cani, qualche Homo turisticus in fuga nauseato dal fumo delle cremazioni e decine di piccole scimmie intente a rubare le offerte di cibo. Mancavano solo uno yak e uno yeti per veder scorrere sotto gli occhi l’intero catalogo dell’immaginario esotico himalayano.

    Oltre il primo ponte un altro ponte più piccolo, oltrepassato il quale si apre, sulla destra, di fronte ai ghat un tempo riservati alle famiglie reali e raggiungibili direttamente dal tempio di Pashupatinath, una riva a gradoni ricoperti di marmo scuro. Una sorta di stadio, capace di contenere centinaia di persone distribuite su quattro livelli, su uno dei quali trovano posto anche undici cappelle votive geometricamente in linea e decine di gradinate. Al termine una stretta gola, dove la Bagmati non è più visibile.

    Vicino all’imbocco del primo ponte che congiunge le due sponde, si apre una lunga scalinata di marmo scuro, a larghi gradoni, con ai lati altre cappelle votive disposte a intervalli regolari e appartenenti a diversi stili, che in comune hanno l’essere composte da una sola stanza (spesso riparo dei sadhu), la maschera di Bhairav (incarnazione distruttiva di Shiva) su un lato e di fronte una piccola statua del toro Nandi (Nandin), venerato come cavalcatura (vahana) del dio Shiva

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