Dove nascono le madri
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La maternità è un'esperienza forte e destabilizzante anche quando tutto va bene. La protagonista di questo romanzo è madre da poche ore: la sua bambina appena nata dorme nella culla accanto al suo letto in ospedale e lei non sa neppure come prenderla in braccio. Deve imparare tutto. Il suo corpo cambia con prepotenza, e accettarlo non è facile. A casa la vita sembra spegnersi nei ritmi sempre uguali delle giornate dedicate alla cura di un essere ancora sconosciuto che deve essere nutrito e accudito. Difficile ritagliarsi un po' di tempo per suonare il pianoforte, mentre per il padre della piccola nulla è cambiato: la sua carriera di violinista prosegue senza intoppi. Spesso è assente, oppure, quando c'è, è distaccato.
Solo la natura – il bosco dietro casa – sembra accompagnare la protagonista in questo percorso di scoperta di sé, della sua fragilità e della sua forza. Mentre sperimenta la sua nascita come madre cerca un modo per rinascere come donna, rifiutando i luoghi comuni sulla maternità e sforzandosi di ascoltare i suoi bisogni. Nonostante le incertezze e i momenti di stasi, sarà un percorso nella gestazione di un'altra se stessa.
Il romanzo esplora le zone d’ombra di una giovane combattuta fra il desiderio di libertà e i doveri del nuovo ruolo di madre. Ruolo che assume il significato di rinuncia, portandola a porsi delle domande sulla sua nuova vita e su ciò che le ruota attorno.
Con questo libro Virginia Helbling ha vinto il Premio Studer/Ganz 2015 per la migliore opera prima.
Virginia Helbling
Virginia Helbling è nata a Lugano nel 1974. Ha studiato lettere e filosofia all’Università di Friburgo e ha lavorato come giornalista. È madre di sei figli.
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Dove nascono le madri - Virginia Helbling
Indice
Autunno secco fatto di foglie sbriciolate e ricci vuoti. Il vento fuori asciuga anche gli occhi. Sono immersa in una luce polverosa e insistente con le mani in grembo, addosso ho la camicia da notte. Mia figlia fino a poche ore fa non c’era e adesso dorme coi pugni serrati come conchiglie, la bocca succhia nel sonno. Ho fatto una testolina e un petto che s’alza e s’abbassa, mani e piedi piccini, ginocchia, e una spina dorsale perfetta, chiodino dopo chiodino. Gli altri bambini non mi sembrano altrettanto stupefacenti. Mastica nel sonno e inghiotte. Sospira. Ha un respiro impercettibile, controllo se è ancora viva. È rotonda, calda, gialla e rosa. Sa di latte cagliato e di sonno. Ha gambe troppo gracili e la pancia gonfia: è un feto fuor d’acqua. Era parte di me nel ventre, intima e complice; ora questo esserino si allontana, lentamente si chiude alla mia comprensione e si fa mistero. Guardandola cerco di riorientare un universo che oggi ha cambiato il suo corso lasciandomi in sospeso a mezz’aria, fra il sogno e la realtà, in quell’aura senza tempo dove nascono le preghiere. E le madri.
Sfatta. Odoro di sangue e sudore. Sotto la doccia ho il capogiro, m’appoggio alle piastrelle mentre l’acqua del getto mi punge la schiena e la pelle s’inspessisce per i brividi. Quasi mi duole a sfiorarla, è pelle di febbre, di vecchia malata. Fra le gambe non oso toccare. L’acqua mi scivola addosso e il profumo del sapone cancella il mio odore d’animale. Un po’ torno a essere io, un po’ mi ritrovo. Lei mi aspetta di là, o neppure: s’è dimenticata di me, rifugiandosi in un sonno che l’avvolge da ore. Ha dei segni violacei a forma di ferro di cavallo sulle guance, là dove il medico con i suoi strumenti ha fatto presa per estrarla come una radice dalla mia pancia.
Lei là, nel suo lettino, con le ginocchia ripiegate, e io col ventre ancora gonfio, ma vuoto, sotto la doccia. Non sarò mai più quella di prima. Anche a distanza, anche fuori di me, lei mi tiene. Le orecchie superano il rumore dell’acqua e si tendono in ascolto. Trattengo il respiro per sentire oltre la cortina dello scroscio, oltre le mura che ci separano. L’udito d’istinto s’è fatto più acuto, coglie i bisogni della bimba da impalpabili moti d’aria, dall’elettricità o dalla densità dell’atmosfera. Chiudo i rubinetti per accertarmi che non pianga. Scosto la tenda. Nulla. Il vano adibito a bagno comune è cosparso di asciugamani umidi. Alcuni appesi ai ganci, macchiati di sangue e acqua, altri appallottolati a terra; li ho scavalcati entrando. La tenda della doccia mi s’appiccica al fianco e alla spalla, mi aderisce addosso fredda con le sue labbra di lumaca. Nel vapore si mescolano bave, unguenti, umori. Non voglio né toccare né essere toccata. Tutto quello che dovrebbe finire nello scarico aleggia fra queste mura umide, rimane impigliato in una fitta rete di vischiosità in sospensione. Dal soffitto gocciola un denso essudato comune, impregna i tessuti e lambisce lo specchio rigandolo. Ho tanto schifo addosso da sentirmi sporca anche dopo essermi lavata. La luce incerta sopra il lavandino non fa che rendere più spessa la patina unta che ricopre le superfici.
Mi vedo riflessa per la prima volta, sono una mole opaca in mezzo alla nebbia. La mia immagine mi stupisce, non mi riconosco. Le natiche, la schiena, il volto, sembrano di lattice deforme. E un po’ mi fa compassione questo corpo invecchiato d’un tratto che s’abbandona, che ha dato il meglio di sé per diventare uno scarto. Ha dominato su tutto, anche sui pensieri, annullati dal travaglio, mutati in urgente sopravvivenza, ha cavalcato da solo lungo la tangenziale fra la vita e la morte e m’ha riportata salva, con una bimba in braccio.
Di là cominciano le visite. La tenda che mi separa dalla stanza si muove a ogni passaggio. Temo si possa indovinare la mia figura nuda in controluce. Sto immobile, come una bestia braccata, ad ascoltare le voci. Hanno dimenticato di mettere un asciugamano per me o qualcuno lo ha utilizzato per sbaglio. Mi passo sul corpo la camicia da notte sudata.
Le pazienti camminano trascinando i piedi su e giù per il corridoio. Non riesco a pensare. C’è l’aria stantia della stanza e dietro il letto veglia un cerchio di luce in silenzio. La signora accanto a me mangia deglutendo rumorosamente. Mi disgusta il vapore della cena che si condensa sul coperchio di plastica e ricade nel piatto, s’impasta ai sussurri e agli sbadigli, avvolge le lingue in uno sciacquio brodoso, inzuppa il pane. Sdraiata sul letto chiudo gli occhi, mentre attorno a me fluttuano corpi molli, gialli, lenzuola stropicciate in esposizione.
Mia madre entra trafelata: Come stai?
, chiede senza respiro. Bene
. L’avvolge una nuvola d’aria gelida che si scioglie subito mentre mi bacia in fronte. Perché non mi hai chiamata? Sarei venuta io a prenderti
, dice. Perché hai fatto tutto da sola?
. Erano le quattro del mattino, ho preferito far venire un taxi
. Si china sulla bimba togliendosi la giacca e il foulard. Mio Dio!
, intenerendosi: Com’è piccina!
. Vuoi prenderla?
, le chiedo. No, dorme
, ma ci ripensa: Posso?
, si scalda le mani fregandosele una contro l’altra e Helena nemmeno si sveglia mentre viene sollevata dal lettino. Una smorfia nel sonno e si raggomitola fra le braccia di mia madre come per accoccolarsi in un nido. Com’è andato il parto?
. È andato
. Difficile?
. Lungo
. Se mi avessi chiamata...
. Non t’avrei comunque lasciata entrare, penso, ma non glielo dico. Erik non viene?
, mi chiede. Non ce la fa prima di domani, stasera c’è il concerto
. Diamine!
, esclama, ma corregge il tiro: Potevi chiamarmi!
.
Me la sono vissuta così invece, con una corsa in taxi irreale. L’uomo che m’ha portata qui evitava i tombini: Come va signora?
, guidava veloce. Male, ma bene
. Lui mi deve aver raccontato della moglie, dei figli, forse di sua madre, non ho capito, c’erano le contrazioni, il rumore del motore. Non ha voluto che lo pagassi.
Se mi avessi chiamata sarei rimasta con te
, dice ancora mia madre. Lo so, ma era notte
, cerco di spiegarle, e m’è venuto in mente il taxi
. Lei storce la bocca con disappunto. La prossima volta ti chiamo, promesso
. Allora sorride e guarda la bimba. Le osservo e per un attimo mi smarrisco. Mia madre ha luce nuova. Sembra una Madonna col bambino, una nonna-madre, una Sarah. Forse finora non l’ho mai guardata veramente o l’ho fatto, ma senza distacco; il suo volto è sempre stato lo specchio delle mie emozioni. Mia madre considerata sempre e solo in quanto mia madre, mai per se stessa, a prescindere da me. Una volta non si usava tenere i bambini accanto ai letti
, rompe il silenzio lei, dormivano tutti in uno stanzone comune e venivano portati dalle mamme solo per la poppata. Quanto avrei voluto averti vicina più a lungo! Allora inventavo delle scuse, mentivo alle suore come una scolara, e mi facevo concedere un altro quarto d’ora
.
È come se sognassi, come se mi trovassi in uno strano dormiveglia con lo sguardo attento e la mente addormentata. La voce di mia madre, la presenza di mia figlia, l’immagine delle suore, lontano, in bianco e nero, le file di lettini di ferro nello stanzone a vetri sospendono il ritmo delle cose in un punto indefinito e astratto. Sfilano generazioni silenziose, volti di nonne visti in fotografia. Torna a galla un filo della storia dal profondo della mia coscienza e mi trovo a essere crocevia al contempo di chi mi ha preceduta e di chi verrà: consegnata alla storia, a un posto tutto mio. Assieme a mia figlia sono nata un po’ anch’io.
È notte fonda e Helena è con le infermiere. Non sono riuscita a capire il motivo del suo pianto. Finita la poppata ha cominciato a strillare dimenando le gambe. Si prospetta un’altra notte a metà. L’andirivieni continuo durante il giorno non mi ha permesso di riposare. Allucinata e ovattata, poco fa ho scambiato il suono del campanello d’allarme per il timer del forno di casa. Tutto in questo momento ha il potere di smuovermi dentro: piango perché sono esausta, perché oggi ho partorito una bimba e mi sembra già passato tanto tempo. Fuori c’è una falce di luna e le nuvole tirate dal vento risplendono di una luce turchina. Erik è lontano, costretto dal concerto. È bellissima
, dico al telefono, ha un faccino da folletto
e sento che anche lui, di là dal filo, piange.
Vado a riprendere mia figlia, senza di lei mi sento sguarnita.
Poianaaa!!!
. E correvo a raccattare i micini sparsi nel cortile fuori casa. Tremano ancora le code ritte sulle zampe esitanti, su quei cuscinetti rosa di pelle di cucciolo, e già i gattini si allontanano dal cesto dove dorme la madre a ventre riverso, per perlustrare il mondo con occhi liquidi e azzurri come pozze di pioggia di cielo riflesso il mattino nei boschi.
Un’ombra solca le case a circoli e lassù, vigile, a caccia, scruta metodica il vagolare insicuro dei gatti lei, maestosa regina crudele, la poiana. Ho sentito un battere d’ali veloce, un gelo fiondato dal nulla. Ero lì,