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Le tenere foglioline dei tigli
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Le tenere foglioline dei tigli
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Le tenere foglioline dei tigli

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Federica, io narrante, è architetto, da qualche anno in pensione e da un anno vedova del marito, lui pure architetto, ed abita in un bell'appartamento in un bel palazzo in una città di provincia. In un mattino di primavera Federica uscendo di casa trova nell'ascensore un morto. E' un coinquilino, un magistrato, con il quale Federica non ha mai avuto rapporti andati oltre al buongiorno ed alla buonasera. Federica chiama in aiuto altri condomini, tra i quali la sua cara amica Dina, arrivano i soccorsi, e si scopre che il magistrato è stato ucciso con un proiettile avvelenato. Federica, che si sente una novella “signora in giallo”, si prefigge di risolvere il caso prima degli inquirenti, che non sanno dove cercare, perché l'omicida è stato abilissimo nel non lasciare tracce. Così sono tutti interrogati, e tutti sospettabili, Federica, la sua amica Dina, l'ingegner Fontana, che è uscito dallo studio dell'architetto Bianchi pochi minuti prima o dopo l'omicidio, un addetto alla distribuzione di volantini pubblicitari, e tutti gli altri inquilini del palazzo. Ad uno degli interrogatori Federica, accompagnata dalla nipote Daniela, incontra l'ingegner Fontana, lui pure convocato per essere interrogato. Tra Daniela ed il coltissimo ingegner Fontana nasce una simpatia che si trasforma ben presto in un sentimento molto più profondo, in questo facilitata dagli incarichi professionali che portano l'ingegner Fontana a frequentare lo studio dell'architetto Bianchi, amico di Federica. Dina, docente di liceo in pensione, è stata insegnante di Daniela, ed è diventata per lei come una seconda madre, anzi, più cara ancora della vera madre.
Federica, che frequenta la biblioteca civica per consultare testi per una sua pubblicazione, fa una scoperta: dalla saletta di lettura si possono vedere le finestre dell'appartamento del magistrato morto, ed intuisce che in questo modo sarebbe stato quindi possibile guidare in tempo perfetto l'omicida per l'agguato. Attraverso informazioni avute quasi per caso da amici, ed intuizioni personali, Federica riesce a ricostruire con l'immaginazione lo svolgersi dei fatti, ed a procurarsi un'arma uguale a quella del delitto. Nel frattempo i giornali pubblicano la rivendicazione dell'omicidio, e di altri tre omicidi: è una rivendicazione politica, di un gruppo politico di separatisti, che si distingue per lo spessore culturale delle analisi politiche che propone. Federica mette al corrente di queste sue scoperte la sua amica Dina, e le due decidono di mettere alla prova i sospetti omicidi ispirandosi al modo nel quale, nella tragedia di Shakespeare, Amleto induce l'assassino di suo padre a tradirsi.
Il piano è stato appena abbozzato, che nella notte qualcuno cerca di penetrare nell'appartamento di Dina, il suo dobermann attacca l'intruso, che nel tentativo di fuggire cade dal terrazzo e sarà trovato morto in giardino. Le due amiche temono che l'assassino abbia saputo della loro scoperta, e che voglia eliminare le uniche due persone che sarebbero in grado di incastrarlo. Dopo qualche giorno però il morto è identificato, è un delinquente comune che voleva solo commettere un furto.
Si presenta a Federica ed alla sua amica Dina l'occasione di provare la messinscena dell'Amleto con quello che Federica sospetta essere l'omicida del magistrato. All'appuntamento arriva anche qualcun altro, che, con la sua reazione, permette a Federica di intuire quale è la verità: le due amiche tengono consiglio, e Dina, che incomincia a considerare in gran parte condivisibili le analisi politiche di chi ha eliminato il magistrato, convince Federica a seppellire per sempre la soluzione del caso con queste significative parole: “Se tu fossi vissuta a Milano prima del 1859, avresti consegnato alla polizia austriaca un patriota ricercato? Uno che, ad esempio, avesse ucciso un gendarme austriaco?”

LanguageItaliano
PublisherOrso Gatto
Release dateMar 24, 2015
ISBN9781311331458
Le tenere foglioline dei tigli
Author

Orso Gatto

Sono molto più orso che gatto. Ho compiuto i miei studi prima in un liceo classico (molto serio!), poi all'Alma Ticinensis Universitas, dove sono stato anche docente dal 1997 al 2007.

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    Le tenere foglioline dei tigli - Orso Gatto

    Le tenere foglioline dei tigli

    Orso Gatto

    *******

    PUBLISHED BY:

    Orso Gatto on Smashwords

    Le tenere foglioline dei tigli

    Copyright © 2014 by Orso Gatto

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    Questo romanzo è opera di fantasia, ed ogni riferimento a persone o fatti reali è puramente casuale.

    *********

    Le tenere foglioline dei tigli

    I

    Una bella giornata, proprio una bella giornata! La mia fedele Ida aveva fatto tutto come si deve: la casa era in ordine, la gatta aveva un'espressione soddisfatta, come di chi ha mangiato bene e si trova le lettiera ben pulita. Ida è la mia donna di servizio: io uso ancora questa ormai superata espressione, non riesco a rassegnarmi a dire colf. È al mio servizio da più di vent'anni, e viene dal contado mantovano: gobba come Rigoletto, non è sposata, ma ha una figlia ormai sposata, che vive a duecento chilometri da qui. Bravissima, come tutte le donne del contado mantovano, a fare ed a tirare la pasta, con quello strano mattarello che sembra un bastone. Finché c'era mio marito, era impegnata al nostro servizio per quattro o cinque ore al giorno. Dopo la morte di mio marito avevo dovuto ridurle l'orario, anche perché avevo intensificato i miei viaggi, e durante le mie assenze doveva solo innaffiare le piante e badare alla gatta.

    Ero dunque tornata quel lunedì sera da un bellissimo viaggio a Pisa, e mentre ripensavo a quanto di bello avevo visto, già pregustavo il prossimo viaggio, del quale già avevo incominciato a delineare meta e organizzazione con la mia amica Beatrice. Il martedì, nella tenera mattina di aprile, uscii di casa e chiusi accuratamente la porta del mio appartamento al secondo piano, con l'intenzione di fare un breve giro in città, per comprare il pane ed assaporare il piacere di passeggiare in questa città di provincia che non vi nomino per degni rispetti, come scriverebbe uno scrittore di una volta. Chiamai dunque l'ascensore, un po' perché sono pigra, un po' perché le camminate e le molte scale salite e scese nel recente viaggio avevano fatto indolenzire le mie ormai non più giovani ginocchia. Quell'ascensore, fino a quando avevo lavorato, era stato per me un miraggio: tra le otto e le nove del mattino era sempre occupato, e se non avevo tempo per aspettarlo dovevo farmi due piani di scale a piedi. Ora che potevo permettermi di uscire più tardi, lo trovavo sempre libero. L'ascensore non arrivò, con mio disappunto, ma vidi, attraverso la grata di ferro che contiene il vano dell'ascensore al centro del giro delle scale, che la cabina era ferma al terzo piano. Abbastanza contrariata, pensando che qualcuno non avesse ben chiuso la porta dell'ascensore, decisi, chissà perché, di salire un piano a piedi per poi scendere con l'ascensore. Salii decisa, già ormai rassegnata a dovermi incavolare contro chi dimostra così scarsa cura e scarso rispetto per il prossimo da non curarsi di chiudere bene le porte dell'ascensore, e sbucai sul pianerottolo del terzo piano. La porta dell'ascensore era proprio semiaperta come pensavo, ma, nell'avvicinarmi per entrare nella cabina per farmi finalmente senza fatica la meritata discesa fino al piano terra, vidi che qualcosa spuntava dalla porta socchiusa, in basso, vicino al pavimento. Una mano! Ho un carattere abbastanza forte, e mi picco di essere logica e razionale: non esitai un attimo a spalancare con forza la porta dell'ascensore per vedere di cosa si trattasse. La mano era ovviamente attaccata ad un corpo, e quello era di un coinquilino, con il quale non avevo rapporti se non molto freddi, che non erano mai andati al di là del buongiorno e della buonasera. Questo abitante del terzo piano del palazzo era un magistrato, mi sembra proprio che fosse un magistrato giudicante e, se non sbaglio, di origine meridionale. Un uomo di mezza età, ammesso che si possa parlare di mezza età al giorno d'oggi, quando ormai si può campare fino a ben oltre gli ottant'anni. L'uomo era a terra, semidisteso, per quanto si potesse estendere nella cabina dell'ascensore, e sembrava che avesse steso la mano attraverso la porta in un ultimo tentativo di chiedere aiuto, o di salvarsi. Salvarsi? Già, ma salvarsi da cosa? Non capivo, prima di tutto, se fosse svenuto o addirittura morto. Senza esitare lo presi per il braccio che si stendeva attraverso la porta dell'ascensore, ed incominciai a tirarlo, per vedere di farlo rinvenire. Toccai la mano, era calda, ed era possibile muovergli il braccio. Non c'era dunque il rigor mortis. Ricordo tutto questo in modo abbastanza disordinato, seguendo così i pensieri come mi erano venuti in quei momenti: pensandoci dopo, avrei dovuto subito dedurre che, se la mano era ancora calda, non c'era da preoccuparsi di constatare se c'era o no il rigor mortis. Ma queste considerazioni mi sfuggirono completamente, in parte perché la vista di una persona a terra inanimata turba anche i caratteri più forti, in parte perché, non essendo io un medico, ho conoscenze abbastanza limitate in materia, e, tra tante altre cose, non so fare il massaggio cardiaco. Da tempo mi ero ripromessa di imparare questa utilissima tecnica, mi ero anche informata presso la Croce Rossa e presso le altre croci della città, ma i miei impegni, e soprattutto le assenze dovute ai miei viaggi, mi avevano sempre impedito di trovare il tempo per partecipare ad uno di questi corsi. L'uomo non riprendeva i sensi. Pensai dunque di chiedere aiuto, e, non avendo altri a portata di mano per la bisogna, suonai subito energicamente ai due campanelli più vicini. Le porte si aprirono quasi contemporaneamente, e non ebbi quasi necessità di parlare perché, alla vista del corpo a terra, ormai ben evidente essendo rimasta spalancata la porta dell'ascensore, i miei coinquilini, il ragionier Costantini e la mia carissima amica Dina Dell'acqua si precipitassero in soccorso. Non rinveniva comunque, e così Dina telefonò immediatamente al pronto soccorso. Dopo cinque minuti un violento suono di sirena risuonava giù nella strada, ed in breve due volontari della Croce Rossa erano accanto al corpo. Non si notavano segni di ferite, se non una piccolissima ferita, quasi un forellino, sul lato destro del collo, dove qualche goccia di sangue aveva macchiato il colletto della camicia. Nel frattempo si incominciava a creare una certa confusione, già più di una decina di abitanti del condominio affollava il pianerottolo, il portinaio correva su e giù, un po' per aprire il portone, un po' per cercare di rendersi utile, quando, chiamato da uno dei volontari, giunse il medico, che sentenziò che di cadavere si trattava ormai. Arrivarono i carabinieri, il casino aumentò ulteriormente, con forse poca pietà per il morto, finché arrivò un magistrato per potere finalmente autorizzare a rimuovere il cadavere di un altro magistrato. Non sembrava tanto commosso né contrariato il magistrato, di fronte al cadavere del collega, che pure ben conosceva, come del resto era più che naturale in una città di provincia. Sbrigò la cosa abbastanza in fretta, e notai che, pur di fronte ad un collega morto, era molto più frettoloso ed indifferente di quanto lo fosse stato il medico, che pure doveva avere un ben più frequente rapporto con la morte e con i cadaveri, e che per di più si trovava di fronte al cadavere di uno sconosciuto, non di un collega. Ripensandoci dopo, mi sembra quasi di avere visto una specie di ghigno sulla faccia del magistrato. Chissà a cosa pensava? Forse al fatto che la morte del collega liberava un posto, e quindi dava il via ad una serie di possibili avanzamenti di carriera? Forse, almeno per lui o per qualche suo collega, non tutto il male veniva per nuocere.

    Io ero quasi altrettanto indifferente alla fine del coinquilino. Come prima i nostri rapporti non erano mai andati al di là del buongiorno o della buonasera, così ora per me passava dall'essere un cognome scritto sul citofono e sulla cassetta delle lettere ad un cognome che sarebbe stato inciso su una lapide sepolcrale. A questo punto mi accorsi che di lui conoscevo solo il cognome, Caruso, che era scritto appunto sul citofono, ma non il nome: nei quattro o cinque anni durante i quali aveva abitato nel palazzo, non mi era mai capitato di fare caso al suo nome di battesimo.

    Ovviamente, prima di andarsene, i carabinieri raccolsero i nominativi di tutti coloro che, in qualche modo, erano stati presenti, e li convocarono per quel pomeriggio stesso in caserma. I convocati erano abbastanza numerosi, così, dopo essere stata in caserma ed avere adempiuto varie formalità, fui convocata di nuovo per il mattino successivo per essere interrogata, come del resto anche tutti gli altri condomini. Ero, purtroppo, la principale testimone del fatto, ed il morto, che da vivo era per me un perfetto sconosciuto, incominciò ad essermi ben più noto, anche se tutt'altro che simpatico.

    Nei giorni successivi all'omicidio, infatti, incominciai ad apprendere, prima dai coinquilini, poi dalle domande fattemi dagli inquirenti, e soprattutto da quanto pubblicato dai giornali, fatti e circostanze che riguardavano la figura e la personalità del morto, che incominciavano così a delinearsi meglio nella mia mente. Il magistrato era arrivato da quattro o cinque anni, come inquilino, affittuario dell'appartamento di proprietà di un'anziana signora. Di lui avevo saputo fino ad allora pochissimo, e di quel pochissimo non ricordavo più neppure come e quando lo avessi appreso. Sapevo che doveva essere separato dalla moglie, o divorziato, ma non sapevo se avesse altri legami sentimentali, né quali amicizie o compagnie frequentasse in città.

    I giornali avevano corredato i loro articoli di cronaca nera con parecchie notizie sul magistrato ucciso, e così incominciai a conoscere fatti e circostanze che non solo avevo fino ad allora ignorato, ma non avrei neppure sospettato. Il magistrato si era occupato di svariati processi penali, sia qui in città che nella sua sede precedente. Esponente dell'estrema sinistra, in passato aveva scritto opuscoli di autodifesa per i militanti della sinistra extraparlamentare che si trovavano imputati in procedimenti penali, aveva firmato manifesti politici, frequentato congressi di partito, si era schierato apertamente con i movimenti palestinesi più estremisti nella loro lotta contro lo stato di Israele. Ora ricordavo anch'io le roventi polemiche che avevano suscitato alcune sue affermazioni, così estreme e così estremistiche come mai si era sentito prima di allora da un magistrato. In particolare su due episodi della vita professionale del magistrato si stava focalizzando l'attenzione dei giornalisti, e, a quanto sembrava, anche degli inquirenti. Il primo di essi era la condanna, otto o nove anni or sono, di alcuni politici di destra o di centrodestra, per propaganda di idee razziste: doveva trattarsi di esponenti di secondo piano della Lega Nord, che avrebbero commesso il fatto in occasione di una manifestazione da loro promossa contro il bivacco di immigrati clandestini nei giardini pubblici. A quel tempo il magistrato non era nella nostra città, e, per quanto ricordassi abbastanza vagamente quel fatto giudiziario, del quale avevano parlato i giornali, e dal quale avevo avuto una sgradevole sensazione di mancanza di libertà d'opinione in Italia, non mi era certo rimasto in mente, ammesso che lo avessi allora appreso, il nome del magistrato che aveva emesso la sentenza.

    Il secondo dei due episodi della sua vita professionale ricordato dai giornali era legato ad un procedimento penale per usura, che si era concluso circa tre anni or sono con la condanna di cinque imputati.

    Dai giornali avevo poi appreso che la moglie del magistrato, dalla quale era separato ed in procinto di divorziare, aveva le sue stesse idee politiche, ed esercitava la professione di avvocato nella città di origine sua e del marito. I due non avevano figli, ma i contrasti tra loro per motivi economici erano molto forti. Addirittura, come appresi in seguito, la moglie del magistrato aveva sporto querela contro di lui, e pare che in più di un'occasione si fosse arrivati alle percosse.

    Quel caso capitatomi inaspettatamente tra capo e collo era per me un'esperienza nuova, che mi faceva toccare con mano le analogie, e soprattutto le differenze, tra un caso reale ed i casi televisivi, come ad esempio i film polizieschi della Signora in giallo, che mi era sempre piaciuto vedere alla televisione.

    Dopo quell'avvenimento, infatti, si susseguirono, più o meno convulsamente, in modo più o meno ordinato, e soprattutto con una logica che in parte mi sfuggiva, tutta una serie di altri avvenimenti, di adempimenti burocratici e giudiziari.

    Così, dopo che più volte ero stata interrogata, e mi avevano chiesto a che ora precisa fossi uscita dal mio appartamento, che cosa avessi visto o notato quella mattina, se avessi notato persone sulle scale, se avessi notato persone aggirarsi nei giorni precedenti, o fatti strani o degni di nota nei giorni precedenti, io, che non avevo mai commesso attentati, e neppure ne avevo mai organizzati, dovetti, sulla base di tutte le domande che mi venivano fatte, incominciare ad entrare nella mentalità di chi organizza un attentato: come si sceglie l'obiettivo, come si fanno sopralluoghi per familiarizzarsi con lo scenario dell'attentato, come si superano ostacoli come portoni chiusi, portinai curiosi, telecamere, vigilanze armate sui possibili obiettivi degli attentatori. Ed ancora, come si fugge o ci si mette in salvo dopo l'attentato, come si distruggono o confondono le prove, come ci si camuffa e come si elimina il camuffamento. Alla fine di questo iter nel mondo degli attentati e degli attentatori, mi sembrava di saperne abbastanza per ammazzare una dozzina di magistrati senza correre il rischio di farmi prendere.

    Ma è giunto il momento di tralasciare le anticipazioni di quanto doveva poi accadermi di scoprire, e di procedere con ordine nella narrazione.

    II

    Dopo tutto quello che vi ho anticipato, occorre che vi riveli prima di tutto chi sono, cosa faccio e cosa facevo, perché abito in quel palazzo, come avevo conosciuto mio marito.

    Mi chiamo Federica e fino a tre anni fa facevo l'architetto. Nata in una cittadina di provincia, figlia di un geometra che esercitava in quella cittadina la libera professione, dopo il liceo classico avevo studiato al Politecnico, laureandomi in architettura. Ricordo ancora il giorno della mia laurea: anche in quell'occasione, a causa del mio carattere, la mia situazione, in quel giorno per me così particolare, era stata ben diversa da quella dei miei compagni. Quasi tutti erano accompagnati, dal fidanzato o dalla fidanzata, da papà e mamma. Io non avevo nessuno, perché non avevo voluto nessuno, e quel giorno pranzai come gli altri giorni

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