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Pescare si può
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Ebook59 pages48 minutes

Pescare si può

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La murena l’ho sempre considerata una preda facile. È spesso nascosta in antri stretti e bui, e se la scorgi fuori della tana si sente in pericolo, fugge e si rifugia subito nell’anfratto più vicino, ma altrettanto rapidamente si gira e ostenta il suo feroce muso scuro e maculato all’aggressore, spalancando le fauci, e mostrando minacciosamente i denti.
Con quegli occhietti da serpente e quelle due piccole appendici nasali, fluttuanti ai lati del muso, è piuttosto brutta a vedersi. Ma purtroppo per lei questo modo di fare che sembra una minaccia, la espone ad essere facilmente inseguita e catturata. Raramente viene uccisa al primo colpo.
Quando la fiocina la colpisce, ne trapassa il corpo di serpente più volte e quando la sfili dalla tana – quasi sempre viva – assume le sembianze del simbolo del dollaro!
Il problema non è catturarla, ma ucciderla. Non lo puoi fare in acqua perché i suoi denti affilati come quelli dei gatti intimoriscono e quando – in barca – la sfili dalla fiocina, devi stare molto attento alle mani. Quando in barca sviti il puntale dall’asta, la fai cadere sul fondo cominciano i guai, perché inizia a dimenarsi freneticamente come un grosso serpente. Non riesci ad afferrarla in sicurezza e rischi di essere addentato ai piedi. Avevo trovato un metodo pratico per risolvere il problema….
In “Pescare… si può” l’autore, nella sua lunga esperienza di pescatore dilettante, racconta alcune interessanti catture di murene, cernie, torpedini elettriche, “civette” e piovre, col fucile, la lenza e le reti, nei mari di casa nostra, vicino Roma. Anche con uno speciale e insolito attrezzo da pesca, che ha visto in azione una sola volta, ma che – secondo lui – potrebbe presentare interessanti prospettive…
LanguageItaliano
PublisherAbel Books
Release dateOct 21, 2014
ISBN9788867521210
Pescare si può

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    Pescare si può - Marco Biffani

    9788867521210

    PESCARE… SI PUÒ

    Ero un appassionato di caccia subacquea e quando posso la pratico ancora.

    Da ragazzo sono andato per anni in villeggiatura, d’estate, a Santa Marinella.

    Una simpatica cittadina sul mar Tirreno a pochi chilometri da Roma, famosa per essere stata sede dell’antico porto etrusco-romano di Punicum, dominata dal castello Odescalchi, ma anche per la sua aria particolarmente salubre.

    In quei lunghi e ripetuti periodi di contatto con il mare ho imparato a nuotare discretamente e ad apprezzare i meravigliosi fondali di quelle zone.

    Fondali prevalentemente rocciosi, con rocce di tutte le configurazioni, tondeggianti, scavate, ma spesso listellate, frastagliate, piegate, come quinte, che si susseguono talora come lame, ricoperte di fluttuanti alghe nastriformi e nei cui anfratti trovano riparo soprattutto saraghi, polpi, murene e innumerevoli altre specie di pesci.

    Ma soprattutto in mezzo a tutti i tipi di rocce la fanno da padroni i ricci di mare.

    Anche a pochi metri dalla riva.

    I ricci sono sempre stati per noi ragazzi delle vere e proprie spine.

    A Santa Marinella di spiaggia ce n’è pochissima e di sabbia altrettanto, sia sul bagnasciuga che sott’acqua. È quasi tutta roccia. E basta mettere un piede in acqua per rischiare di pungersi con le miriadi di ricci che popolano il fondale.

    Con un ago o una spilla, le ragazze del gruppo si erano specializzate nella estrazione degli aculei da piedi, gambe, glutei e mani. Non c’era giorno che noi ragazzi non avessimo bisogno della loro opera. Sembravano anche prenderci gusto nel punzecchiarci.

    Se volevi anche solamente fare il bagno vicino alla riva, dovevi munirti di zoccoli o scarpette dalla suola spessa. Altrimenti era inevitabile calpestare un riccio.

    Così noi ragazzi ci allontanavamo sempre dalla riva per non incappare in questo inconveniente.

    Dovevamo indossare la maschera per vedere dove si andava, dove si mettevano i piedi. L’uso del boccaglio diveniva indispensabile.

    E fra una cosa e l’altra si diventava prima osservatori per necessità, poi cacciatori subacquei per divertimento e sport.

    Il fondale era talmente pieno di alghe nastriformi che dopo ogni mareggiata se ne accumulavano sulla battigia mucchi impressionanti che i bagnini dovevano faticosamente raccogliere e allontanare.

    Soprattutto allo stabilimento balneare Pirgus che era delimitato da una scogliera.

    Quando si seccavano al sole fra gli scogli, mandavano un odore particolare, che ho sempre pensato fosse quello che attribuiva a Santa Marinella quell’aura di stazione salso-bromo-iodica, salutare per i polmoni.

    Il pesce allora non mi piaceva. Se potevo facevo volentieri a meno di mangiarlo.

    Preferivo la carne e la pastasciutta.

    Mi stimolava la caccia.

    Così mi sono fatto una discreta cultura in particolare su polipi, murene, razze, torpedini elettriche, cernie, pinne nobilis etc.

    A Santa Marinella di polipi se ne trovavano molti. Anche a cinquanta centimetri di profondità e a pochi metri dalla riva!

    Al tramonto, quando il mare era calmo, seduti in sdraia nello stabilimento, saturi di sole e stanchi della giornata, si assisteva alla pesca dei polipi con lo smacchietto, che il bagnino e qualche pescatore locale effettuavano a meno di venti metri dalla riva.

    In piedi sulla parte anteriore della barca, avanzavano lentamente sull’acqua spingendola con delicatezza mediante una lunga e sottile canna che poggiavano sul fondo del mare profondo un braccio.

    Quella fragile canna, che costituiva anche l’arma per la caccia, presentava sulla estremità anteriore dei grossi ami, fissati con del nailon, a formare una ancoretta.

    Era uno spettacolo quasi ipnotico, vedere sullo specchio lattiginoso del mare, alla luce soffusa del tramonto, riflettersi sull’acqua immobile l’uomo e la barca che si muovevano come al rallentatore, con il pescatore in piedi sull’imbarcazione intento a scrutare il fondo del mare alla ricerca dei polipi. Quelli piccoli. I più teneri e ambiti.

    Ogni tanto si immobilizzava, estraeva la canna dall’acqua, la girava e con uno scatto improvviso arpionava un polipetto.

    Lo tirava fuori, lo staccava dagli ami e lo buttava in un contenitore che si intuiva all’interno della barca.

    Poi ricominciava il lentissimo procedere, l’osservazione e la cattura.

    Quello che mi incuriosiva era che, ogni tanto, si chinava sulla punta della barca, estraeva un pennello da

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