I bambini e la fotografia
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In realtà il patrimonio grafico e visivo della primissima infanzia è profondamente suggestivo, ricco com’è di degli apporti scaturiti dalla vivace gestualità, inoltre, non si può negare, per esempio, che, quando “scarabocchia” il bambino appare molto concentrato in un operazione di riconoscibile equilibri compositivo.
Quel tipo di scrittura infantile si compie all’insegna della cattura della luce e nella comunicazione, data dal movimento del braccio sul foglio, quindi dalla possibilità concreta di decidere come determinare il proprio spazio visivo.
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I bambini e la fotografia - Roberta Ricci
Roberta Ricci
I bambini e la fotografia
Abel Books
Proprietà letteraria riservata
© 2012 Abel Books
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Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
Abel Books
via Terme di Traiano, 25
00053 Civitavecchia (Roma)
ISBN 9788867520084
Capitolo 1
IL RAPPORTO FRA IL DISEGNO INFANTILE E FORMA
Molto spesso, parlando del disegno di un bambino di pochi anni di vita, ci accorgiamo di alludere allo scarabocchio, ma senza possedere i materiali per una esemplificazione: raramente, infatti, i genitori, conservano i disegni del loro bambino piccolissimo. Si comincia a disegnare, con riconoscimento ufficiale solo quando si raggiunge lo stadio figurativo e quando, con una certa precisione si afferma il contenuto del proprio lavoro.
In realtà il patrimonio grafico e visivo della primissima infanzia è profondamente suggestivo, ricco com’è di degli apporti scaturiti dalla vivace gestualità, inoltre, non si può negare, per esempio, che, quando scarabocchia
il bambino appare molto concentrato in un operazione di riconoscibile equilibri compositivo.
Quel tipo di scrittura infantile si compie all’insegna della cattura della luce e nella comunicazione, data dal movimento del braccio sul foglio, quindi dalla possibilità concreta di decidere come determinare il proprio spazio visivo.
Herbert Read, ancor prima di Rhoda Kellog aveva messo in luce, la possibilità pedagogica di educare con l’arte, di insegnare a bambini ed adulti ad usare utensili e strumenti di altro tipo per potere coltivare i modi dell’espressione affinandoli con l’uso.
Il disegno del bambino comincia ad avere così numerose sfaccettature critiche, da una parte la libera espressione gestuale e compositiva, movimento manuale che cattura la luce, palesarsi del desiderio espresso attraverso una specie di mandala che raffigura un ipotetico sole, dall’altra si ha la comunicazione espressa da gesti che traducono invece in scrittura lo spazio e i suoi rapporti di dipendenza con la corporeità.
Le prime fasi del disegno infantile costituiscono un puro e semplice avvicendarsi di movimenti che Rhoda Kellog descrive come ‘naturali’ e che avrebbero ragione di esistere anche se una penna non ne ‘congelasse i contorni’.
Altrettanto legittima è la spiegazione offerta da Rudolph Arnheim, sulla fisicità del movimento del bambino espressa nel foglio, fisicità data dal fatto che, secondo lo studioso, il corpo umano, le cui articolazioni sono collegate al principio della leva, fa apparire come circolari i primi movimenti, che verranno successivamente affinati dalle condizioni di evoluzione della prensione e dall’autocompiacimento ottenuto dal vedere un prodotto della propria gestualità.
Il disegno del bambino è quindi essenzialmente un’ opera di cattura della luce, attraverso un pigmento che la tratti o la rifletta, sia dato questo da un pastello o da un acquarello, o da una tempera. Il movimento prodotto, nel fare scorrere una pena su una superficie ferma la luce, surgelandone i particolari.
La stessa luce fungerà da supporto per la conquista dello spazio e dei suoi simboli.
Il bambino può disegnare su molti piani: orizzontale, verticale, laterale, frontale. Formerà quindi le stesse virtuali modifiche sul suo spazio calligrafico e per traslato in quello visivo. Fra gli studiosi, Mc Luhan non ha mai sottovalutato l’importanza della luce, analizzando, per esempio, il passaggio dalla luce naturale a quella artificiale. Quella luce, che, beninteso condiziona una tecnologia, un criterio di emissione dei messaggi: televisione e cinema per esempio. In altre parole è la luce che articola, sfaccettandolo, il sociale.
I media sono prodotti di questa luce: sono infatti caratterizzati da una sfera calda ed una fredda, questo significa che essi possiedono un’alta e una bassa definizione di particolari, che suggeriscono alla vista un insieme di differenti condizioni.
Abbiamo, con il disegno del bambino, un medium freddo come il geroglifico o l’ideogramma, realizzato però sul medium caldo offerto dalla carta, che serve a unificare orizzontalmente gli spazi. La carta, la superficie che attrae i pigmenti colorati, fonda il primo rapporto visivo della scrittura e compone nel movimento la fusione della luce e del medium. Il disegno del bambino è quindi qualcosa di più un semplice scarabocchio, è un simbolo, una orma iniziale, di una futura immagine che si basa su due presupposti: la comunicazione e lo sviluppo di questa comunicazione.
Rhoda Kellog insiste giustamente sull’autonomia dei linguaggi fornendo, in questo, una ricerca su larga scala dei disegni infantili, ricercando l’uomo nel bambino, così come Desmond Morris lo ricerca con i primati non umani, fornendo una serie di elementi per avvicinarsi a linguaggi altrimenti inafferrabili.
Rhoda Kellog non estende però la sua ricerca nell’investigazione visiva del bambino, data da un controllo costante dagli stimoli da cui egli attinge informazioni (R. Khellog: Analisi dell’arte infantile op. cit. p.14).
Gestalt significa forma, e la teoria della Gestalt ci dice che quando un bambino guarda i suoi scarabocchi, la retina dei suoi occhi vede milioni di puntini riflessi dalle linee e dalla carta.
Il cervello del bambino deve organizzare questi punti in forme riconoscibili, e cioè in forme che abbiano un senso.
Inoltre secondo la teoria della Gestalt, la percezione ha un fondamento fisiologico: l’organizzazione percettiva è qualcosa che nasce come caratteristica fisiologica del sistema nervoso.
Questa autrice, raccogliendo un vastissimo materiale in vent’anni di ricerca nelle scuole dell’infanzia, ha messo a punto una sorta di sillabario gestuale a cui il bambino attinge per poter inscrivere dei riferimenti nella società dell’adulto.
Sostanzialmente, l’attività grafica trova quindi un suo repertorio universale, nelle venti organizzazioni linguistiche che riporteremo.
Ci si può riferire a Jean Plaget, per quanto riguarda le componenti culturali e naturali dello sviluppo del bambino.
Esso si mostra anche quando si individuano le tracce di un linguaggio gestuale generalizzabile a qualsiasi razza umana.