Lo sguardo del diavolo: Jeffrey Dahmer
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Lo sguardo del diavolo - Andrea Franco
3092).
Prologo, poco prima della fine
Agosto 1994
— Mi dispiace.
Jeff sente la sua voce come se giungesse da un luogo lontano, un luogo dove a volte crede di ritrovare persino se stesso. Anche se quella sensazione dura sempre troppo poco. Un quasi niente. Una volta l’aveva pensata a quel modo. Un luogo del quasi niente. Ma tutto svaniva in fretta e tornava quel buio strano e denso, con quelle sensazioni che arrivavano da chissà dove e che si portavano appresso sempre tante immagini inspiegabili. Un dolore sordo e quella paura che non andava via, che rimaneva lì, appiccicata addosso come una bava viscida.
Sente la sua voce, Jeff, come una cantilena lenta e cadenzata. Non li conta più da tempo i mi dispiace
che ha mormorato a mezza voce. Forse non li ha mai contanti veramente. Perché troppo spesso non ha nemmeno capito se gli dispiacesse davvero. Ma era quasi un modo per riportare l’ordine. Una formula che almeno sembrava funzionare per tranquillizzare suo padre.
Mi dispiace. E tutto torna in pausa. Quasi tutto, almeno. Poi il terrore ricomincia a muoversi lentamente, un passo alla volta. Fino all’oscurità successiva. Sempre più vicina, sempre più pungente.
— Mi dispiace — mormora di nuovo, poi china la testa ed entra nella piccola cappella della prigione. Non c’è nessuno. Solo lui, il Cristo, appeso lì in alto a soffrire senza dire nulla. E le ombre di quello che Jeff ha fatto. I sospiri di troppa gente che adesso non c’è più. Li sente tutti attorno, Jeff, anche in quel momento, mentre incrocia lo sguardo assente di un uomo afflitto e crocefisso, che magari ha altre cose a cui pensare, altre anime da mondare. Peccatori meno peccatori di lui, probabilmente solo più umani. Con meno luoghi buî nell’animo. Con meno mi dispiace
alle spalle.
Avanza lentamente. Cinque passi. Li conta ogni volta, Jeff. Cinque passi ed è sotto al crocefisso, al centro di quel piccolo regno di pace e penitenza.
Si mette in ginocchio, lasciandosi quasi cadere. Poggia le mani sulle cosce, le braccia si adagiano sulla pancia che comincia a farsi prominente, da quando si trascura, da quando il suo corpo segue la putrefazione del cuore. Scuote la testa lentamente e sussurra poche parole confuse, incomprensibili quasi a se stesso, un flusso di mormorii sconnessi.
— Io non volevo fare soffrire altre persone — dice a mezza bocca. — Veramente. Veramente.
Socchiude gli occhi e sospira. Anche questo lo dice ogni volta. Non volevo fare soffrire altre persone. Sempre al Cristo, fermo lassù, muto. Quasi lo stesso sguardo perplesso di suo padre. Lo sguardo di chi non riesce a credere e non sa cosa fare. Lo sguardo di chi teme di comprendere tutto fino in fondo, allora prova a immaginarsi un’altra realtà.
— Padre — mormora, mentre nella testa, nelle ombre del delirio, il volto triste e afflitto di suo padre si confonde con quello del Figlio di Dio. La stessa sofferenza, in quello sguardo. Ma nessuna luce che possa farsi strada attraverso quelle tenebre incoerenti e folli.
— Cristo legge nei nostri cuori — dice qualcuno alle sue spalle.
Jeff si volta e fissa l’uomo che adesso lo osserva dall’ingresso della cappella. Non lo ha sentito arrivare. Annuisce, poi torna a concentrarsi sui propri pensieri.
L’altro insiste. — Lui ti sente anche se non parli.
— Mi dispiace — recita Jeff, ancora quelle due parole — ma questo è il mio modo e…
— Così non funziona — ribatte l’altro.
Jeff torna a voltarsi. Lo fissa con decisione, stavolta. L’ha visto altre volte. Un assassino, pure lui. Un altro animo del demonio. Frena l’istinto che gli suggerisce di alzarsi, e dice: — Questo è il mio modo. — Poi studia con agitazione la reazione dell’altro. Attende che questi annuisca. Poi finalmente l’uomo scivola via, oltre la soglia, e Jeff è di nuovo da solo. Con Gesù Cristo e i sospiri delle persone che ha ucciso.
Mormora ancora qualche frase, ma adesso è teso. Quell’uomo l’ha scosso, ha interrotto un momento intimo che lui non vuole condividere con nessuno. Ha già troppe livide fantasie da curare per potersi preoccupare di predicatori dell’ultima ora. Troppe volte ha dovuto ascoltare in silenzio le strigliate del padre e di Shari. Lì dentro, almeno lì dentro, a quattr’occhi col suo silente interlocutore, vuole essere lasciato in pace.
— Non farò più del male a nessuno — dice, quando crede di aver ritrovato un po’ di calma. Sta per aggiungere altro, ma i passi di qualcuno lo distraggono. Respira a fondo, chiudendo gli occhi e stringendo con forza i pugni.
Ma questa volta nessuno parla. I passi si fermano e rimane solo il respiro di un intruso, pochi passi dietro di lui. Una presenza invadente e scocciante. — Lasciami solo — mormora Jeff, senza voltarsi.
Nessuna risposta. Solo quel respiro. Poi un passo, leggero.
— Ho detto che… ah!
Il colpo arriva improvviso e Jeff grida.
— Devi morire, infame — grida l’uomo che adesso lo tiene fermo con un braccio attorno al collo. — Tu sei un mostro!
— Ah, lasciami… — Jeff grida con tutto il fiato che ha in gola e si dibatte con frenesia. Sente un calore anomalo diffondersi al fianco, accompagnato da un pulsare sordo. Nessun dolore, tranne il colpo iniziale.
— Sei solo uno schifoso mostro — mormora l’uomo, nell’orecchio.
Jeff prova a tirarsi su, poi si lascia andare e cade nuovamente in ginocchio, trascinando l’altro con sé.
— Parlare con Dio non potrà salvarti la pelle!
— Aiuto! — grida Jeff. Stringe i denti con rabbia, serrando la mascella.
Prova a liberarsi ancora una volta dalla presa dell’aggressore, ma senza successo. È più forte di lui e la lama del coltello è ancora infilzata nel fianco. Ogni movimento adesso è un dolore acuto, anche il solo respirare.
— Ehi, voi… Fermi! Cazzo combinate?
Qualcun altro grida dall’ingresso della cappella.
— Ho detto che dovete fermarvi!
Una guardia, intuisce Jeff. Voce ferma, tono deciso di chi è solito impartire ordini.
Poi si sente scuotere. Il rumore di un paio di colpi e i gemiti dell’uomo che lo tiene fermo esplodono a poche dita dalle sue orecchie. E finalmente questi molla la presa. E anche il coltello scivola via. Un risucchio ed è a terra, metallo contro il pavimento freddo. Lordo di sangue. Jeff cade in avanti e ruzzola sulla schiena. Una mano corre alla ferita, mentre a pochi passi da lui la colluttazione dura ancora pochi istanti, dominata da un manganello che cala pesantemente. Bestemmie e imprecazioni nella casa del Silente Confessore.
Sorride, Jeff, abbandonando la testa sul pavimento. A occhi chiusi. Poi sente altri passi, e voci che si accavallano in modo disordinato. Qualcuno accanto a lui. Altri respiri, altri passi, altre voci.
— L’hanno ammazzato? — dice un uomo.
Solo un breve silenzio.
— No, questo lurido ha la pelle dura.
— Dovremmo lasciarlo morire nel suo sangue — un’altra voce, più distante.
— E magari lasciarlo mangiare dai topi — commenta qualcuno.
Solo guardie, attorno a lui, adesso. È una di loro che gli sputa in faccia, sprezzante. Per un po’ non parla nessuno. Jeff rimane immobile, senza aprire gli occhi. Sente di dover dire qualcosa, ma nella sua testa prendono forma solo due parole: mi dispiace
.
Allora preferisce tacere.
Dopotutto, ha mentito già troppe volte.
Scommettiamo?
1978, oggi…
— Ma cerchi un passaggio o stai facendo una sfilata?
Jeff si sporge dal finestrino dell’auto e guarda il ragazzo con un sorriso. È una giornata calda e la camicia dell’autostoppista adesso è legata alla vita, gualcita. Ha un bel fisico, asciutto e atletico e i muscoli guizzano sotto la pelle. Una folta capigliatura corvina, che ondeggia quando piega la testa di lato, ridendo.
— Magari tutte e due le cose, no?
Jeff ride. — Allora non starai qui molto — dice. — Vedrai che qualcuno un passaggio prima o poi te lo offre!
— Qualcuno? — Adesso ridono entrambi. — Pensavo che quel qualcuno fossi tu.
— Sembri anche un tipo simpatico, eh? Come ti chiami?
— Steven.
Jeff dice il suo nome, poi fa un cenno lungo la strada. — Dove stai andando?
Steven alza le spalle, ancora una volta piegando la testa di lato, smuovendo i capelli. — Ovunque, basta che sia vicino a una stazione, però.
Jeff annuisce, ma non risponde nulla. Sta pensando e lascia che il suo sguardo si perda lungo la via.
— Allora? — imbecca l’altro. — Me lo dai tu questo passaggio?
— Non subito, però.
— E quando me lo vuoi dare, scusa? — Ancora quel sorriso.
È un bel ragazzo e Jeff ci sta facendo qualche pensiero piuttosto serio. Socchiude gli occhi per un attimo, immaginandolo anche senza quella t-shirt attillata che lo fascia. — Dopo un paio di birre e qualche risata, no?
— Birra e risate?
— Birra fresca, amico, freschissima.
Steven sembra pensarci un attimo. — Ma non tiriamo a notte, eh?
— Non so te, ma io a buttare giù un paio di birre ci metto davvero poco.
Ride, Steven, aprendo lo sportello della macchina. — Scommettiamo che ci metto ancora meno di te?
— E cosa vorresti giocarti? — butta lì Jeff, riavviando la macchina e scrutandolo con la coda dell’occhio.
— Non lo so, ci devo pensare.
— Be’ — riprende Jeff, allungando la mano e dandogli un buffetto su una spalla — hai qualche minuto per pensarci… sono proprio curioso di sapere cosa puoi mettere in gioco!
Per un momento non parla nessuno. Jeff guida lentamente, senza fretta. Alza il volume della radio e tamburella con le dita sul volante seguendo il ritmo di Let’s go dei Montrose.
— Quanti anni hai? — domanda Jeff, mentre i Montrose lasciano