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La quarta vittima
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La quarta vittima

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ROMANZO BREVE THRILLER - Entra nella mente del serial killer che rapisce e sevizia i bambini di New York: Albert Fish, detto il cannibale

Robert Twinsend è solo un bambino quando sua sorella sparisce misteriosamente senza lasciare tracce. Da quel momento e per tutta la sua vita, darà la caccia all'uomo misterioso che ha portato via la piccola Sarah, Il Vagabondo, l'assassino che da un quarto di secolo rapisce e sevizia i bambini di New York: Albert Fish, detto il cannibale.

Nato a Pozzuoli trentotto anni fa, Fabio Oceano scrive da quando ne aveva dodici. È appassionato di ogni genere letterario in cui ci sia di mezzo il fantastico, oltre che di fisica e di storia. Nel 2006 con il romanzo “Stella Rossa” ha vinto il Premio Fantascienza.com indetto da Delos Books, per la quale ha anche pubblicato un racconto nella raccolta “Dragonland”.
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 5, 2013
ISBN9788867750573
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    La quarta vittima - Fabio Oceano

    Dragonland.

    1909. Sarah

    Mi chiamo Albert Fish. Sono nato il 19 maggio 1870 a Washington, DC. Mio padre morì il 15 ottobre 1875 e io fui messo nell'Orfanotrofio di St. John a Washington. Rimasi lì fino a che non ebbi quasi nove anni, ed è lì dove ho iniziato a sbagliare. Venivamo spietatamente frustati. Ho visto ragazzi fare molte cose che non avrebbero dovuto fare. Cantai nel coro dal 1880 al 1884, soprano, al St. John. Venni a New York. Ero un buon pittore, interni o altro. Avevo un appartamento e portai mia madre da Washington. […]Fu lì che incontrai mia moglie. Dopo che i nostri sei bambini furono nati, lei mi lasciò. Portò via tutto il mobilio e non lasciò neanche un materasso per i bambini su cui poter dormire. Sono ancora preoccupato per i miei figli, pensereste che loro potrebbero venire a visitare il loro vecchio padre in galera, ma non lo fanno.

    La primavera è iniziata da poco, il sole è alto e caldo e le giornate di pioggia sono un ricordo che sbiadisce in fretta nella mia mente di dodicenne. Per giunta è domenica: una giornata ideale per darsi ai giochi e andare in giro con gli altri ragazzini del vicinato.

    Il quartiere in cui viviamo non è tra quelli più ricchi: c’è aria di crisi, un sacco di gente parla di andarsene via in cerca di un’occasione migliore. Tutti vogliono vivere in una casa più grande o permettersi di cenare da Rodrigo o da MacDonnelly tre sere a settimana. Come il cugino Humphrey, partito per il Brasile qualche mese fa e che da allora non ha scritto nemmeno una lettera a casa.

    La povera zia Adele non fa che lamentarsi del figlio: quasi ogni giorno all’ora del the la trovo seduta in cucina a scambiare due chiacchiere con mia madre, la quale poi si lamenterà di dover tirare fino a tardi per finire i lavori di casa.

    Oggi la zia è in anticipo sul solito orario: nelle mani stringe un fazzoletto e ha l’aria così affranta che la mamma fa in tempo a porgerle una sedia sgangherata prima che lei vi posi il culo incredibilmente grande e scoppi a piangere.

    — Bobby — dice la mamma chiamandomi con un cenno.

    Odio quando mi chiama così: mi fa sentire ancora un bambino col moccio al naso come quelli che giocano nella trappola di sabbia del parco. Però non oso dirglielo: se lo facessi, poi dovrei vedermela con la cinghia di papà.

    Non la usa spesso e non mi ha mai dato più di due o tre colpi per insegnarmi a rigare dritto – parole sue – ma non ho voglia di assaggiarla comunque.

    — Bobby — ripete la mamma tra un singhiozzo e l’altro della zia. Quando entro nella cucina, le trovo sedute entrambe al tavolo dove consumiamo colazione e cena. Ci sono due tazze di caffè fumanti e il puzzo di una sigaretta spenta da poco. — Perché non porti Sarah a giocare nel parco? È una giornata così bella: è un peccato starsene chiusi in casa.

    So che è solo un pretesto per togliersi dai piedi Sarah e non farle assistere ai piagnistei della zia Adele. Per qualche motivo che sa solo lei, mamma non vuole che la figlia veda piangere gli adulti.

    — Le fa venire gli incubi — dice quando lei e papà ne discutono.

    — Fai come ti pare — è la risposta che Jim Twinsend le da più spesso.

    Mia sorella non è più tanto piccola, ma non è ancora abbastanza grande da andarsene da sola in giro per il parco. Per questo tocca a me accompagnarla alla trappola di sabbia, dove si riuniscono le mocciose della sua età per fare tutte quelle cose che odio e che non sopporto di vedere.

    La piccola Sarah ha cinque anni e mi arriva a malapena alla cintola. È la beniamina della famiglia, il piccolo angelo come la chiama mia madre. Lo è perché la mamma non potrà avere altri figli oltre ai due che ha già, con grande rammarico di papà che voleva una famiglia più numerosa e qualche altro figlio maschio da mandare a lavorare non appena avesse raggiunto l’età giusta.

    Toccherà a me lavorare per i sei o sette fratelli che non ho avuto. Poco male, la fatica non mi spaventa. Sarah a casa è una peste, fa i capricci e tutte quelle cose che irritano i fratelli maggiori, ma sa farsi apprezzare quando vuole. Ha quel sorriso contagioso che se la guardi non puoi fare a meno di sorriderle di rimando e due occhi grandi e luminosi, di un verde chiaro che mandano in estasi le donnine che incontriamo il giovedì al mercato rionale.

    Mamma le ha infilato una blusa leggera e una mantellina che può togliersi se la temperatura aumenta e un cappellino di lana rosso per proteggerle la testa e le orecchie dagli spifferi.

    Quando usciamo di casa mi assicuro che il cappellino sia al suo posto e ben calcato: se si buscasse un malanno sarei io a pagarne le conseguenze.

    Succede sempre così: Sarah si sbuccia un ginocchio e io vengo punito. Sarah rompe il vaso dei fiori e il costo mi viene tolto dalla paga settimanale. Sarah dice una parolaccia nuova che ha imparato dalle amichette del vicinato e a me tocca restare senza cena.

    Mi dicono che sia il destino dei fratelli maggiori. Io ci credo poco ma sopporto: in fondo Sarah, tolta l’abilità innata di cacciarsi nei guai, è una bambina adorabile. E chissà se da grande non sarà lei a tirare me fuori dai guai.

    Per fortuna gli adulti del quartiere fanno a turno per sorvegliare le bambine mentre giocano. Oggi tocca a Rosy O’Morghan, una vecchia zitella che non ha mai avuto figli ma che si offre spesso volontaria per badare a quelli degli altri. È una fervente cattolica o qualcosa del genere.

    Mentre trascino Sarah lungo i sentieri sinuosi del vecchio parco, passiamo proprio davanti a Rosy che ci saluta con un sorriso sbiadito. — Salve piccolina — dice con voce chioccia. Chiama tutte le bambine piccolina o tesorino. Quando lo fa le appaiono due fossette sulle guance scavate e gli occhi diventano altrettante mezzelune dietro gli spessi occhiali da lettura.

    La ignoro e deposito mia sorella in mezzo alle altre ragazzine. Mi sento più sollevato ora che non devo più badare a lei: senza salutarla mi volto e torno sui mie passi.

    Joy Turrino mi aspetta sul sentiero, le mani infilate nei calzoni troppo larghi che ha ereditato dal fratello dopo che questi si è arruolato e se n’è andato di casa. — Bob — esordisce con aria preoccupata. — È meglio se non vai da quella parte.

    — Perché? — gli chiedo proseguendo dritto per la mia strada.

    Joy mi affianca e adatta il suo passo, di solito veloce e nervoso, al mio. — Tom Driscoll dice che ti spaccherà la faccia se ti fai rivedere al campo.

    — È questo che va dicendo?

    Joy annuisce in modo grave.

    Con Tom ho avuto più di una discussione. È una specie di teppista alto quanto un penny che pensa di essere il padrone di un minuscolo campo da gioco nella parte orientale del parco. È poco più di una spianata di terreno piena di buche che d’inverno si riempiono d’acqua rendendolo impraticabile e d’estate è infestato dalle erbacce e dagli

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