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Gozzo Unterlachen, poeta maledetto
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Ebook439 pages6 hours

Gozzo Unterlachen, poeta maledetto

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Fantascienza - romanzo (346 pagine) - Un romanzo brillante, pazzesco, fantastico, visionario, come non ne avete mai letti. Vincitore del premio Odissea.


Perché ogni mattina un venditore di angurie lo sveglia urlando sotto la sua finestra? Perché gli infiniti lavori preparatori del Grande Expo devono aprire un cantiere proprio davanti al suo portone?

E perché continuano ad arrivargli multe per infrazioni stradali se non ha neppure la patente? Nella vita di Gozzo Unterlachen c’è qualcosa di gravemente sbagliato.

Ma per dare una risposta alle sue domande dovrà abbandonare i sicuri confini di Milano e affrontare un viaggio pericoloso, attraverso il dominio dell’Oscuro Signore delle Fiamme Infernali Senza Requie della Bassa Padana, fino alla città dei morti: Vigevano.


Rainer Maria Malafantucci non esiste. Il che non gli ha impedito di scrivere un romanzo, come spesso accade in queste situazioni.

Appassionato di relatività generale e astrofisica, affermato attore, esperto tennista, mastro birraio, maestro di kung fu, fumettista e poeta di un certo spessore (alcune di queste affermazioni potrebbero non corrispondere a verità), il Malafantucci divide il suo tempo tra le pianure lombarde e quelle del Kazakistan, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

A tutt’oggi nessuno dei suoi amici crede veramente che sia l’autore di questo volume.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 17, 2015
ISBN9788867759736
Gozzo Unterlachen, poeta maledetto

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    Gozzo Unterlachen, poeta maledetto - Rainer Maria Malafantucci

    volume.

    Capitolo 1

    All’astro che indugia

    tra Pisa e Perugia

    rivolgo lo sguardo

    pensando: il codardo

    laggiù si rifugia

    negandoci il dardo.

    (Gozzo Unterlachen)

    – Angurie!

    Gozzo Unterlachen si gira dall’altro lato del letto e infila la testa sotto il cuscino.

    – Angurie! Chi vuole le belle angurie?

    Gozzo geme. Aspetta. Ascolta. Silenzio. Bene, forse se n’è anda…

    – Angurie! Comprate i poponi freschi! Signore! Signori! Chi vuole le meglio angurie del circondario?

    – Ma cazzo! – sbotta Gozzo, scagliando le coperte sul pavimento.

    Il sole ancora esita dietro la curva dell’orizzonte. Nel senso che non è ancora l’alba.

    – Cazzo! Cazzo! Cazzo… E angurie! – ripete garrulo Hermann Ludwig Ghofer Mascanbrughi dall’alto del suo trespolo di radica.

    – Ma tu non dormi mai? – gli chiede Gozzo, lanciando nel contempo un’occhiata di traverso al sole che tutt’ora esita a farsi vedere.

    – Mai! Mai! Mai… Angurie!

    – ACCATTATEV’O POPONE BBELLOOOH! I SUBBLIMI POPONI DI ’ZZIO PIERO SONO ARRIVATIIIH! E DOVE LE TROVATE DELLE MEGLIO MELONE DI QUESHTEEAAAAH I POPONI BBELLI! ANGURIEEE!

    – Ossignore. Scendi dal trespolo, Ludwig. Già che siam svegli tutti e due tanto vale fare colazione. In fondo sono già le… che ore sono?

    La sveglia digitale sul comodino segna le 22:22, sbagliando platealmente. Gozzo controlla l’orologio del cellulare: 5:35.

    – Cazzo! – sospira Gozzo.

    – Angurie – conferma pacato il Mascanbrughi.

    – Ludwig, non ce l’ho le angurie.

    Il pennuto si stacca dal trespolo e plana con fare compassionevole sulla spalla di Gozzo. Il camion delle angurie si allontana strombazzando e spernacchiando.

    – Biscotto?

    – Ecco, meglio. I biscotti ce li ho. Andiamo in cucina, va.

    La cucina, o meglio l’angolo cucina del piccolo, incasinatissimo appartamento ha dei problemi di intonaco. Umidità proveniente da fuori, infiltrazioni o qualche tubo che perde: fatto sta che ci sono grosse macchie di umido sul soffitto e sulle pareti e non è infrequente che pezzi di intonaco, staccandosi, cadano nella cena. Nel vecchio frigorifero Singer ovale, color crema, risalente agli anni Sessanta, Gozzo trova un cartone del latte nuovo, intonso. Lo apre, ne annusa il contenuto e lo ripone in fondo al ripiano, a fianco di un altro cartone del latte, aperto. Vicino a quest’ultimo si trova un terzo cartone, aperto e dall’aspetto vagamente unto. Gozzo lo estrae dal frigorifero, ne annusa il contenuto e lo posa sulla tavola, accanto alla tazza.

    Mentre aspetta il caffè, Gozzo guarda fuori dalla finestra. È ancora buio, ma dalla strada comincia a sentirsi il rumore delle ruspe. Angurie in ottobre, pensa Gozzo. Mah, saranno congelate.

    Con un sonoro pop il tubo della posta pneumatica scarica un cilindro di plastica trasparente nel bel mezzo della stanza. Il cilindro urta il pavimento con violenza e ruzzola via. Gozzo lo insegue, ma prima che riesca a prenderlo è già rotolato sotto il divano. Da un po’ di tempo gli sparano la posta in casa con una certa furia. Un paio di settimane fa gli hanno spaccato il vetro di uno dei quadri, e in agosto un cilindro è volato direttamente dal tubo fuori dalla finestra aperta, giù nel cantiere in strada. Non lo ha mai recuperato.

    – Posta! Posta! Posta!

    – Ho visto, Ludwig, ho visto. Aspetta che mi verso il caffè.

    Recuperato il cilindro, Gozzo sgombera un angolo di tavola, sposta pile di fogli scarabocchiati, il dizionario, una copia del Maniscalco Rutilante, e si siede. Il tubetto è pieno di lettere accartocciate e pigiate all’inverosimile da una mano furibonda. Dal giornale mancano metà delle pagine.

    – Ma tu guarda che casino. Oh, l’invito per dopodomani, bene. Bolletta del gas. Bolletta del gas. Bolletta del gas. Ancora. Ludwig, è la quarta volta che mi mandano tre bollette di fila, cazzo. E questa?

    – Multa! Multa! Multa!

    – Un’altra multa.

    – Altra multa altra multa! – ripete tronfio il Mascanbrughi.

    – Comune di Milano. Comando di zona della Polizia Locale. In data 6 ottobre… parcheggio in divieto di sosta… Apepiaggio targata MI 253417F… in via eccetera. Sessantasei euri e quaranta centesimi. Ah però!

    Gozzo fissa il foglio per qualche secondo, poi versa il latte nel caffè. Dal cartone scendono con riluttanza grumi densi e verdastri.

    Comune di Milano. Divieto di sosta. Sessantasei euri. Apepiaggio. Via Visconti di Modrone.

    E non ho neanche la patente. Gozzo scuote la testa, beve caffè e muffa con calma mentre fissa la montagna di ciarpame sul tavolo. Sarà una giornata lunga, pensa.

    Finito il caffè Gozzo si alza.

    – Hermann vuole un biscotto! – chioccia il Mascanbrughi dall’alto della libreria.

    – Non ora, pennuto. Vado a lavarmi i denti.

    – Si era detto biscotto! – ripete il Mascanbrughi, non soddisfatto.

    – Dopo, Ludwig. – Gozzo entra in bagno.

    – Un cracker? – insiste il volatile. – Un wafer? Due olive?

    – Ho detto non adesso Ghofer. Stai buonino.

    – Hermann si vendicherà!

    Dalla porta del bagno, Gozzo si sporge in soggiorno con la bocca piena di schiuma e lo spazzolino in mano. – Cos’hai detto?

    – Niente.

    Alle sette e mezza Gozzo è già in strada. Chiudendo il pesante portone di metallo alle proprie spalle, per poco non cade scivolando su una poltiglia di frutta sparsa sui tre gradini che separano il portone dal marciapiede. Ma che cazzo! pensa, mentre con un piede calcia via buccia e polpa di quello che una volta era un bel popone maturo. Preso un bel respiro, Gozzo indugia un secondo sui gradini prima di buttarsi nella metropoli.

    Milano l’accoglie come sempre: con una nube di smog e una muraglia di rumore apocalittico. Le macchine del cantiere lavorano già a pieno regime: gli operai si scambiano grida e richiami nel loro gergo incomprensibile, come pastori da un capo all’altro di una valle, mentre ruspe e martelli pneumatici contribuiscono a creare l’eterna colonna sonora, giorno e notte, estate e inverno, della capitale morale d’Italia. Parte del cantiere è cintata: Gozzo immagina che ci sia una voragine profonda centinaia di metri che scende nelle abissi della faglia acquifera e nelle cui fauci vengono scagliate vittime sacrificali per placare l’ira del possente Expo. O più semplicemente staranno lavorando alla linea cinque del metrò.

    Rabbrividendo Gozzo scende i tre gradini e si getta nel caos.

    Un’ora più tardi è ai Giardini della Guastalla. Ha aspettato il nove per venticinque minuti, coprendosi di fuliggine sul marciapiede di via Vittorio Veneto, ma se non altro ha avuto modo e tempo di riesaminare le carte, i documenti e il discorso. L’incontro col Giudice di Pace è poco più di una formalità, gli hanno detto; se dal Comune poi non mandano nessuno a contestare la sua contestazione, in teoria dovrebbe cavarsela in pochi minuti. Sarà, ma mentre attraversa i Giardini, una certa inquietudine comincia a farsi sentire. Sul nove, mentre era seduto pigiato tra una vecchietta in un cappotto grigio dall’odor di naftalina e un ragazzino vestito di nero, pallido come uno stracchino, con una graffetta a uso orecchino, tutto sembrava chiaro. Cosa fare. Cosa dire. Una passeggiata. Basta mostrare le lettere, spiegare le tue ragioni e chiarire l’equivoco. Che ci vuole? Santa Cuccuma, non hai neanche la patente, che ti possono dire?

    Avvicinandosi all’ufficio del comune però, la sicurezza svanisce anche dagli animi più spavaldi e Gozzo non è certo un coraggioso. Gozzo ama contemplare la vastità e varietà del cosmo per porle in versi: non è uomo dalla tempra robusta come un boscaiolo o un impiegato del catasto. Gli uffici del comune incutono nel suo animo sensibile lo stesso timore che la vista del contatore del gas gli incuteva quand’era bambino. La sensazione di essere minuscolo, insignificante, in balia di forze immensamente più grandi di lui e che di lui non si curano affatto. Un po’ come cercare di prendere il Freccia Rossa in un giorno di ponte senza aver prenotato.

    Il sentiero che dall’ingresso di via Commenda porta alla sede del Giudice è coperto quasi del tutto da liane ed erbacce; funghi dall’aspetto malsano crescono a grappoli sotto ogni albero. Il rumore perenne della strada giunge ovattato, attutito dalla vegetazione, e anche la luce grigia del cielo filtra a stento tra le foglie. Per essere ottobre, fa un caldo soffocante. Una volta qualcuno gli ha detto che non bisogna mai uscire dal sentiero, in Guastalla, e che non bisogna mai dar retta a nessuna voce, specie se ti chiama dai cespugli. Per fortuna nessuno lo chiama, ma quando arriva all’ingresso Gozzo è sudato fradicio. Sulla soglia, a terra, ci sono due vecchi addormentati: fra di loro, un chihuahua sembra star di guardia. Gozzo li scavalca con cautela ed entra negli uffici del Comune.

    Superata la soglia Gozzo viene investito dal rombo della burocrazia. L’enorme atrio è pieno di gente. La luce che filtra dai lucernari mostra impietosamente la danza della polvere che accompagna la burocrazia ovunque essa si trovi. Tutte le vetuste panchine di legno sono stipate di persone in attesa (non sembrano comode, ma almeno sono sedute); vari gruppi consultano i tabelloni con le più recenti modifiche ai codici penale e civile; loschi figuri si aggirano proponendo i servigi di avvocati penalisti, campioni giudiziari, gladiatori in legge e chiromanti; in alto sulle pareti gli schermi trasmettono le previsioni del tempo, le litanie in diretta da piazza Duomo e i cartoni animati di Manolo il Formichiere. Droni di sorveglianza fluttuano qua e là fissando la folla con occhi pallati, come a dire ma che cosa ci fa qui tutta ’sta gente?

    In fondo all’atrio si stende una serie di vecchi sportelli in legno contrassegnati da sigle quali ‘AR72’ o ‘IZ18bis’ (senza che ci sia uno sportello ‘IZ18’). Dietro a ogni sportello c’è un addetto del comune; davanti a ogni sportello si stende una coda disordinata di persone dei più disparati ceti sociali: giovani disoccupati in cerca di un’opportunità, magari al servizio del grande Expo, nobili decaduti che reclamano attestati e sigilli di un tempo passato, casalinghe e impiegati, ognuno con i propri burocratici bisogni.

    Gozzo si guarda attorno smarrito, pensando se non sia il caso di tornare un altro giorno, quando si sente picchiettare sulla spalla. È il guardiano posto all’ingresso, un nano incartapecorito che se ne sta seduto curvo su di uno sgabello accanto al portone. Gozzo non può fare a meno di ammirare l’ordine con cui è tenuta l’uniforme, indossata probabilmente giorno dopo giorno negli ultimi trenta o quarant’anni. Con un bastoncino stretto nella manona palmata, il guardiano richiama l’attenzione di Gozzo su una macchinetta da cui spunta un foglietto.

    – Prendere il numerino e attendere il proprio turno – recita la scritta sulla macchina.

    Gozzo, ancora stordito, prende il biglietto con il numero della sua pratica. È il seicentocinquantanove dello sportello ‘QR49X’. Il tabellone dall’altro capo della sala, per lo stesso sportello, segna il numero duecentocinque.

    Son qua. Tanto vale farla finita. Magari scorrono veloci.

    Gozzo si mescola tra la folla alla ricerca di un posto dove mettersi ad aspettare. Una signora robusta gli passa accanto sgomitando e pestando i tacchi: sul bavero del cappotto ha una di quelle spillone tonde da marketing piramidale. C’è scritto ANGURIE? CHIEDIMI COME.

    Angurie? Ma che caz…

    La signora si allontana tra la folla, Gozzo vorrebbe seguirla, ma proprio in quel momento si libera un posto su di una panca in legno a meno di due metri di distanza. L’occasione è unica. Gozzo percepisce decine di occhi che simultaneamente si girano in quella direzione inquadrando il posto a sedere: sa di avere il vantaggio della vicinanza, ma la minima esitazione potrebbe costargli cara, costringendolo a una lunga attesa in piedi. C’è una frazione di secondo di pausa, poi all’unisono otto persone scattano verso il posto libero. Gozzo è tra queste ed è il più vicino alla panca: si siede un attimo prima di una vecchietta dai capelli argentati con indosso un paltò (sì, un paltò!) di leopardo.

    La vecchietta ringhia, stringe gli occhi e accenna un – Giovine! – ma Gozzo sorride, fa spallucce e si concentra sulle proprie carte. La vecchietta gli rivolge un indice minaccioso e si allontana.

    Gozzo alza lo sguardo al tabellone.

    Duecentosei.

    Chimica e industria del legno, agosto 1951; Prospettive Messianiche, gennaio 1968; Cucina delle Alte Energie, marzo-aprile 1977. Sul tavolino c’è una pila di riviste fin troppo specialistiche, e quella che Gozzo sta sfogliando è la più recente: Macchine per Aspirare le Cose, maggio 1989. Sempre meglio dello speciale illustrato di Versi a Losanga del luglio 1984. In fondo è riuscito a sedersi, pur dovendosi strizzare tra un ciccione addormentato e una donnina che sta raccontando a squarciagola i fatti suoi al cellulare. – Sapessi quant’èbbello, ammore, pesa otto chili. Sì. Gionatan Calòggero Gozer, lo hanno chiamato. Gozer, come lo zio, pace allanimasua. Domenica fanno il battesimo in Duomo, sai chi ci viene a far la fata madrina? Dààààài, prova a indovinare… No. Prova ancora. No. No. No, è morto. No.

    Duecentosette.

    Le ore passano. La donnina accanto a lui deve avere una tariffa fissa per il cellulare e un’assicurazione di ferro contro intossicazioni da radiazioni ai condotti uditivi. Nel frattempo Gozzo ha ascoltato tutto su Gionatan, i suoi genitori, il battesimo prossimo venturo con tanto di cerimonia in Duomo cui saranno presenti diversi ‘vips’ (sì, la donnina usa ripetutamente l’espressione ‘vips’, cosa che a un purista della lingua quale è Gozzo fa venire la pelle d’oca dal disgusto), tra i quali anche, udite, udite, quel bell’uomo di Valentino Mastropapero, il divo del cinema.

    A pomeriggio inoltrato Gozzo sta per cedere alla tentazione di schiacciare un pisolino, magari appoggiandosi alla spalla del ciccione che, se non è morto, dev’essere in letargo. Un’ultima occhiatina ai tabelloni e poi magari, solo cinque minut…

    Seicentocinquantanove.

    – Io! Sono io! – grida Gozzo balzando in piedi (mentre il suo posto viene occupato in una frazione di secondo). Sgomitando tra la folla in coda giunge allo sportello e, come sempre, rimane basito di fronte alla burocrazia milanese. Avere a che fare con gli impiegati del Comune è come ricevere un ferro da stiro in faccia. Non ci si abitua mai: a volte l’impiegato è un pupazzo di cartapesta con il gilet di flanella d’ordinanza, a volte un automa meccanico o una qualche strana creatura, chiusa in un barattolo in formalina, che interagisce con l’esterno con cenni silenziosi. Oggi, dall’altra parte del vetro, è seduto un coso non dissimile da un distributore di gomme da masticare: un corpo cubico di metallo smaltato – Acciaierie Breda – due lunghe braccine meccaniche, con molle e ingranaggi a vista, una boccia di vetro piena di palline colorate in cima.

    – Seicentocinquantanove? – le palline si rimescolano e vorticano nella boccia. Sono tutte numerate.

    – Errr… sì, buon… ehm, buongiorno, dovrei parlare col Giudice…

    – Nomecognomedatadinascitacultoprofessatosegnoeascendentecodicefiscale, prego.

    – Eh?

    – Nomecognomedatadinascitacultoprofessatosegnoeascendentecodicefiscale, prego.

    – Ah! Mi chiamo Gozzo Unterla…

    – Parlinellinterfono.

    – …

    – Parlinellinterfonochiamoilnumerosuccessivo, prego.

    – No. No. Aspetti. Parlo nell’interfono. È questa chiazza che somiglia a una blatta spiaccicata sul vetro?

    – Quello.

    – Parlo. Mi chiamo Gozzo Unterlachen…

    Forniti i suoi dati allo sportello Gozzo riceve le istruzioni per raggiungere il Giudice di Pace. – Terzo ufficio a destra nel corridoio C del terzo piano dell’ala Schiaparelli del palazzo. – O qualcosa del genere.

    – Può prendere il trascensore in fondo alla sala.

    Il trascensore…

    – Siaffrettilastaspettando.

    – Vado. Vado.

    Gozzo si affretta verso il trascensore, che è un cubicolo con tanto di addetto, in tutto e per tutto simile a un ascensore e collocato, come previsto, in fondo all’enorme sala.

    L’addetto al trascensore, uno gnomo alto a mala pena un metro in una divisa che pare presa da un circo di fine ottocento, opera la rotella meccanica senza neanche chiedere dove è diretto.

    Nell’imbarazzato silenzio dei due occupanti, luci stroboscopiche proiettano colori e figure geometriche sulle pareti e una nenia musicale prodotta con un theremin si diffonde nell’angusto ambiente.

    Gozzo vorrebbe ripassare, prepararsi all’incontro con il Giudice, ma la musica e le luci lo inducono in uno stato di torpore in cui visioni di verdi pascoli e boschi sconfinati si alternano a immagini mistiche del cosmo e del dio Palamidone con il fedele cane Demiurgo. Gozzo, incarnato nel fedele cane Demiurgo, vola sopra i pascoli dove le alci, libere per sempre dalla paura delle pere, pascolano vicino a un placido fiume in cui salmoni stanno ris… PING!

    – Ala Schiaparelli. Terzo piano.

    Gozzo ringrazia ed esce in un’anticamera su cui si affacciano tre corridoi. Il corridoio C, ovviamente, è il terzo corridoio.

    Ovviamente.

    Entra nel terzo ufficio a destra e si trova di fronte a un maiale. O quasi.

    Per la precisione si tratta di un animale simile a un maiale, ma molto più grande. Di dimensioni superiori a un uomo, ritto sulle zampe posteriori, liscio e lucido come fosse di plastica, indossa un camice da lavoro con la scritta Impiantistica Meregazzi e Suini sulla schiena e sta fluttuando a due metri da terra vicino a una parete, controllando degli indicatori che somigliano molto a dei contatori del gas. Regge con una zampa un blocco per appunti su cui con l’altra lascia impronte di zoccoli in maniera apparentemente casuale.

    Gozzo rabbrividisce al pensiero dei contatori del gas, quando il maiale si rende conto della sua presenza, voltandosi.

    – Mi sc… mi scusi.. Dovrei vedere il giudice. Di pace, sa?

    – Prrrego?

    – Il giudice di pace… sono qui per il giudice di pace.

    Il maiale sembra sorridere mentre emette un grugnito sommesso.

    – Ah! Chiarrrro. Questo è il corrrridoio B. Perrr il giudice di pace deve rrrecarrrsi nel corrrridoio C.

    – Ma… non capisc…

    – Non si prrreoccupi, è facile sbagliarrrre da quando i trrrre corrrridoi vengono perrrmutati ciclicamente ogni quindici minuti. Se si sbrrriga il corrrridoio C sarrrrà ancorrrra il prrrimo corrrridoio perrrr altrrri due minuti. Forrrse ce la fa a prrrenderlo prrrima della prrrossima perrrmutazione.

    – Ah. capisco. Mi scusi per il disturbo…. E grazie…

    – Prrrego.

    Gozzo esce dall’ufficio del maiale e torna a passo spedito nell’anticamera all’inizio del corridoio.

    Dunque se questo è il corridoio B il corridoio C deve essere…

    Un rumore di macchine e ingranaggi interrompe il suo ragionamento. Di fronte ai suoi occhi il corridoio da cui è appena giunto sprofonda, come inghiottito dalle viscere del palazzo, lasciando un varco che si affaccia su un enorme antro cavernoso. Una folata di vento umido porta con sé odore di ruggine e olio rancido: in lontananza si sentono stridere pesanti ingranaggi.

    Un secondo dopo i due corridoi rimasti slittano verso destra con uno scatto secco e metallico.

    Sferragliando come un vagone merci, il corridoio B ricompare a occupare lo spazio lasciato libero a sinistra.

    Cercando di mantenere compostezza Gozzo si avvia nella stessa direzione da cui è appena giunto, ma questa volta una piccola insegna sulla parete attira la sua attenzione.

    Corridoio A.

    Gozzo torna indietro prendendo stavolta il corridoio di mezzo. Quello giusto.

    Pochi secondi dopo Gozzo entra finalmente nell’ufficio del Giudice di Pace. Si tratta di un piccolissimo ufficio bianco, con un paio di sgabelli bianchi di metallo, un tavolino bianco di legno e una scrivania bianca cui è seduta una suora in abito bianco. Alla parete è appeso un quadro. Bianco.

    – Unterlachen? È in ritardo. – osserva la donna senza neanche guardarlo.

    – Mi scusi, sorella. Sono qui per il giudice di pa…

    – Sono una segretaria, non una suora. Documenti.

    – Ehm… carta d’identità?

    – Sì. E codice fiscale, tessera sanitaria e tessera doni.

    – Ah… ecco.

    Gozzo fruga nel portafoglio mentre la segretaria compila un modulo senza alzare la testa.

    – Il suo dono cautelare ha a che fare col traffico?

    – Ehm… no. Con le pere.

    Gozzo porge le tessere che la donna prende senza neanche guardarlo.

    – Si accomodi su una delle sedie, il giudice la riceverà tra un minuto.

    Gozzo si guarda attorno. A parte lui e la segretaria non c’è nessun altro nella piccola stanza.

    Dietro la segretaria si trovano due porte in legno. Bianche.

    Nessuna sedia.

    Gozzo si siede su uno degli sgabelli. Sul tavolino sono presenti delle riviste. Gozzo prova a leggerne una, ma è costretto a rinunciare perché le pagine sono tutte bianche.

    I minuti passano.

    Gozzo inizia a sentirsi un po’ a disagio. La segretaria sembra impegnata con delle scartoffie, ma, per quanto lui riesca a vedere, i fogli sono completamente bianchi.

    All’improvviso un rumore di ingranaggi meccanici riempie la stanza. Le pareti tremano. La stanza intera subisce una brusca accelerazione che scaraventa Gozzo giù dallo sgabello. L’accelerazione dura solo una frazione di secondo e termina con un schianto. Alcune riviste cadono dal tavolino. Un paio di fogli volano via dalla scrivania. La segretaria non batte ciglio. Gozzo, un filo frastornato, si riprende e si rimette a sedere.

    I minuti passano.

    Dopo un’attesa che pare eterna la segretaria alza finalmente la testa e gli si rivolge con una non espressione degna di un manichino.

    – Il giudice la riceverà adesso. Porta numero due. Ecco il suo cappello traduttore. Parli nel microfono e scandisca bene le parole.

    Gozzo prende il copricapo, che somiglia a un elmetto da ciclista bianco con una grossa valvola termoionica in cima, e si avvia verso la porta numero due. Prima che possa mettere la mano sulla maniglia, la baraonda precedente si ripete. Questa volta l’accelerazione è verso il basso ed è seguita da un più lungo movimento nella direzione opposta rispetto a prima. Il quadro alla parete cade. Dopo pochi secondi è tutto finito di nuovo. La segretaria si aggiusta il velo bianco senza mutare espressione minimamente. Gozzo abbassa finalmente la maniglia ed entra nell’ufficio del Giudice di Pace.[stelle]* * *

    Bolo e Salomone erano entrati nei giardini al tramonto, dopo una serata passata a scroccar tartine nei bar della zona e qualche cocktail di troppo. La loro discussione era iniziata per caso, sentendo la cameriera lamentarsi di aver appena perso il suo chihuahua nei meandri di Guastalla. La povera bestia era stata attirata dietro un cespuglio da qualche strano odore e non ne aveva più fatto ritorno.

    – Scommetto che è solo scappato. I giardini sono perfettamente sicuri – aveva affermato Salomone. – La Giunta non permetterebbe mai niente del genere così vicino al centro.

    – Non sono sicuro, guarda un po’ la situazione in Darsena. – Bolo rabbrividisce pensando all’ultima volta che è passato in Darsena… – Quegli alberi hanno assunto un aspetto decisamente innaturale e la gente preferisce stare alla larga.

    – Che c’entra la Darsena? Stiamo parlando di uffici del Comune qui. Come farebbe la gente a raggiungere il Giudice di Pace se i giardini fossero così pericolosi? – Salomone alza la voce: la sua fiducia nell’apparato burocratico cittadino è incrollabile e leggermente disturbante. Magari, pensa Bolo, è l’effetto di una maledizione particolarmente perniciosa, un morboso attaccamento alla Patria o qualcosa del genere.

    – Guarda che fanno apposta: più gente si perde, meno pratiche ci sono per il giudice.

    – Ma smettila, gli impiegati del Comune non hanno bisogno di questi trucchetti per scoraggiare le persone!

    – E poi mio cugino, che lavora come fermaporte per un’azienda lì vicino, mi ha detto che sono proprio i giudici di pace a fare le cose più strane.

    – Figuriamoci! Adesso questi di giorno fanno i giudici di pace e la sera sacrificano ignari chihuahua a qualche oscura Divinità dell’Amministrazione. Ridicolo.

    – Va bene. Hai ragione tu. Allora dimmi dov’è il cane?

    – Ancora lì, probabilmente. Magari se lo recuperiamo ci offrono pure da bere – dice Salomone, osservando sconsolato il suo bicchiere vuoto. Facendo un paio di conti, Bolo concorda che dell’alcol gratis sembra una buona idea e vale il rischio di una scappatina nei giardini. Barcollando i due escono dal locale e si dirigono verso i vicini Giardini della Guastalla.

    Stranamente non sono chiusi come molti dei parchi e giardini di Milano, eppure non sembra esserci nessuno: né senzatetto, né uomini-bestia con i loro numerosi cani, neanche una pantegana di passaggio.

    Entrano senza problemi e, dopo pochi passi tra gli arbusti, sono nell’oscurità più impenetrabile.

    – L’ho sentito, Salomone!

    – Salomone Dimitrio Pappatacio dei Pappatacio di Birmania e Baden-Baden, prego. Sai che ci tengo. Hai sentito cosa?

    – Il cane! L’ho sentito abbaiare! Ascolta!

    I due si zittiscono. Poco distante, nella boscaglia, risuona un barbarico yap.

    – Eccolo!

    – Zamenhof! – chiama Bolo a mezza voce.

    – Zamenhof?

    – È il nome del cane. Si sta avvicinando!

    Rimangono un attimo in attesa. Qualcosa si sta avvicinando, in effetti. Forse è il chihuahua, ma se è lui non è da solo.

    – Eccolo! Evvai! – dice Salomone. Il cane sbuca dai cespugli, tirandosi dietro un guinzaglio.

    Rami e foglie si scuotono e si separano. Bolo e Salomone (anzi, Salomone Dimitrio Pappatacio dei Pappatacio di Birmania e Baden-Baden), atterriti, ammutoliti, alzano lo sguardo verso l’ombra che emerge dalla boscaglia, alta, sottile, dalle grandi corna appuntite. Nella mano scheletrica tiene il guinzaglio.

    – Ma jiċċaqalqux! Forsi inti tressaq ħut frisk jew ftit tramezzini? Stabbilit hemmhekk, barbün? – dice la figura.

    – Yap! – dice Zamenhof.

    * * *

    Rispetto all’atrio, il silenzio che accoglie Gozzo nell’ufficio del Giudice di Pace è assordante. La sala è enorme, molto più vasta della già grande stanza in cui si trovava il maiale, e completamente vuota, a parte un ritratto del Presidente Napolitano sulla parete più lontana. E, ovviamente, a parte il Giudice di Pace.

    Niente mobili. Niente sedie. Niente riviste. Niente.

    Il Giudice di Pace è una creatura alta e inquietante, ritta in piedi in mezzo al locale, di spalle, completamente avvolta in una specie di sudario grigio (o meglio bianco sporco) e polveroso, da cui sporgono, quasi orizzontali, un paio di lunghe corna bovine. Immobile.

    Gozzo si sta ancora sistemando in testa il berretto traduttore che gli hanno fornito all’ingresso, e ovviamente, cerca di farlo il più in fretta possibile, sentendosi incredibilmente goffo.

    – Buongiorno, Vostro… Vost… Ecc… – gli sovviene che non si è mai chiesto come ci si rivolge a un Giudice di Pace. Vostra Eccellenza? Vostro Onore? Ehilà vecchio mio? La figura rimane immobile.

    – Sì, ecco, ho ricevuto delle multe, anzi, continuo a riceverne. – Gozzo estrae le ricevute. – Il fatto è che non avendo né macchina né patente…

    – Lal an tago jota frazparto, kver neigi fin as.

    La voce del Giudice di Pace, tutt’ora di spalle, è metallica, stridente, sabbiosa, e sembra arrivare da lontanissimo, da chissà quali meandri sotterranei. – Subtegmento in, unu um geto inkluzive.

    Complesse sono le vie del fato. Le strisce gialle sono per i residenti, ma le blu sono per tutti.

    Il berretto ronza e vibra mentre le parole si formano nella testa di Gozzo, pronunciate da una voce, non può fare a meno di notare, in tutto e per tutto identica a quella che legge gli annunci nella sotterranea.

    – Va bene, dottore, ma il fatto è che io…

    – Ho ial sama konjunkcio mallongigita. Ar viro centilitro end, pli am unua koreo traigi. Avo dz dume praantaŭlasta, nulo urino nelimigita ari ari.

    Egli si crede al di sopra della legge. Propizio è rivedere il proprio giudizio. Che le montagne di Zongo sian di fruttifero presagio alpino. E le targhe alterne il terzo week end del mese.

    – No, cioè, come, non sto dicendo che io… Voglio dire che non ho la patente! Come faccio a…

    Gozzo allunga la mano con le multe verso il Giudice di Pace, come sperando che questi si volti e le legga.

    – Krom ikso infinitivo kv ant, oj nen fore makro, vole matematiko malprofitanto. Aŭ ki mini festo kunigi, ojd ki minus singularo cirkumflekso.

    Esistono infiniti universi. Esistono infiniti Gozzo Unterlachen. In almeno uno di questi universi Gozzo Unterlachen ha la patente. Perseveranza reca sciagura, come entrare in moto in corso Vittorio Emanuele.

    – Sì, comprendo. Ma queste stanno arrivando a me. In questo universo, capisce? Divieti di sosta, eccesso di velocità. Ce n’è di ogni. E il mezzo è sempre lo stesso: un Apepiaggio del ‘72. Capisce vostra eccellenza? E io non guido.

    – Ho zorgi tempolongo obl, os ipsilono popolnomo.

    L’ape esiste. Operaia e regina. Immatricolazione corretta, a Unterlachen corrisponde l’insettazzo come a DeBroglie da giovane corrisposero onde e pallette. Il dovuto sia pagato. O m’incazzo, senza ecopass.

    – Pallette?

    – Popsilono.

    Particelle.

    – Ah.

    Gozzo riflette per un secondo, cercando di assicurarsi di aver capito bene.

    – Ma, sua giustezza, ci deve essere un errore. Io non possiedo un Apepiaggio, avevo un pony da bambino. Un pony di legno. Di quelli a dondolo. Le multe non possono esser mie. Capisce? Voglio dire, non è possibile lasciare un pony in divieto di sosta. O no?

    Il Giudice non risponde. Immobile, insondabile, rimane assorto al centro della sala.

    – Capisce, vostra pacifica giustezza?

    Silenzio.

    – Insomma! Io non intendo pagare una multa che non ho preso.

    Gozzo prova a farsi valere alzando la voce, ma la frase non risulta convincente nemmeno a lui stesso.

    – Collimpepere vek utzmallah luka luka, ipsiminto. Fullerene klovisti zu…

    Ah, le lune d’agosto. La giustizia è retta da chi ascolta la parabola. Che non si dica ch’io sia…

    Il giudice non finisce la frase, come distratto da qualcosa.

    – Ma io… – prova a insistere Gozzo, ma le parole gli muoiono in gola. Nulla è cambiato nella stanza eppure un brivido lo ha colto, rizzandogli i peli delle braccia e dilatandogli le pupille, come un abbassamento repentino della temperatura, o come quando un’ombra fugace si muove alle nostre spalle.

    Il giudice di pace muove un passo, come intento a voltarsi, e questo è sufficiente a scatenare il panico in Gozzo Unterlachen.

    – Va bene eccellenza. Come dice lei. Vado. Vado.

    – Jesigi montrovorto.

    Buongiorno.

    – Buongiorno! – Gozzo si volta e, terrorizzato, si avventa sulla porta cercando di uscire.

    – Cantagiri ivenkuijte lulli pilo.

    Lo sportello per pagare è in fondo al corridoio.

    Nelle sere d’autunno Milano è pervasa da una cappa di smog e nebbia che pare avere una consapevolezza e una volontà proprie. Non è visibile come la nebbia di una Londra di fine Ottocento, ma è ben più presente. Come l’impressione di avere un vecchio esattore delle tasse seduto accanto sul tram, solo senza l’esattore delle tasse.

    Mentre è al telefono fuori dal Bar Piloro, Gozzo è pienamente consapevole della cappa che aleggia (tutte le cappe aleggiano, ma quella milanese ha un modo di aleggiare tutto suo) attorno a lui, ma finge di non rendersene conto, per darsi sicurezza.

    Già a un centinaio di metri di distanza, nonostante la poca luce della sera, la sagoma di Ivo Maligno è perfettamente riconoscibile e non solo per chi, come Gozzo, lo conosce da una vita. Per chiunque abbia almeno quattro diottrie per occhio, le inverosimili cravatte di Ivo si notano a chilometri di distanza. Stasera indossa una fantasia di martelli di The Wall e piccoli Topolini in bianco e nero, su sfondo senape. A ben vedere pare pure animata.

    Quando Ivo arriva, Gozzo è ancora in piedi davanti al Piloro, e sta parlando al cellulare.

    – Ciao Gozzo – dice Ivo quando lo raggiunge. – È tanto che sei qui? Come mai sei ancora fuori? Fa un po’ freschino…

    – Scusa, sono al telefono con Almeira – risponde Gozzo coprendo il cellulare con la mano. – Tu entra, ti raggiungo subito. No, non dicevo a te, c’è qui anche Ivo.

    Ivo entra nel locale, come al solito vuoto, gridando. – Birra, perdemiurgo! E tanta!

    – È che ultimamente non ci vediamo mai – sta dicendo Gozzo al telefono. – Pensavo che potremmo ogni tanto… sì, lo so… certo, il lavoro… anch’io in questo periodo… però magari una sera… o un pome… ok, ci sentiamo magari… pronto? Almeira? Pronto? Ma che…

    Credito esaurito, lo avvisa il cellulare.

    – Come esaurito? Ti ho ricaricato ieri!

    Non lamentarti con me.

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