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Fuga d'azzardo
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Fuga d'azzardo

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ROMANZO BREVE (108 pagine) - CRIME - Chi è Kimberly? E perché è costretta a fuggire, mentre la malavita la insegue alla ricerca di un tesoro custodito in una valigia scomparsa?

E' proprio un azzardo fuggire, quando la posta in palio è una valigia piena di eroina pura. Lo sa Kurt Hoffgauer, emissario della malavita organizzata tedesca che si rega a Los Angeles per piazzare la merce. E lo sa Mirko Sladek, l'uomo di fiducia del boss La Cocca, che detiene il controllo dello spaccio sulla costa Ovest degli Stati Uniti. E credeva di saperlo anche Kimberly, una ragazza disillusa e incasinata che si trova implicata in una storia di tradimenti e di uccisioni che va al di là di quanto possa sopportare. Servirà a qualcosa la sua fuga? O è solo un inutile azzardo? Il primo titolo di una collana Crime di Delos Digital, da un autore da oltre 100.000 copie vendute.

Franco Forte è autore di bestseller quali "Carthago", "Il segno dell'untore" e "La Compagnia della Morte" (tutti Mondadori), sceneggiatore televisivo ("RIS - Delitti imperfetti", "Distretto di Polizia") e direttore editoriale delle collane da edicola Mondadori (Urania, Gialli Mondadori e Segretissimo). Per Delos Digital è autore delle serie horror bestseller "The Tube" e "The Tube Exposed", e della saga fantascientifica "Chew-9". Il suo sito: www.franco-forte.it
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateMar 11, 2014
ISBN9788867752362
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    Fuga d'azzardo - Franco Forte

    9788867752102

    1

    Los Angeles – Giugno 2007

    Il ragazzo di colore, le guance incavate e i vestiti rattoppati, saltava e si contorceva come un ballerino di professione, impegnato in uno sfrenato tip–tap al seguito dei virtuosismi del suo accompagnatore, un vecchio nero che ricordava Dizzy Gillespie con l’anima del grande Mulligan. Non suonava swing e neppure be–bop, ma la musica del suo sassofono aveva qualcosa di entrambi i generi e il sapore umido delle ballate di New Orleans.

    La folla strisciava compatta sul marciapiede e aggirava l’ostacolo creando una sacca tra la facciata dell’Harper’s Rock Café e la catasta d’immondizia che delimitava l’angolo della strada: una bolla d’aria fatta dei suoni aggressivi del sax e del talento acerbo di un ballerino che aveva nel sangue millenni di danze tribali.

    Kurt Hoffgauer restò qualche minuto a osservarlo, affascinato dalla velocità con cui tacco e punta sfioravano il selciato, battevano il ritmo, recuperavano l’equilibrio con un esercizio da circo equestre. Il sax strappava note languide al chiasso del traffico, e in qualche modo Hoffgauer sentì che gli penetravano nel sangue. Qualche anno prima lui aveva cercato di diventare un suonatore di jazz: aveva avuto davanti agli occhi il mito di Jelly Roll Morton e di Dave Brubeck, uno dei pochi bianchi con sangue nero nelle vene. Ma non aveva talento, e per quanto l’avesse inseguito con tenacia, adesso che vedeva quei due sul marciapiede si rendeva conto di che pasta era fatto.

    Una mano gli batté rudemente sulla spalla, riscuotendolo.

    – Ci stanno aspettando.

    Hoffgauer si girò a guardare la cicatrice che falciava il viso del suo accompagnatore. Quell’idiota non sentiva la musica, non percepiva la grazia nei movimenti fluidi del ragazzo. Restò un istante a fissarlo negli occhi color brodaglia, poi annuì lentamente e infilò la mano in tasca. Ne cavò un rotolo di banconote da cinquanta dollari, ne sfilò una dal fermaglio d’oro e la lasciò cadere nel cappello sudicio del vecchio sassofonista.

    – Che cazzo stai facendo? – gli chiese sorpreso l’uomo con la cicatrice. – Le strade di Los Angeles sono piene di straccioni come questi. Se ti fermi a regalare cinquanta dollari a ognuno di loro, resterai al verde in un paio d’ore.

    Hoffgauer si passò la lingua sui denti e lo guardò senza rispondere. Gli occhi verdi e le sopracciglia bionde facevano di ghiaccio quello sguardo sotteso dai muscoli duri delle mascelle. L’uomo si strinse nelle spalle e gli fece segno di seguirlo. Era evidente che non capiva gli europei e se ne fotteva se volevano gettare al vento i loro soldi.

    – Muoviamoci – disse facendosi largo a spintoni tra la folla. – Al capo non piace aspettare.

    Attraversarono la strada in ebollizione e affrontarono il gigante addormentato di Pico Boulevard. Hoffgauer restò a contemplare l’impossibile distesa di automobili incolonnata fino all’orizzonte. Non era la prima volta che si recava negli Stati Uniti, ma dentro di sé era convinto che non sarebbe mai riuscito ad abituarsi a scene come quella. Non era solo traffico. Era qualcosa di molto più grande e minaccioso.

    Il marciapiede tremava, scosso dal respiro miasmatico di quel mostro acquattato sull’asfalto. Di tanto in tanto il lungo corpo metallico aveva una contrazione, lasciava sfuggire sbuffi di fumo nero nell’aria untuosa e si riassestava come se non avesse la forza per scagliarsi contro le geometrie spigolose della città che l’imprigionavano.

    Lo Chagalle Café era dall’altra parte del Boulevard, nell’angolo di congiunzione con Figueroa Street, invasa dal corpo lucido di scaglie di un altro drago insofferente, pronto a scagliarsi contro altri suoi simili per farne scempio, senza disdegnare atti di cannibalismo.

    Hoffgauer seguì il suo accompagnatore con un senso di disagio che gli nuotava nello stomaco. Los Angeles sarebbe morta presto, soffocata da quell’aria irrespirabile che sapeva di catrame.

    E a lui non sarebbe importato niente, se non fosse stato per il sassofonista da strada e il giovane ballerino che l’accompagnava.

    Ambiente stretto e fumoso di prima mattina, con i tavoli di marmo nero ingombri dei residui delle colazioni. Sulla fila di alti sgabelli davanti al bancone due puttane bevevano whisky e parlottavano ciondolando il capo. Una era nera, alta, con una farfalla tatuata sulla sommità della spalla sinistra. L’altra, bianca, sembrava un manichino di plastica arrotondato da innesti di silicone. Le labbra si tendevano all’infuori con la stessa consistenza della gomma.

    Il barista li guardò entrare mentre asciugava i bicchieri con il bordo del grembiule, annuì a un cenno dell’uomo con la cicatrice e andò ad aprire una porticina sul fondo del locale.

    – Ehi, bello, è ancora presto per andare a dormire – gracchiò la puttana bianca alzando il bicchiere verso Hoffgauer. Era giovane e abbronzata, con il seno che tendeva il corpetto orlato di pizzo. In faccia aveva anche lei una cicatrice, che spiccava nitida sull’abbronzatura, una specie di copia in miniatura, ma speculare, di quella che sfigurava l’uomo che accompagnava Hoffgauer. – Vieni di sopra. Ti aspetta una bella sorpresa.

    – Giorno di saldi – ridacchiò la puttana di colore mostrando i denti bianchi e regolari. – Vengo anch’io, se ce la fai. Paghi uno e prendi due.

    Scoppiarono a ridere entrambe, e Hoffgauer guardò il suo accompagnatore. Non era sicuro di avere compreso esattamente quello che avevano detto le puttane, ma tanto bastava a dare sangue all’atmosfera opaca della città.

    – Lascia perdere – fu il commento acido dell’uomo mentre si dirigeva verso la porticina. – Ci aspettano.

    Hoffgauer dimenticò le due puttane ed entrò nella saletta riservata. Le luci erano basse e contaminate da spirali di fumo azzurro. Un locale di cinque metri per cinque con un grande tavolo ovale nel mezzo e una dozzina di sedie disposte tutt’attorno.

    Hoffgauer immaginò le lunghe partite di poker che dovevano essersi consumate su quel tavolo, nella bruma lattescente soffiata dalle sigarette.

    E i morti. I suicidi. Lo sguardo sadico dei vincitori.

    Le sedie erano tutte occupate. Tutte tranne due.

    Willkommen – lo salutò una voce con pessimo accento tedesco. – Nelmen Sie Platz, bitte.

    Hoffgauer guardò le sedie libere. Una aveva alla sinistra un uomo in doppiopetto azzurro con baffi affilati e sguardo fisso verso il centro del tavolo. La giacca era gonfia all’altezza del cuore, dove nascondeva una pistola di medio calibro. Lo sguardo assente e la postura immobile fecero subito comprendere a Hoffgauer che era pericoloso. L’altra sedia era stata sistemata accanto a una bionda slavata con la scollatura che le precipitava nel seno color del miele. Le lunghe gambe accavallate rilucevano nella penombra. Aveva caviglie sottili come quelle di una gazzella, e per qualche secondo Hoffgauer non riuscì a staccarle gli occhi di dosso.

    Doveva prendere una decisione, e in fretta. I suoi ospiti non erano abituati ad aspettare.

    Lasciandosi guidare dall’istinto scelse la bionda, e sedette aprendo un sorriso cordiale verso la ragazza dall’aria annoiata.

    Una luce giallognola pioveva da una lampadina appesa al soffitto, utile appena a mettere in risalto gli sfregi sul legno che datavano il tavolo. L’uomo che l’aveva invitato a sedersi si trovava di fronte a lui, e lo scrutava attentamente. Hoffgauer non riconobbe nessuna delle persone attorno al tavolo: nove uomini e due donne compreso il tizio con la cicatrice che era venuto a prenderlo all’aeroporto.

    – Problemi di fuso orario? – gli chiese il tizio che aveva parlato in tedesco. – Dev’essere stato un viaggio faticoso, da Leverkusen.

    Hoffgauer annuì lentamente. Il suo interlocutore fumava un sigaro la cui punta incandescente tracciava ghirigori scarlatti nella penombra, ogni volta che si muoveva.

    – Uomo di poche parole, il nostro amico – commentò questi con una risatina, rivolgendosi agli altri. – Meglio. Non sopporto i fanfaroni e gli sbruffoni. Siamo qui per concludere un affare importante, non per cincischiare.

    L’uomo era piccolo e stempiato, italo–americano, almeno a giudicare dall’accento, con la fronte accartocciata che gli scolpiva un’espressione severa sul viso anche quando sorrideva. Il tipico sorriso dello squalo che domina il proprio territorio.

    Hoffgauer aveva ricevuto ordini precisi. Sapeva che quell’uomo era il suo referente, ma diffidava di tutti gli altri; soprattutto del loro silenzio.

    Le due donne dovevano essere puttane. L’indifferenza che mostravano nel seguire la conversazione gli confermava che non avevano alcun peso nella trattativa. Allora perché farle assistere?

    L’uomo con la cicatrice che l’aveva accompagnato era uno sgherro incaricato di accertarsi della sua identità e quelle banali frasi in tedesco dovevano essere state un ulteriore piccolo esame da superare. Era armato, ma abbastanza vicino perché lui potesse raggiungerlo alla giugulare con il taglio della mano.

    Restavano gli altri sette. Facce anonime che non staccavano gli occhi dal tavolo e sembravano in attesa di qualcosa: forse di un ordine, o forse dell’accenno di un’azione violenta da parte sua.

    Tutti tranne uno: un biondino azzimato seduto due posti alla sua destra, con una Davidoff che gli pendeva dalle labbra. Aveva gli occhi color cobalto che lo scrutavano senza muoversi, e quando lui ne sostenne lo sguardo si strinsero, divennero fessure che trapassavano il velo di fumo alzato dalla sigaretta. Indossava un abito Armani e scarpe inglesi con il tacco rialzato. Eppure non sembrava basso, tutt’altro. Il desiderio di dominare gli altri gli sprizzava dalle pupille come l’umore infetto di una malattia.

    – Io sono Antonio La Cocca – disse il suo anfitrione alzandosi e spingendo il sigaro sul lato destro della bocca. – Ti presento gli amici. Questo è Jud Cash, di Santa Monica. Controlla la zona dell’aeroporto e Beverly Hills. – Indicava un uomo alto seduto alla sua destra, con i capelli schiacciati all’indietro da uno strato di gel lucido e un fiore all’occhiello. Hoffgauer lo guardò impassibile. – L’uomo che ti ha accompagnato è Roy Costa… ma vi sarete già presentati.

    Non l’avevano fatto, e Roy non si voltò neppure a guardarlo.

    – Infine – concluse La Cocca girando intorno al tavolo e fermandosi alle spalle del biondino con gli occhi color cobalto, – questo è Mirko Sladek, il tuo punto di riferimento per i prossimi giorni. Controlla il Downtown di Los Angeles e tutta la costa fino a Newport

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