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Ombra e magia
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Ombra e magia

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Lo spirito di Cavaliere delle Ombre si ridesta in Ariendil, cantastorie umana vissuta per anni tra gli elfi, quando la sua serenità interiore viene scossa. La lotta che intraprende con i suoi demoni personali è però solo la prima delle tante battaglie che dovrà affrontare poiché, oltre le spade, oltre il sangue e oltre il dolore, ad attenderla al bivio tra bene e male c’è Lui, la personificazione dei suoi desideri ma anche delle sue paure. Tornando a padroneggiare la tecnica di spada della Doppia Lama, attingendo al potere delle ombre e, soprattutto, alla sua forza di volontà, Ariendil si trova a combattere una guerra che sembra scaturita dalle profondità del suo animo e che minaccia tutte le persone a lei care e tutto ciò in cui ancora crede.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateApr 20, 2013
ISBN9788867820733
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    Ombra e magia - Barbara Poscolieri

    Barbara Poscolieri

    Ombra e Magia

    GDS

    ©Barbara Poscolieri

    Ombra & Magia

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel.  02  9094203

    e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it

    Illustrazioni in copertina di ©Norfo Bhakti-Devi

    Collana ©AKTORIS

    Tutti i diritti sono riservati.

    Questo libro è il prodotto finale di una serie di fasi operative che esigono numerose verifiche sui testi. È quasi impossibile pubblicare volumi senza errori. Saremo grati a coloro che avendone trovati, vorranno comunicarceli.

    Per segnalazioni relative a questo volume: iolanda1976@hotmail.it

    Alla mia famiglia,

    che mi protegge dall'ombra,

    e a Nico,

    che mi fa credere nella magia.

    parte prima

    1

    Il vento sferzava gelido sull’immensa pianura che separava le Terre Senza Nome dalle foreste degli elfi, la sua furia spazzava senza indugi le nubi che tentavano invano di addensarsi e sollevava in una miriade di fiocchi vorticosi la neve che ammantava l’intero paesaggio. Ariendil si strinse nel mantello da viaggio e tirò le redini del suo nero destriero. Nonostante avesse vissuto ad Iridis per tanto tempo, non aveva mai imparato a cavalcare come gli elfi, comunicando con l’animale attraverso i movimenti del corpo senza alcun bisogno di sella e briglie. La mano guantata si allungò ad accarezzare il collo della bestia, che rispose al gesto d’affetto sollevando il muso nell’aria tagliente.

    «Riposati un po’» disse la ragazza smontando dal suo dorso. Si incamminò nella neve per sciogliere i muscoli indolenziti dalla lunga cavalcata e lasciò che lo sguardo vagasse nella bianca desolazione che la circondava. Aveva scelto un pessimo periodo dell’anno per mettersi in viaggio, ne era consapevole, ma non avrebbe potuto aspettare un giorno di più. Iridis le mancava. Terribilmente. L’aveva lasciata perché aveva dovuto, perché lì era circondata da tutto quello che avrebbe voluto dalla vita ma che sapeva non sarebbe mai stato suo, perché se fosse rimasta avrebbe finito con l’odiare ciò che di più caro aveva. Se ne era andata all’improvviso, senza spiegazioni e senza pentimenti, un rapido saluto e poi al galoppo verso est, dalla sua gente, gli umani, nelle Terre Senza Nome. Non aveva portato niente con sé stavolta, nessuna pergamena su cui scrivere, nessuna delle sue storie da rileggere. Scrivere era come essere ad Iridis: faceva male. Era partita con l’arco sulle spalle e le spade alla cintura, armi che non usava più da tempo, che appartenevano alla sua vecchia vita e che non avrebbe più voluto impugnare. Ma a volte è l’istinto a scegliere la strada al posto nostro. E d’istinto aveva aperto il baule in cui era rinchiuso il suo passato, aveva indossato l’armatura nera, fissato le due spade ai fianchi e imbracciato la faretra. Aveva guardato con rabbia la sua immagine riflessa nello specchio: il Cavaliere delle Ombre era tornato.

    Una nuova folata le strappò un brivido e Ariendil abbassò il cappuccio davanti al viso per ripararsi dal vento. A sud, le Alture del Drago scrutavano minacciose i suoi spostamenti, con i picchi innevati che sfidavano il cielo e le gole buie in cui venti e lupi ululavano insieme. Distolse lo sguardo dai monti e lo spostò a levante verso le Terre Senza Nome: un giorno qualcuno sarebbe giunto a portare un po’ di speranza agli uomini, un giorno un nome per quelle terre ci sarebbe stato e la sua gente avrebbe avuto qualcuno da seguire, qualcuno per cui lottare e per cui morire.

    Una smorfia di rabbia le comparve sul viso nel pensare che quel giorno lei non ci sarebbe stata. Balzò in sella, diede un colpo al ventre del cavallo e l’animale partì al galoppo.

    «Corri!» urlò nel vento, quasi con le lacrime agli occhi. «Riportami ad Iridis…»

    * * *

    Ariendil impiegò tutto il giorno per attraversare la pianura. Di fronte a lei, il sole stava già scendendo oltre gli alberi delle foreste quando finalmente la vide: candida nel candore della neve, luminosa nella luce del tramonto, Iridis troneggiava orgogliosa all’ingresso delle terre degli elfi. Trasse un profondo respiro mentre accompagnava con lo sguardo le ultime ombre che svanivano nel buio, poi mise al passo il cavallo ed entrò nella capitale dell’Ovest.

    Con la notte era scesa anche la temperatura, ma ad Ariendil non interessava perché ormai erano le tenebre la sua casa. Si limitò a stingersi nel mantello e spronò il cavallo affinché la conducesse al più presto nella metà boscosa di Iridis. Non aveva pensato a cosa avrebbe detto, non aveva la minima idea di come avrebbe dovuto comportarsi o cosa avrebbe dovuto aspettarsi, ma, quando arrivò davanti alla porta di Earmir, non ebbe esitazioni ad entrare.

    Rimase per qualche istante sull’uscio, immobile sotto l’arco di rami che si aggrovigliavano a formare il soffitto.

    «Sei tornata ad essere un Cavaliere delle Ombre, vedo…» Earmir comparve alla sua destra senza il più lieve rumore.

    Nella casa l’oscurità era quasi totale, ma a nessuna delle due occorreva molta luce: l’una, in quanto elfa, era in grado di catturare ogni sorgente luminosa allargando le pupille fino a poter distinguere ogni cosa come se fosse giorno; l’altra non aveva la stessa capacità innata ma era stata addestrata a vivere nelle ombre e ormai si muoveva in esse con maggior disinvoltura di quanto non facesse alla luce del sole.

    «Non si può chiudere il passato in un baule» rispose Ariendil chiudendo la porta alle sue spalle.

    «No» convenne Earmir. «Ma si può vivere il presente senza fantasmi.»

    Tacquero e il silenzio ronzò nelle loro orecchie col frastuono di un uragano.

    «Non sei tornata per restare, vero?»

    Ariendil distolse lo sguardo dall’amica: aveva smesso da tempo di stupirsi di come l’elfa riuscisse a leggerle dentro, ma ogni volta provava un senso di disagio nel sentirsi così nuda di fronte a lei.

    «Iridis non è più il mio posto» rispose senza guardarla negli occhi.

    Sul volto di Earmir si dipinse quell’espressione scaltra che era solita comparire quando aveva voglia di prendersi gioco dell’umana: «Allora perché sei qui?»

    «Volevo vederla un’ultima volta prima di andarmene. E volevo salutarti.»

    «Ah, ma certo!» esclamò l’elfa fingendo platealmente di credere a quanto aveva sentito. Ariendil non abboccò all’esca e lasciò cadere amo e discorso, ma quando sollevò gli occhi verso l’amica la vide estrarre la spada dal prezioso fodero d’argento che le pendeva al fianco e puntarla verso di lei. Sul suo volto, il sorriso era lo stesso di quando la sfidava in qualsiasi altra cosa.

    Qualcosa in quel gesto impertinente o forse in quell’espressione divertita aprì una breccia nella coltre di malumore dell’umana e, cogliendo di sorpresa anche se stessa, Ariendil ricambiò il sorriso.

    «Niente magia però!» le ricordò sguainando a sua volta le spade.

    «A patto che tu non usi le ombre!»

    Lo scambio era equo e le lame iniziarono a lanciare bagliori nel buio della notte di Iridis.

    «Sei un po’ arrugginita, Ariendil!» scherzò Earmir lasciandosi cadere a terra accanto all’amica.

    «Hai usato la magia dell’aria!»

    «Solo perché tu stavi per nasconderti in un’ombra!»

    «Non è vero!» Ariendil sbuffò: era inutile discutere con lei, in un modo o nell’altro finiva sempre per spuntarla.

    Il loro respiro si condensava in nuvolette bianche che si disperdevano nel freddo della stanza, ma i loro corpi spossati dal duello emanavano calore e forza.

    «Dove sei diretta stavolta?» chiese Earmir all’improvviso.

    Ariendil si strinse nelle spalle e i suoi occhi tornarono cupi: «Ho ricevuto notizie dai miei genitori. Sta succedendo qualcosa all’Accademia.» 

    «L’Accademia di Rodion?» L’umana annuì, mentre i ricordi della sua infanzia danzavano fumosi nella memoria. Era entrata nell’Accademia di Rodion a sette anni e da allora era iniziato il suo addestramento per diventare Cavaliere delle Ombre. Entrambi i suoi genitori lo erano e, prima di loro, lo erano stati i suoi nonni. Una sorta di tradizione di famiglia, pensò con una punta d’orgoglio. Una tradizione che lei aveva rispettato solo in parte, abbandonando l’Accademia una volta ottenuto il grado di Cavaliere delle Ombre. Non voleva restare chiusa tra le mura della sua casta, voleva vedere il mondo, confrontarsi con altri guerrieri, imparare nuove tecniche. Soprattutto voleva vedere gli elfi. I Cavalieri delle Ombre erano una cerchia chiusa ai soli umani e Ariendil non aveva mai visto un elfo in vita sua quando incontrò Earmir, sulle coste del Mare Settentrionale.

    2

    Aveva lasciato l’Accademia di Rodion da qualche mese e, dopo brevi soste e piccoli vagabondaggi, aveva deciso di tornare al suo villaggio natio, nelle Terre Senza Nome, dove aveva trascorso i primi sette anni della sua vita. Viaggiava di notte e riposava quando il sole era alto nel cielo: allora non aveva ancora imparato ad apprezzare le gioie della luce, allora non aveva ancora conosciuto gli elfi. Le tenebre erano le sue amiche più care e in esse viveva.

    Aveva deciso di costeggiare il Mare Settentrionale fino al golfo di Teras e poi di attraversare il fiume Hisdaal e piegare verso sud. Sarebbe giunta al villaggio nel giro di una settimana. Non che sapesse cosa fare una volta tornata a casa, ma aveva pensato che se avesse dovuto scegliere un posto dal quale partire, quel posto doveva essere il luogo in cui era nata.

    Quella notte l’aria era calda e il mare una distesa di inchiostro sotto un cielo di stelle. La luna piena posava i suoi raggi argentei sulle creste delle onde, sulle cunette di sabbia e su qualsiasi cosa si alzasse al di sopra della linea della terra. Era scesa da cavallo e si era seduta sul bagnasciuga, paga della serenità che la musica della risacca e la vastità dell’orizzonte donavano al suo animo in perenne inquietudine.

    «Serata piacevole.»

    Una voce alle sue spalle l’aveva fatta balzare in piedi con i pugni già chiusi sulle else e i muscoli pronti a scattare.

    «Mi spiace, non volevo spaventarti…» Era una ragazza esile, con uno strano accento cadenzato. Non sembrava pericolosa.

    Ariendil si era accorta che la stava guardando con insistenza, come se aspettasse qualcosa per poter terminare la frase.

    «Ariendil» si era presentata, intuendo a cosa fosse dovuta quell’attesa.

    La sconosciuta aveva sorriso: «Non volevo spaventarti, Ariendil! Io sono Earmir.»

    Si erano strette la mano e solo allora la guerriera aveva notato i lineamenti della ragazza.

    «Ma non sei umana!»

    Nonostante l’oscurità, Earmir dovette aver visto perfettamente la sua espressione di stupore perché aveva riso divertita.

    «Certo che no!»

    Le si era avvicinata ancora e Ariendil aveva scorto le orecchie a punta e l’iride sottile che circondava una pupilla enorme. Al chiarore della luna, la sua pelle le era parsa quasi evanescente. Un elfo! Stava per dirlo, ma a quel tempo non le piaceva che la gente ridesse di lei.

    «Un Khanàl!» aveva detto invece. Il volto stizzito dell’elfa l’aveva ricompensata dallo smacco subìto poco prima: impagabile.

    «Cosa??? Ti sembro forse un Khanàl???»

    I Khanàl erano una popolazione tribale che viveva sui monti Khànor, ad est delle Alture del Drago e delle Terre Senza Nome. Erano creaturine poco intelligenti, più simili ad animali che ad esseri evoluti come elfi o umani: erano bipedi, avevano una loro forma di linguaggio e sapevano usare utensili, ma le somiglianze con gli uomini finivano qui. Con gli elfi avevano più cose in comune, aveva pensato Ariendil, a partire dalle orecchie a punta e dalla possibilità di vedere nel buio allargando le pupille, che però nei Khanàl erano verticali.

    «Se non fosse per il fatto che non sei alta circa un braccio e non sei verde, non vedo molte differenze» aveva provocato ancora. Col tempo avrebbe imparato che scherzare con l’orgo-glio di Earmir era come stuzzicare un predatore affamato.

    L’elfa non aveva fatto altro che lasciarsi accarezzare un piede dalle onde e un attimo dopo un muro d’acqua si era abbattuto sull’umana, lasciandola fradicia e attonita.

    «Se non fosse per il fatto che tu non ispiri affatto tenerezza, non vedo molte differenze tra te e un pulcino bagnato» l’aveva canzonata Earmir passandole accanto senza degnarla di un solo istante di attenzione. Era salita agilmente dietro la sella del cavallo dell’umana e si era girata a guardarla come se si fossero conosciute una vita fa.

    «Che fai, resti lì? Se non ti togli quei vestiti zuppi prenderai un malanno… visto che non sei un elfo!» Le aveva lanciato un sorrisetto ironico: sapeva benissimo di aver vinto la prima partita. «Dai, vieni.»

    Senza dire una parola, Ariendil aveva fatto leva sulle staffe e si era seduta davanti all’elfa, facendosi condurre fino ad Iridis come una bambina portata per mano.

    3

    «Vengo con te.»

    Per un attimo quelle parole vagarono nella stanza come foglie d’autunno trascinate dal vento. Ariendil si voltò verso l’amica.

    «Cosa???»

    L’elfa la guardò dritta negli occhi: aveva già deciso. «Vengo con te» ripeté.

    «Non se ne parla!» replicò Ariendil scattando in piedi. «Non ho nessuna intenzione di trascinarti in un’altra battaglia. Dall’ultima ne siamo uscite vive a stento.»

    Earmir esitò prima di rispondere, poggiò la schiena sulla parete e sollevò la spada davanti a sé per ammirarne la perfezione prima di riporla nel fodero. Poi parlò nella lingua comune a tutti i mortali, ma col suo forte accento elfico.

    «Se siamo ancora vive è perché abbiamo combattuto fianco a fianco. Nonostante tutto. Se non ci fossimo aiutate a vicenda, nessuna delle due sarebbe sopravvissuta quella volta.» La nube di malinconia si dileguò in un istante nei suoi occhi castani e sulle labbra comparve all’improvviso un sorriso inatteso. «Senza contare» aggiunse «che nell’ultima battaglia ti ci ho coinvolta io…»

    Si lasciò sfuggire una risata che solo lo scampato pericolo poteva giustificare.

    «Vero» ammise Ariendil ricordando gli eventi che le avevano portate a un passo dalla fine.

    «Quindi quando partiamo?» chiese impaziente Earmir.

    L’umana la guardò nell’oscurità della casa d’albero. Sapeva che accettare la sua presenza avrebbe significato portare con sé parte di Iridis, guardare in faccia ciò che più le faceva male. Sapeva che se le avesse permesso di venire non sarebbe più stata in grado di recidere il legame con la sua identità di cantastorie e sarebbe rimasta ancorata a quella vita che tanto aveva amato, a quegli anni meravigliosi che sapeva non sarebbero mai più tornati. Sarebbe stata un’illusione, il profumo di qualcosa che non poteva avere, l’ultimo riflesso del sole che moriva senza che lei avesse la possibilità di salvarlo. Era perfettamente consapevole di quello a cui andava incontro. Ma se avesse potuto scegliere una persona con cui condividere la sua angoscia, se la sorte fosse stata tanto clemente da concederle un piccolo lume nel buio o anche solo qualcuno da avere accanto nel momento della morte, Ariendil avrebbe scelto lei.

    «Domani al tramonto» disse. Attese qualche secondo, poi aggiunse: «Posso restare qui per la notte? Non ho voglia di tornare a casa mia…»

    Earmir si alzò da terra e la abbracciò.

    «Sai che anche qui sei a casa. Mi sei mancata.»

    4

    Il chiarore del mattino svestiva la notte del suo abito scuro. I colori tornavano ad assumere le loro molteplici tinte, liberi ormai dal grigiore uniforme che dipingeva il mondo nell’attesa dell’alba. L’alba…

    Ariendil rallentò l’avanzata verso nord e, senza scendere dalla sella, si girò a guardare Iridis, una perla bianca incastonata nella foresta innevata. Il giorno prima l’aveva vista avvampare nel fuoco del tramonto, ora voleva vederla accendersi sotto i raggi del sole nascente. Rimpiangeva di non avere al suo fianco Earmir, l’amica di sempre, la compagna con cui aveva condiviso i giorni più belli e quelli più orribili. Ma aveva deciso così: la vita di un Cavaliere delle Ombre è una vita di solitudine e, forse, era proprio di solitudine che lei aveva bisogno. Sentiva sempre più spesso la necessità di stare sola, la vicinanza con le persone iniziava a metterla di cattivo umore, ad innervosirla. Non era la prima volta che le accadeva. Un tempo era sempre stato così, prima di Iridis, prima degli elfi, prima…

    Un brivido le percorse le membra quando l’alba giunse da oriente ad illuminare i marmi della capitale dell’Ovest: la luce irruppe come un torrente sulla città, abbracciò col suo calore statue e palazzi, rimbalzò gioiosa tra ruscelli e fontane e tremò per qualche istante prima che Iridis la facesse esplodere in un arcobaleno di colori. Finché il sole non fu completamente sopra la linea dell’orizzonte, la capitale degli elfi gareggiò con esso in una sfida a colpi di luce, luce bianca ad est, cangiante ad ovest.

    Ariendil rimase a guardare quella luminescenza finché essa non svanì, restituendo ad Iridis le sembianze di una città e il freddo candore del marmo. Le lanciò un’ultima occhiata per conservare nel cuore il suo ricordo, strinse le redini ma, quando si voltò di nuovo verso nord per riprendere il cammino, si specchiò negli occhi severi di Earmir.

    5

    «Prevedibile. Stupida e prevedibile!» Dritta su un magnifico destriero dal manto marrone e la criniera dorata, l’elfa sbarrava la strada alla fuga solitaria dell’amica.

    «Torna ad Iridis, Earmir.»

    Fece per aggirarla, ma all’elfa bastò un impercettibile movimento delle ginocchia e il suo cavallo tornò a frapporsi tra l’umana e la via.

    «Ne abbiamo già parlato mi sembra!»

    A volte Earmir non aveva nulla di elfico, o almeno nulla della consueta pacatezza del popolo fatato: fatta eccezione per le caratteristiche fisiche e la cadenza musicale del linguaggio, in quel momento la si poteva scambiare benissimo per un essere umano, tanta era l’irruenza con cui parlava.

    «Non puoi dirmi dove devo andare o cosa devo fare! Ho deciso che verrò con te e lo farò, che tu sia d’accordo o meno!»

    Inizialmente Ariendil aveva creduto che fosse stata la sua vicinanza a rendere Earmir tanto simile ad un’umana e, al tempo stesso, era certa di aver assimilato a sua volta alcuni atteggiamenti della gente di Iridis. Poi aveva

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