Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Novedodici
Novedodici
Novedodici
Ebook308 pages4 hours

Novedodici

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Una brutta storia di avidità e corruzione nella quale è coinvolta la figlia di un’anziana donna, innesca il delitto di quest’ultima, consumato tra le mura domestiche di quella che sembra una famiglia come tante.

La storia, realmente accaduta, si svolge tra Roma e Brindisi dove, tra periferie

di un’Italia fine anni novanta e personaggi di dubbia reputazione, si snoda il percorso di un figlio alla ricerca della verità sull’uccisione della madre, fino a scoprire la sconvolgente implicazione della sorella nell’omicidio.

Una storia allucinante come solo la realtà sa esserlo.

Messo a nudo l’uomo nelle sue escursioni tra bene e male,tra grandezza e mediocrità.

Un romanzo drammatico non riconducibile al giallo, elementi esistenzialisti che prendono corpo nella vita quotidiana di persone comuni.

L’intrigo, il tormento, l’avidità e l’atrocità, ma anche, sullo sfondo, colori meravigliosi, profumi di natura e di cucina, amicizie autentiche, amore, e una vita vissuta fino in fondo, senza remore,con un amore per la vita e per le cose che sembra saldarsi a una speranza radicata in una metafisica di luce.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateJul 10, 2014
ISBN9788867823048
Novedodici

Related to Novedodici

Related ebooks

Thrillers For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Novedodici

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Novedodici - Michele Rescio

    Michele Rescio

    NOVEDODICI

    EDITRICE GDS

    Michele Rescio Novedodici©EDITRICE GDS

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel.  02  9094203

    e-mail: edizionigds@hotmail.it

    Collana ©OMBRE & MISTERI

    Editor testo Elena Di Fazio

    Foto in copertina di ©Ilaria Sabbatini

    Progetto copertina di ©Iolanda Massa

    Tutti i diritti riservati.

    Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte

    Inciampi nei miei più segreti pensieri

    Amleto

    A mia madre

    Prefazione

    Al suo esordio letterario si può tranquillamente affermare che Michele Rescio presenti i caratteri dello scrittore che ha tutte le carte in regola, come un vero professionista della scrittura deve avere. Il suo romanzo NOVEDODICI, che si colloca tra le opere di contenuto tra il poliziesco, l’intrico del giallo e il racconto veristico, offre un ampio ventaglio di scene d’azione, articolate al pari di una pellicola cinematografica e perciò emozionanti e coinvolgenti. Il ritmo è sostenuto, lo stile essenziale ma non privo di un intrinseco valore letterario riscontrabile nella varietà delle situazioni, degli ambienti, dei personaggi ognuno distinto dall’altro dai contorni di una ben precisa psicologia che non rimane convenzionale come un ritratto esteriore, ma prende vivezza e credibilità realistiche.

    Anche il linguaggio usato dall’Autore, seppur crudo e incisivo, ha una sua dignità comunicativa nonostante illustri fatti e persone legati ad ambienti non culturalmente preparati.  La fluidità espressiva, la facilità di creare immagini adeguate e rispondenti, la creatività istintiva di allusioni metaforiche ne fanno un linguaggio di una lucidità e ricchezza davvero significative ed importanti. Il contenuto dell’opera di Rescio non è facilmente riassumibile, né sarebbe azione apprezzabile il farlo, trattandosi di un quasi giallo che perderebbe la grande suggestione dell’impianto a sorprese continuamente rinnovate avvincendo e tenendo desta l’attenzione del lettore. Possiamo invece mettere in risalto la sceneggiatura che accompagna le vicende dei protagonisti, facenti tutti parte di una famiglia tormentata al suo interno da situazioni affettive conflittuali.

    Come in un grande romanzo ottocentesco la trama segue l’evoluzione di molti e densi stati d’animo che s’intersecano accompagnando i personaggi sempre in un clima di tragicità e di ansia che è metaforicamente rappresentato dalla realtà esterna: dapprima Roma e la vita romana in cui è inserito il personaggio principale, poi il viaggio dello stesso verso la Puglia, infine la casa natale e la tragedia che in essa è accaduta. Su tutto agisce, come un grande sfondo teatrale, la situazione meteorologica e paesaggistica che accompagna gli avvenimenti. Sempre un cielo plumbeo, attraversato da nubi inquiete e in fuga, da brontolii di tuono, ora lontani e sfumati, ora vicini, incombenti e minacciosi. Esso sembra agire come i cori delle tragedie greche, che con la loro funzione di commento e di sottolineatura aiutavano lo spettatore alla comprensione profonda degli avvenimenti distribuiti dal fato tra gli uomini. Anche i paesaggi, la terra, i paesi, la città sono voci che seguono il protagonista nel suo scavo interiore, nel rifugio o nella fuga, agendo di volta in volta come forze di un ritrovato bene o come immagini ancora oscure del male. Michele Rescio, figlio di una terra che storicamente ha assorbito la cultura della Magna Grecia forse porta ancora nel suo DNA l’impronta di quelle antiche recitazioni che, mentre descrivevano il dolore dell’umanità, offrivano tuttavia, nella forza purificatrice,  un’etica più forte delle suggestioni malvagie. Infatti, il romanzo Novedodici pur portando alla luce le crudeli ferite che possono esistere anche a livello famigliare, come nella società civile; esso lancia un messaggio di speranza e un richiamo ai valori imperituri che vivono nell’animo umano e che sono capaci di elevarlo. Il protagonista attraverso un itinerario di sofferenza riesce a uscire dalla palude dei disvalori e del nichilismo e ad approdare, grazie al suo impegno e alla sua coraggiosa forza di volontà, al territorio della speranza e della dignità. Questo ci sembra il miglior pregio del libro, infatti, agevolmente supera i pregi puramente letterari e si colloca legittimamente tra le realizzazioni del pensiero, in quella galleria di opere che sfidano le mode e i tempi e sono degne di essere rilette a distanza di anni. In esse si può trovare sempre una sicura guida per i nostri momenti di smarrimento e uno spunto di approfondimento quando sentiamo l’esigenza di allontanarci da un mondo di sorda materialità per dirigerci verso quella spiritualità che può offrirci serenità, equilibrio interiore e soprattutto una vera dimensione di gioia per noi e per coloro che ci sono vicini.

                                                                                Elettra Bianchi

    Elettra Bianchi, laureata in filosofia, docente di letteratura italiana è poetessa e critica di letteratura. Ha pubblicato per la casa Lorenzo Editore di Torino la silloge Galoppano i segni che ha vinto il secondo premio al concorso di poesia internazionale di Moncalieri (TO) nel 2001, e Il cammino forte per la medesima casa editrice vincitore del premio La mole città di Torino 2007. Scrive pagine critiche sulla rivista Talento di Torino.

    Fine gennaio 1998, strada statale sedici, direzione nord.

      Il taxi procedeva lentamente, assalito da una pioggia torrenziale. L’uomo sul sedile posteriore stringeva con forza la mano della donna al suo fianco. I loro occhi esprimevano sconcerto e paura, mentre sui loro visi c’erano segni di cupa preoccupazione per un pericolo ancora presente e minaccioso.

      Il paesaggio, nascosto dalla fitta pioggia, era irriconoscibile, confuso; il mare alla loro destra era gonfio e minaccioso. All’interno della vettura, gli occupanti tacevano. Solo la pioggia urlava e batteva con ferocia sulla macchina.

      Alle loro spalle, la città scivolava via senza un saluto, risucchiata dall’acqua.

      La vettura, dopo aver percorso una ventina di chilometri, oltrepassò il confine provinciale. La pioggia pareva perdere di intensità e forza, poi, improvvisamente, come d’incanto, svanì del tutto e l’auto entrò in una luce abbagliante, calda.

      Davanti ai loro occhi, uno spettacolo inaspettato: un arcobaleno. L’arco colorato spuntava dal mare alla loro destra per posarsi sulla terraferma in un punto imprecisato all’orizzonte.

       A quella vista, la tensione accumulata si sciolse. L’uomo abbassò il finestrino e la disperse fuori dall’abitacolo con l’aiuto del vento di tramontana, e finalmente sui loro visi tornò il sereno. Lui allentò la presa sulla mano della compagna e la baciò con tenerezza; lei lo guardò intensamente e gli sorrise con gli occhi.

    Roma, dicembre 1997

      Paolo e Lucia vivevano in un quartiere popolare a sud-est di Roma. Abitavano al secondo piano di una palazzina liberty scampata alla demolizione e alla speculazione edilizia dei primi anni Settanta; l’avevano ristrutturata e trasformata in un ampio loft. La casa ad angolo, tra una stretta e corta via, priva di altre abitazioni, e una lunga e ampia, densamente urbanizzata, ben arieggiata da quattro alte finestre, due delle quali affacciavano sul Parco della Caffarella, da dove ricevevano aria pulita e profumata.

      C’era tutto quello che serviva in quella strada: un vecchio caffè, gestito dal sor Ettore, un omone grande e grosso con una faccia bonaria e dolce come una zeppola con la crema, e da sua moglie, la sora Ada, piccola e minuta molto pia e generosa, ma con il carattere e il piglio di un pugile, vero pilastro della piccola azienda. La tabaccheria del sor Armando, dove si faceva la fila per tentare la sorte al gioco del lotto.

      Il forno dei fratelli Recchia, dove di notte pischelli nullafacenti ed equivoci personaggi andavano a ingozzarsi di cornetti e bombe alla crema, mentre il mattino si era catturati dai profumi seducenti del pane cotto a legna, dei biscotti appena sfornati e dalla meravigliosa pizza rossa e bianca cui non si poteva resistere.

      Il signor Giuseppe, il ciabattino, secco e dritto come un chiodo e dall’età incerta, i capelli nerissimi, sicuramente tinti e impomatati con la brillantina, sempre in giacca e cravatta anche quando risuolava scarpe consumate dal tempo.

      C’era l’officina meccanica di Hassan, un marocchino che parlava il romanesco come un trasteverino doc, che aveva preso per moglie una calabrese piccina e grassa che gli aveva sfornato, uno dietro l’altro, cinque Hassan in miniatura.

      L’emerita Sartoria di abiti cuciti a mano, dove un ignoto burlone aveva aggiunto col pennarello, accanto alla parola mano, un impertinente fa anche le seghe, che le anziane sorelle Rivera non avevano mai rimosso.

       Ma era al mattino, con l’apertura del mercato, che la strada si affollava di una variopinta umanità multicolore, dove l’italiano e il romano erano solo due delle numerose lingue parlate.

      Qui, su un centinaio di banchi e chioschi, facevano capolino cataste coloratissime di frutta e verdura, prodotti dei piccoli coltivatori dell’agro romano.

      C’erano i chioschi della carne, con polli e frattaglie, offerti da corpulenti macellai dalla parlantina sciolta e affilata come i loro strumenti di lavoro.

      E poi gli stornelli in romanesco dei pescivendoli, che invitavano ad acquistare pescato di dubbia freschezza, almeno a giudicare dagli occhi spenti e opachi dei pesci messi in bella mostra su ghiaccio tritato, cui faceva da contrasto il verde scuro delle alghe marine.

      I colori pastello dei banchi dei legumi e della frutta secca e dei dolci, dov’erano esposti in bella mostra torroni e croccantini, zucchero filato, caramelle di ogni forma, colore e sapore.

      E ancora, i banchi dell’usato, dal forte odore di naftalina, dove mani e occhi esperti e dal portafoglio smilzo frugavano tra i cenci alla ricerca di una camicetta firmata, un abito ancora buono da indossare, giacconi e cappotti, jeans, coperte, stoffe e capi di pelle. Gli immancabili cinesi, con i loro prodotti perfettamente clonati, forse migliori degli originali, venduti a prezzi incredibilmente bassi, che denunciavano un costo del lavoro da sfruttamento feroce.

      E non mancavano gli abusivi, i clandestini, africani per lo più, che ti offrivano con gentilezza sorrisi larghi e malinconici, la merce esposta per terra sopra un telo, sempre pronti a farne un fagotto per scappare alla vista dei vigili urbani.

      Era uno spasso osservare la caotica, vociante umanità che percorreva adagio, in un confuso andirivieni, carica di gonfi sacchetti di plastica e vecchie borse di cotone, e dai rumorosi rotolanti carrelli, quella via del pane e companatico.

      Pareva una disordinata e allegra processione laica, oppure una singolare caccia al tesoro, dove di prezioso era il cartellino col prezzo più basso trovato dopo una lunga ricerca tra i banchi affollati.

      S’incontravano giovani spose, mamme già adulte, coppie di pensionati, anziani rimasti soli, tutti alla ricerca dei frutti della terra o del mare o dell’ingegno umano che, una volta trovati, acquistati e portati a casa, in cucina sarebbero stati trasformati in amatriciane, ragù, coda alla vaccinara, spaghetti con il pomodoro, pollo arrosto, alla cacciatora, in frittura di pesce. Il Mercato, luogo umanissimo e imprevedibile, dove s’intrecciavano amori clandestini, proibiti.

      Una sana, calda, e variopinta Babilonia: umanissimo contrappunto al disumano centro commerciale, illuminato esageratamente per vendere meglio i suoi balocchi, ma soprattutto per accecare la ragione e degradare tutti al rango di consumatori imbecilli.

      Certo, quel quartiere, quelle strade, non erano atolli incontaminati e felici. Anche qui, come altrove, si consumavano drammi famigliari, si vivevano difficoltà economiche ed esistenziali.

      Vi abitavano brave e pessime persone, sparpagliate alla rinfusa sul tavolo da gioco della vita quotidiana da un croupier sordo, cieco, muto e a volte crudele.

      Si pativano l’inquinamento e lo scippo di un disgraziato, s’imprecava quando non si riusciva a trovare parcheggio dopo una giornata di lavoro, a volte pessimo e degradante.

      Insomma, era la vita quotidiana di una comunità complessa e contraddittoria di una grande periferia dormitorio.

      A Lucia e Paolo, però, piaceva far parte di quella comunità, abitare in quel quartiere, in quella strada, in quella casa, e ne condividevano contraddizioni, pregi e difetti.

      Lucia, quarantanove anni ben portati. Capricorno ascendente capricorno, con un grande e generoso cuore, senso di responsabilità, capace nel suo lavoro, impiegata in uno studio di agenti di Borsa, stimata e amata da coloro che la conoscevano bene. Un viso ovale e dolce, capelli scuri e corti, un lungo collo da mordere, occhi color terra di Siena bruciata dinamici e intelligenti.

      Paolo, pittore, almeno per il momento, cioè fino a quando non avesse incontrato, come gli capitava periodicamente, qualcosa o qualcuno che lo facesse innamorare a tal punto da mollare i pennelli per una nuova avventura creativa.

      Insomma, un nomade e famelico curioso. Si autodefiniva, scherzando, un brevilineo armonico, per non ammettere che era bassino.

      Cinquant’anni compiuti. Nato sotto il segno del Leone con ascendente Bilancia. Un viso regolare. Capelli bianchi tagliati cortissimi. Foltissime sopracciglia e occhi neri come la notte.

      Le mani lunghe e magre erano sempre in movimento, a disegnare improbabili geometrie, a sostegno dei suoi ragionamenti; polemico nelle discussioni politiche, sulla funzione dell’arte nella società contemporanea e su tante altre cose.

      Appassionato di cucina mediterranea, frutti di mare crudi, esoterismo, politica, belle donne e tante altre cose.

      Insomma, un caratteraccio, un ingombrante anarco-sindacalista. Aveva un suo personale motto mutuato da un vecchio slogan in uso durante il '68: Una risata vi seppellirà tutti, che riteneva bonario e inoffensivo, in un più efficace: una pernacchia vi seppellirà tutti, in omaggio al grande Edoardo De Filippo; generoso e comprensivo con i più deboli e sfortunati, sensibile alle vicende umane e sociali; leale con gli amici, ma anche credulone. Bastava un sorriso largo e ben fatto per conquistarlo e farlo fesso, salvo poi diventare durissimo quando si accorgeva, e se ne accorgeva sempre alla fine, del tradimento.

      Era un idealista vecchia scuola, amante della giustizia con la G maiuscola, rispettoso della natura e degli animali.

      Sosteneva che era nelle scuole che bisognava insegnare a sognare il futuro e che lo Stato doveva, poi, fornire i mezzi a tutti per realizzarli.

      Il costo di tutto ciò spesso era un intenso rosso carminio in banca, sguardi preoccupati degli amici che gli volevano bene, e polemiche feroci con chi lo considerava un pericoloso sovversivo comunista.

      Aveva un pessimo rapporto col denaro, che dilapidava nei mercatini acquistando oggetti inutili che regalava agli amici più cari, stampe antiche e vecchi libri.

      Per fortuna che c’era Lucia, e il suo stipendio, a tenere in sicurezza luce, gas, telefono e affitto, mentre al superfluo ci pensava lui con i suoi strani quadri che da un po’ di tempo riusciva a vendere a un suo amico gallerista, Giovanni, il quale gli stava organizzando una mostra per la primavera successiva e che tutti i santi giorni gli rompeva le palle: Paolo! Allora, stai lavorando? Dai, che aprile è alle porte. Non fare lo stronzo con i tuoi blocchi creativi, tanto lo sai che la maggior parte della gente non capisce un cazzo di pittura astratta. Anch’io, sai, non ci capisco molto dei tuoi deliri su tela, però sei bravo, ai miei clienti piaci, li comprano !

      A Giovanni non interessava altro che vendere. Però gli voleva bene, era un caro amico e, in fondo, faceva bene il suo mestiere.

      E poi, a Giovanni non competeva sapere che lui, nei suoi deliri su tela, cercava di trovare armonia tra spazi vuoti e volumi, toni e sfumature, assenze, tratti emotivi; che nei suoi colori così violenti in realtà si celava il tentativo di arrivare a un pensiero senza mediazioni culturali, che tendeva a una grammatica sconcia, a una poetica del colore volutamente provocatoria, con la sottrazione di ogni riferimento morale, filosofico, estetico. Dove la bellezza fosse nuda, scosciata, erotica.

      Nei suoi lavori non vi erano messaggi di sorta, non contenevano problematiche esistenziali, non denunciavano niente. A lui bastava che i dipinti suggerissero suggestioni ottiche, perplessità emotive, interrogativi senza risposte, repulsioni. Solo l’indifferenza lo metteva a disagio.

    Quando il suo gallerista gli aveva proposto il progetto di una mostra, Paolo aveva fatto i salti di gioia. Era felicissimo, gli si presentava l’occasione che poteva dare una svolta al suo lavoro, alla sua ricerca, alla sua vita artistica.

    La sera stessa festeggiò la notizia con Lucia e una coppia di amici. Fecero mattina, mangiando, bevendo vino rosso pugliese, fumando erba calabrese e gustando dolci arabo-siciliani che avevano portato il suo amico Azid e la moglie Veronica.

      Lui era uno straordinario scultore iraniano, bellissimo e roccioso come le sue creazioni, da moltissimi anni a Roma. Lei era una storica dell’arte, ricercatrice alla Sapienza, rigorosa e competente.

      Paolo era allegro più di quanto non fosse di solito. Distribuiva spassosissime facezie e poetiche definizioni sull’amore, l’amicizia, la fratellanza e gli imbecilli.

      Abbracciava tutti. Ballarono a lungo una scatenatissima Pizzica salentina.

      Infine, a tarda notte, salirono sul terrazzo condominiale a guardare con occhi lucidi, verso la zona buia del Parco della Caffarella, un cielo mozzafiato carico fino all’inverosimile di stelle color latte e quasar pulsanti: un fenomeno rarissimo, in una città troppo illuminata come Roma.

      Ma era stata una serata festosa, così anche le condizioni atmosferiche avevano dato un contributo per un finale che aveva del magico.

      La Costellazione d’Ercole si esibiva in tutta la sua misteriosa bellezza: i suoi punti luminosi, se uniti, formavano una piramide dal cui vertice un’asta immaginaria sventolava tre stelle, una accanto all’altra. Paolo indicò ai suoi amici quella al centro e serissimo disse: Amici miei, quella è la stella da cui provengo.

      Lucia, Veronica e Azid non ebbero dubbi sul fatto che il loro amico non stava scherzando, che non erano il vino e le canne a farlo delirare.

      Poi il freddo invernale si fece sentire e una voce sentenziò che si erano fatte le cinque del mattino e che era giunto il momento di porre fine alla festa. Prima di scendere, salutarono in coro l’antica dimora di Paolo lassù nello spazio.

      I padroni di casa salutarono i loro amici sulla soglia di casa, e attesero con la porta aperta che il portone in fondo alle scale si chiudesse alle loro spalle. Infreddoliti dalla sosta sul terrazzo, si precipitarono a letto, dove si abbandonarono a un a corpo a corpo che alcol e droga non riuscirono a impedire, anzi, forse, agevolarono.

      Il giorno successivo si alzarono molto tardi. Ripulirono ogni traccia dei bagordi; poi, come d’accordo, Paolo, accompagnò Lucia dalla madre, dove sarebbe rimasta ad aspettare che il suo uomo partorisse in solitudine i suoi figli di puro colore.

      Sulla soglia di casa della madre di Lucia si salutarono con una tenerezza commovente, come se lui fosse in procinto di partire per una missione spaziale.

      La tenne abbracciata a lungo sulla porta di casa, mentre sua madre, con un fagotto in mano, sorrideva compiaciuta e commossa.

      Poi gli andò incontro e gli disse: Tieni, Paolo, ti ho preparato una teglia di lasagne e delle zucchine ripiene, così per qualche giorno non avrai bisogno di cucinare e potrai lavorare in pace. In bocca al lupo, ragazzo mio.

      Grazie, mamma, non dovevi disturbarti le rispose, poi la baciò sulle guance, salutò le due donne e sparì nell’ascensore.

      In macchina, mentre tornava a casa, fece capolino un dolore familiare alla bocca dello stomaco.

      Conosceva a menadito quel malessere psicosomatico. Si presentava con la precisione di un orologio svizzero, sfrontato, arrogante e cattivissimo, ogni qualvolta si preparava a qualcosa di veramente importante.

      Un autentico figlio di puttana che veniva a guastargli la festa.

      In fondo lo considerava un amico, dispettoso e antipatico, da cui però tenersi alla larga il più a lungo possibile. Una sorta di parente scomodo, una pecora nera di cui vergognarsi, occultato col bianchetto dallo stato di famiglia. Panico era uno dei suoi mille nomi.

      Il dolore si faceva sempre più acuto, tanto da costringerlo ad accostare la macchina e fermarsi accanto al marciapiede per evitare di provocare un incidente.

      Spense il motore, abbassò lo schienale e si allungò con i piedi in avanti, poi chiuse gli occhi, anch’essi doloranti.

      Dopo circa mezz’ora, il dolore sembrò attenuarsi e Paolo riaprì gli occhi.

      Riacquistata un minimo di lucidità, iniziò a formulare ipotesi per annullare o rinviare la mostra. Tanto lo sapeva che lui si sarebbe ripresentato, e anche molto presto. Era certo che non lo avrebbe mollato tanto facilmente.

      Lo conosceva bene. Era cresciuto con lui, ed era diventato sempre più potente, insolente, aggressivo. Poi, allo stesso modo, scompariva. Si ritirava in un angolo remoto e sconosciuto della sua mente, dove sprofondava in un letargo più o meno lungo.

      Un letargo. Appunto! Non una scomparsa definitiva, come la morte.

      Paolo cominciò a esaminare a voce alta le varie possibili scuse da propinare a Giovanni, a Lucia, agli amici, a se stesso, per mollare tutto e rinunciare alla mostra: Vediamo, potrei rompermi un braccio, fratturami una mano, salire nudo sul terrazzo e beccarmi una bella polmonite. Fingere un infarto, oppure un’amnesia.

      Si guardò nello specchietto retrovisore e si diede dell’idiota. Come pensare che i suoi amici potessero credere a un’idiozia del genere? Poi, continuò nel delirio: "E se confessassi semplicemente la verità, tipo: ragazzi, vi comunico la mia inadeguatezza a produrre qualcosa che assomigli a un’opera d’arte. Finora il mio bluff ha funzionato, vi ho preso tutti per il culo, con la scusa dell’indecifrabilità appioppavo ai gonzi solo merda. La verità è che sono un fallito, inadeguato, incapace geneticamente di misurarmi con qualcosa d’importante: scusatemi tutti, è stato bello stare con voi, grazie per le belle serate passate assieme, vi saluto e vado a buttarmi sotto la metro. No, la metro no, che poi i pendolari s’incazzano di brutto per l’interruzione della linea, e avrebbero ragione, loro vanno a lavorare per mantenere le loro famiglie, non come me che cazzeggio con i colori. Deciso! Mi butto nel Tevere. Senza contare che con il mio tragico gesto faccio ricchi Lucia e il mio gallerista.

    Lo sanno tutti che un pittore, anche se mediocre, vale più da morto che da vivo. Le mie croste saranno contese a suon di bigliettoni. Immagino già i titoloni sui giornali: artista, non ancora famoso, scomparso nel Tevere in piena. È stato un incidente, un suicidio, o è stato gettato nel fiume da qualcuno che detestava i suoi quadri astratti? Mistero fitto."

      Poi scoppiò in una grassa risata e, accendendosi una sigaretta, pensò che non tutto era perduto. Per sua fortuna, l’ironia era arrivata in suo aiuto giusto in tempo.

      Sulla macchina iniziarono ad atterrare, infrangendosi, grosse gocce d’acqua. Dopo alcuni secondi, la pioggia si fece seria e le luci della città si sciolsero nella pioggia che adesso era fitta.

      Il temporale rese il viaggio un piacevole trip psichedelico.

      Giunto a casa apparecchiò la tavola, scaldò la lasagna e, nonostante lo stomaco fosse in guerriglia, ne divorò un’abbondante porzione, affogandola con quasi una bottiglia intera di vino rosso.

      Alla fine emise un sonoro rutto e una pernacchia. Si fece un cannone d’erba e se ne andò a letto, annientato più che altro dalle lasagne, e sprofondò in un buco nero e senza fondo.

      Prima di perdere completamente coscienza, sentì un lungo fischio che annunciava l’arrivo del treno-incubo su cui sarebbe salito da lì a poco.

     Lucia gli telefonava tutte le sere per accertarsi che fosse ancora vivo. Anche la sera dell’otto dicembre lo chiamò: "Sì, amore, sto benissimo. Lavoro come un pazzo, ho la testa così affollata di idee magnifiche che sono costretto a metterle

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1