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La rosa oscura
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Ebook486 pages6 hours

La rosa oscura

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About this ebook

Dopo l’improvvisa scomparsa dei genitori, la giovane Evelyn Morgan si trasferisce a Rosalynn Island, un’isola avvolta dal mistero, situata al largo dell’oceano Pacifico.

Lì incontra Declan Van Egon, un misterioso ragazzo dagli incredibili occhi verdi che con un solo sguardo riesce a sconvolgerla, ma che possiede anche un carattere e un comportamento indecifrabili a causa di un terribile segreto che nasconde nel proprio cuore. Da quel momento un susseguirsi di inspiegabili eventi porteranno la

protagonista a scoprire segreti celati dalla sua stessa famiglia e a scontrarsi con creature sovrannaturali che mettono in pericolo la sua vita e quella dei suoi affetti.

Indagando tra amori contrastati e antiche leggende, Evelyn dovrà ricorrere a tutta la forza che ha dentro di sé e al potere innato che le scorre nelle vene per compiere infine un’ardua scelta, la quale può determinare le sorti di un'intera e potente dinastia.

Una dura ed epica battaglia tra il Bene e il Male sul filo di una temibile profezia.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateJan 27, 2015
ISBN9788867823819
La rosa oscura

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    La rosa oscura - Laura Martin Montagner

    Laura Martin Montagner

    con Alice Stocco Donadello

    La Rosa Oscura

    GDS

    Laura Martin Montagner

    con Alice Stocco Donadello

    La Rosa Oscura

    Editrice GDS

    Via G.Matteotti 23

    20069 Vaprio d’AddaMi

    www.bookstoregds.com

    www.gdsedizioni.it

    www.editoriunitigds.it

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Foto di copertina: Cristina Terreo – Foto Terreo

                  Elaborazione grafica: Luca Bergamo

    Un fulmine squarcia il cielo infrangendosi con tutta la sua forza 

    in mare, come una spada rovente che si conficca violenta nel petto di un 

    uomo, scalfendone le carni.

    Ed eccomi qui, priva di forze, mentre rivedo la mia vita scorrere

     davanti agli occhi come in un vecchio film in bianco e nero. Le 

    persone a me care che ho perso per sempre, gli amici forti e 

    incredibilmente valorosi che ho conosciuto...

    E infine lui, l’amore della mia vita, colui per il quale vale la pena

     lottare.

    Per il quale vale la pena anche morire.

    Ora tocca a me compiere la scelta.

    Io sono… Evelyn Morgan.

    Prologo

     13 Dicembre 1992

    L’ex zona industriale le aveva sempre provocato una certa angoscia.

    Tutti quei capannoni abbandonati, così freddi e lugubri, con le vetrate completamente in frantumi, davano, nel complesso, l’idea di trovarsi in un cimitero.

    E quell’impressione era forte specialmente quella notte, in cui si trovava ad attraversare la zona a piedi, al buio. Per sua fortuna, almeno i pochi lampioni che si trovavano lungo la strada erano illuminati.

    Le avevano detto di parcheggiare abbastanza lontano e di raggiungere il posto indicato a piedi e, avevano precisato più volte, da sola.

    Faceva parecchio freddo, perciò si strinse ancor di più dentro il piumone nero mentre i lunghi capelli corvini le coprivano gran parte del viso: così bardata, se qualcuno l’avesse vista non si sarebbe mai accorto di quanto tremasse quell’esile ragazza.

    Lei non tremava solo per il freddo. Sapeva che, quella notte, accettare quel contratto non sarebbe stata esattamente una passeggiata. L’unica consolazione che aveva era il fatto che, una volta concluso il rito, avrebbe avuto la cura per il suo male: così le era stato riferito da uno sconosciuto, in ospedale. Io conosco chi ha la cura… Ti dirò dove cercare Marcus.

    Ad un certo punto, mentre camminava e si guardava intorno vedendo la propria paura riflessa e distorta negli infissi metallici degli edifici, le venne il dubbio di aver fatto una scelta troppo avventata, e per qualche istante pensò di fare dietrofront e di tornarsene al suo appartamento, benché freddo e buio. Le avevano staccato il riscaldamento e la corrente, perché dopo gli ultimi ricoveri all’ospedale le era rimasto solo qualche dollaro in tasca, giusto quelli da conservare per non morire di fame. Scosse violentemente la testa. Non poteva, non voleva tornare indietro: in fondo aveva solo vent’anni, aveva tutto il diritto di vivere, trovarsi un lavoro onesto e magari, un giorno non troppo distante, incontrare l’amore che le avrebbe scaldato il cuore rifuggendo da esso tutto il freddo provato fino ad allora.

    Ripensò ai suoi genitori: anche se l’unico ricordo che aveva di loro risaliva a sedici anni prima, ed era rappresentato dall’immagine di mamma e papà che si abbracciavano davanti alla finestra, sapeva che loro non avrebbero voluto per la figlia un destino tanto terribile. Ma quello era l’unico ricordo felice su cui potesse ormeggiare la mente. Dopo un anno dalla loro morte, per lei era cominciato il calvario: l’orfanotrofio, la malattia e le casefamiglia, che di famiglia non avevano proprio niente. 

    No, si disse, devo avere la mia cura. Devo avere la mia rivincita.

    Fece ancora pochi passi e raggiunse la fabbrica abbandonata che le avevano indicato.

    Trovando chissà dove il coraggio, fece scorrere la porta ed entrò.

    Dovette attendere che la vista si adattasse all’oscurità prima di poter proseguire dentro alla fabbrica, tra vecchi macchinari enormi e impolverati, dal fondo della quale proveniva una debole luce, ma non appena mosse pochi passi si sentì afferrare per un braccio.

    «Chi sei?!», esclamò impaurita. Un uomo alto, avvolto in un mantello nero e con il volto nascosto da una maschera di cuoio, la trascinò verso l’angolo da dove proveniva la luce senza darle risposta.

     Si trovò davanti a un gruppo di persone, tutte con il volto celato da una maschera. Tra di essi, due figure con il mantello di colore leggermente diverso e con decorazioni dorate ai bordi si fecero avanti e si avvicinarono a lei.

    «Finalmente, mia cara… Ti stavamo aspettando. Io sono Marcus», disse il più alto con voce profonda.

    «Ho bisogno della cura che mi è stata promessa. Non ho tempo da perdere in convenevoli», precisò lei, nervosa.

    «Uh, che bel caratterino…», s’intromise la persona accanto a Marcus. «Ma sappi che per ogni cosa c’è un prezzo da pagare. E questo è alto.» Dalla voce, capì che si trattava di una donna.

    «Sapete che non ho denaro, ma vi prego, aiutatemi, farei qualsiasi cosa per ottenerla», supplicò disperata.

    «Non devi preoccuparti, noi non vogliamo denaro. Devi solo accettare di fare qualcosa per noi.»

    «Di che si tratta?»

    Marcus le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio il compito che voleva lei portasse a termine per loro. «Lui è l’ultimo discendente di una strega che ha maledetto la mia gente: tutto questo sarà la chiave della nostra liberazione», le spiegò Marcus.

    Lei scosse la testa per accertarsi di non essere vittima di una delle allucinazioni che la malattia talvolta le provocava, e lo guardò perplessa.

    «La chiave della vostra liberazione? Ma chi siete voi? In cambio della cura io posso anche accettare questa pericolosa messa in gioco… ma per cosa?»

    «Una vita per una vita, mia cara…», sentenziò freddamente Marcus. «Ma tutti i particolari ti verranno rivelati in seguito: Clarissa sarà a tua disposizione per qualsiasi domanda. Ora, quel che conta è se deciderai di accettare il tuo compito e di diventare una di noi.»

    La donna di nome Clarissa porse a Marcus una fiala contenente un liquido denso rosso cremisi, simile a sangue, giusto in tempo per prevenire nuove domande o altri tentennamenti.

    «Questa è la cura che ti renderà libera dal tuo male, ma non si limiterà a fare questo: una volta ingerita rimarrà in circolo nel tuo corpo per sempre, e ti farà diventare, quando sarà il momento, una di noi. Essa guarirà il tuo corpo ogni volta che ce ne sarà bisogno, ed invecchierai molto lentamente.

    Se accetti, dovrai stringere un patto di sangue con me per suggellare il nostro accordo, ma attenta: una volta compiuto, non potrai più tornare indietro. Ora, dimmi qual è la tua scelta.»

    «Accetto», rispose lei, senza esitazione alcuna.

    «Sappi che, se cambierai idea e dovessi comportarti male con noi, ti faremo rimpiangere di non essere morta», le promise in tono pericoloso.

    Lei annuì, decisa come non lo era mai stata.

    Clarissa si avvicinò con movimenti sinuosi a Marcus ed estrasse un pugnale dalla lama lucente e affilata. Marcus alzò la testa verso l’alto, chiudendo gli occhi in un’espressione che si sarebbe detta di immenso piacere carnale, mentre gli veniva praticato un taglio sul palmo della mano destra; Clarissa si voltò poi verso di lei e fece altrettanto con la sua mano.

    La ragazza rimase a osservare per qualche istante il sangue che gocciolava dalla ferita, ma fulmineamente Marcus le strinse la mano con la sua. Mentre il loro sangue si mescolava, Clarissa prese a pronunciare una litania in una lingua arcaica e misteriosa.

    Quando la donna mascherata ebbe finito, l’uomo cessò il contatto fra di loro e porse la fiala alla ragazza, che la afferrò saldamente.

    «Una vita per una vita…», mormorò, mentre contemplava con occhi agognanti l’unica speranza che le era rimasta.

    1

    2 Giugno 2011

    Il suono acuto della campanella riecheggiò nell’aula di Scienze. Finalmente l’ultimo giorno del secondo anno di liceo era terminato.

    Raccolsi i libri e corsi fuori dalla classe; mi soffermai solo un secondo all’armadietto, raccattai le ultime cose e, uscendo da scuola di volata, mi incamminai pensierosa verso casa, percorrendo a piedi le familiari strade di Salem.

    Il Sole spiccava alto e tiepido nel cielo terso, che aveva assunto un meraviglioso colore azzurro intenso, arricchito di tutte le tonalità che gli donava un assolato giugno. Una folata di vento mi accarezzò dolcemente il viso, trasmettendomi una sensazione piacevole.

    L’unico pensiero che mi rimbalzava in testa era la festa di compleanno della mia migliore amica, Savannah Martin, che coincideva con la fine dell’anno scolastico. Conoscendola, avrebbe organizzato di sicuro una supermega festa, alla quale molto probabilmente non avrei partecipato.

    Come sempre, del resto.

    Ma ci avrei provato, anche questa volta; il mio motto era: mai arrendersi davanti ad un ostacolo.

    Abitavo in centro, in Main Street, vicino al museo delle streghe dove mia madre lavorava da più di dieci anni come curatrice, perciò arrivai presto a casa: era una carinissima villetta di mattoni rossi e infissi bianchi, nel tipico stile del Massachusetts. Aprii il cancelletto di legno, dipinto di bianco come la staccionata, che dava sul giardino davanti casa.

    Il piccolo regno delle rose, come mi piaceva chiamarlo.

    Avevamo circa venti o trenta tipi differenti di rose: dalla Summer Lady, rarissima, di tonalità del rosa tenue con sfumature più accese, alla rampicante Lawinia, alta almeno tre metri, che copriva parte del muro est della casa. Quelle rose erano per me come il cioccolato al latte, il mio preferito: se ero triste, stanca o delusa, mi bastava stare un po’ in giardino con loro per sentirmi subito meglio, e di questo dovevo solo ringraziare mio padre che le accudiva sempre con tanto amore.

    Raccolsi una rosa rossa dal petalo vellutato, una Grand Château, con intriganti sfumature nere al centro del bocciolo. Mi riempii le narici del suo profumo inebriante e dolciastro, quasi angelico.

    In quel momento la porta si spalancò. Mio padre uscì, probabilmente per controllare i suoi tesori, e mi accolse sorridendo con un: «Ben tornata!»

    Gli andai incontro di corsa, percorrendo velocemente il tratto che ci separava, e lo investii con un grande abbraccio.

    «Tieni, questa è per te!», esclamai con fare melodrammatico, porgendogli il fiore.

    «La ringrazio, milady», mi rispose, esibendosi in un profondo inchino.

    «Il piacere è tutto mio, messere», sorrisi di rimando.

    «Tesoro, mi sembri estremamente felice, ma anche pensierosa… È successo qualcosa a scuola?», mi chiese. Non mi meravigliò affatto che avesse già capito come mi sentivo.

    Mio padre era sempre stato il mio migliore amico, e la persona che amavo di più al mondo.

    Di fatto, era papà che mi aveva cresciuta. La mamma era sempre molto impegnata con il lavoro, pertanto lui dopo la mia nascita aveva deciso di lavorare da casa come consulente finanziario di una ditta molto importante. Ad ogni modo, non sapevo pressoché nulla del suo lavoro: mi bastava averlo a casa con me il più possibile, il resto era irrilevante.

    «Papà, non stiamocene qui in veranda. Ti spiegherò tutto dentro», risposi, trascinandolo per un braccio mentre lanciavo occhiate guardinghe all’intorno: i vicini erano sempre pronti ad ascoltare i fatti nostri.

    Andammo in soggiorno e feci sedere papà sulla sua poltrona imbottita. Diceva sempre che quella poltrona era un dolce sollievo per la sua mole. In effetti, papi non era quel che si dice un grissino: stando alla mamma, dopo il matrimonio lui aveva messo su molto peso. Il resto dell’arredamento non c’entrava proprio nulla con quella vecchia poltrona di pelle rossa, rovinata dal tempo: la mamma era una fissata dell’ordine e dell’eleganza, perciò tutto, in casa nostra, era molto curato, e i colori spaziavano dal bianco immacolato al beige.

    Mi sedetti sul divano di fronte a lui con un sorriso enorme in volto, com’ero solita fare quando dovevo chiedere un favore.

    «Savannah dà una festa per il suo compleanno e vorrei tanto andarci. Mi concederesti il permesso? Ti prego… una volta soltanto», lo implorai, mettendomi in ginocchio.

    «Una sola volta, non ti chiedo altro», supplicai, ed ebbi l’impressione di aver sgranato comicamente gli occhi come faceva il gatto che vedevo sempre in quel film per bambini, Shrek.

    «Tesoro, sai che io ti direi di sì, ma tua madre non sarebbe molto d’accordo. Non vuole che tu esca da sola, tantomeno la sera.»

    Sentii subito un formicolio agli occhi. Mi rialzai in piedi e mi voltai di scatto, nascondendo il viso alla sua vista perché temevo che, nel giro di pochi secondi, le cascate del Niagara potessero rompere le cateratte; ma quel giorno, inaspettatamente, papà disse: «Ascolta, tua madre questa sera deve vedersi con delle colleghe. Facciamo così: ti accompagnerò io, e sarà un segreto fra me e te, okay?»

    Annuii leggermente con la testa, in un gesto misurato che non aveva niente a che vedere con l’esplosiva ed enorme gioia che stavo provando, mentre con i palmi delle mani asciugavo le prime lacrime che avevano cominciato a scendere.

    «Okay, allora come si fa?», gli chiesi, tirando su con il naso.

    «Tu sali in camera tua e preparati con calma, al resto penserò io.»

    «Oh, grazie! Grazie, papà, grazie!», sorrisi, e corsi in camera a prepararmi per la serata.

    ***

    Il profumo di vaniglia del mio bagnoschiuma aleggiava nell’aria, intenso e fragrante, e io mi immersi nell’acqua calda della vasca da bagno. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare per un po’ da quel dolce tepore rilassante, fino a quando non vidi le increspature sulle dita. Uscii a malincuore dall’acqua, presi un asciugamano morbido e mi asciugai con cura.

    Andai all’armadio e afferrai un vestito nuovo, che non avevo ancora indossato. Era carino, in stile anni Sessanta, molto colorato e anche molto corto; ci abbinai i miei sandali di raso nero e mi misi di fronte allo specchio. Sciolsi i capelli che avevo raccolto in una crocchia per non bagnarli: la chioma dai riflessi castano ramati scese morbida e leggermente ondulata lungo i fianchi. I miei occhi azzurrogrigio brillavano, illuminando il viso a forma di cuore. Sarebbe bastato solo un velo di lucidalabbra per completare il tutto.

    Perfetto!, pensai, una volta tinte di rosa tenue le labbra, ma smisi di specchiarmi quando sentii il rumore di un’auto entrare nel vialetto. Corsi alla finestra: era mia madre, appena tornata da lavoro.

    Entrò sbattendo rumorosamente la porta.

    «Alfred, ci sei?»

    «Sono in soggiorno, Isabel!»

    «Vado di corsa a farmi un bagno e poi esco.  Però…»

    Ecco, al piano di sotto stava per cominciare una discussione. Niente di nuovo, mi dissi.

    Mi avvicinai alle scale per sentire quale fosse il motivo, questa volta.

    «… assicurati che nostra figlia non cerchi di bruciare la casa o fare qualcos’altro di stupido.» Mia madre attaccava ogni discussione con la sua solita mania di onnipotenza.

    La sentii salire. Mi ero già nascosta in camera, lasciando la porta appena socchiusa per continuare ad ascoltare, quando mio padre disse:

    «Come vuoi tu, Isabel, ma non ti preoccupare. Evelyn non farà nulla di stupido. Non è più una ragazzina.»

    «Sì, sì… Adesso dov’è?»

    «A letto. Non si è sentita molto bene oggi.»

    «Non sono nemmeno le sette», osservò, con un velo d’irritazione nella voce. «Bah, che faccia come vuole, io devo uscire», sbuffò, e proseguì sulle scale.

    Rimasi nascosta fino a che non sentii la porta di casa sbattere dietro l’altezzosa furia di mia madre e il rumore dell’auto che si allontanava, e tuttavia volli andare alla finestra per assicurarmi che fosse realmente andata via.

    Io e mamma non andavamo molto d’accordo, anche se le volevo molto bene e lei sicuramente ne voleva a me. Purtroppo i nostri rapporti erano un po’ cambiati da quando, a dodici anni, appiccai accidentalmente il fuoco a una tendina della mia camera. 

    Quel giorno ero terribilmente arrabbiata e frustrata per un problema di matematica che non riuscivo a risolvere e mi aveva fatto meritare un brutto voto all’interrogazione, e all’improvviso feci un gesto di stizza con la mano.

    Ciò che non mi sarei mai aspettata era che dalle mie dita uscissero delle scintille viola, le quali, una volta raggiunta la fine organza rosa tenue delle tende, si tramutarono in fiamme.

    Fu in quell’occasione che compresi che la magia era parte di me.

    E se ne accorse anche mia madre.

    Da quel pomeriggio mi vietò severamente anche solo di avvicinarmi a libri, formulari, manuali di magia o a qualunque altra cosa potesse riguardarla, per proteggermi da me stessa e salvaguardare gli altri da un improprio uso dei miei poteri.

    Fu un periodo difficile: ero ancora una bambina e non avevo compreso esattamente cosa mi fosse accaduto. Ero divisa tra la paura di scoprire una verità che avrebbe potuto sconvolgere la mia intera esistenza e la pressante necessità di far sgorgare il dono di cui sentivo di essere dotata. La svolta arrivò dopo alcuni mesi: la biblioteca di Salem aveva organizzato un ciclo di convegni sulle discipline esoteriche e panteistiche, e uno di essi era tenuto da un’esperta in fenomenologia paranormale. Decisi di parteciparvi di nascosto, e alla fine della conferenza mi avvicinai, timorosa ma risoluta, alla donna, chiedendole un parere su quanto mi era accaduto.

    Ella, fasciata in un elegante quanto inconsueto abito di stoffa a fantasie africane e circondata da un’aura conturbante e misteriosa, mi guardò in modo che mi parve leggermente turbato, poi mi prese in disparte e volle spiegarmi la sua interpretazione.

    Il verdetto di quel giorno fu sconvolgente: ero una strega naturale, e i poteri che facevano parte di me, se coltivati con dedizione, mi avrebbero permesso di dialogare con gli Elementi e di controllarli.

    Mi avvicinai al letto con circospezione, alzai il materasso ed estrassi il libro che avevo rubato al museo delle streghe dove lavorava mamma.  Studiare su quegli antichi testi mi aiutava a espandere le mie conoscenze riguardo a formule e amuleti, pietre ed erbe miracolose.

    «Scendi pure, via libera», mi chiamò mio padre. Riposi con cura il libro nel suo nascondiglio.

    Scesi le scale adagio, come fanno le reginette la sera del ballo, ma abbassai lo sguardo per l’imbarazzo quando vidi mio padre che mi aspettava con la fotocamera in mano.

    «Oh, Evelyn, sei un incanto.  Ah, se tua madre ti vedesse conciata così, le prenderebbe di certo un infarto.»  Rise forte.

    «Dai, papà, non scherzare. Ricordati che anche questo fa parte del patto…»

    «… E deve restare fra me e te. Lo so.»

    Guardai l’orologio da tavolo sopra la mensola di marmo del camino, in soggiorno; ormai erano le sette passate. «Andiamo, non voglio arrivare tardi!», lo incitai.

    Uscimmo da casa di corsa.

    La macchina di papà, una vecchia Rover 618 bianca, era posteggiata davanti casa. Tutta ammaccata, con gli interni in tessuto scuro ormai consunti, una volta sì e una no ci lasciava a piedi, ma mio padre non voleva saperne di rottamarla: era la sua partner da una vita.

    «Si parte!», esclamò entusiasta.

    Lo guardai mentre si sistemava la cintura di sicurezza.

    «Grazie, papà. Senza di te non ce l’avrei mai fatta.»

    Mi fissò a sua volta, sorridendo sotto i suoi baffoni neri. Mi ricordava tanto Super Mario… Il suo costume preferito a Halloween.

    «Il piacere è tutto mio», rispose, sincero.

    Ci volle una quindicina di minuti per arrivare a casa di Savannah. Abitava vicino al Salem Martin Wood, un piccolo boschetto artificiale creato dal padre di Savannah per favorire ulteriormente il turismo in città. Dovevo proprio dargliene atto: era veramente spettacolare ed era molto amato da tutti, specialmente la notte di Ognissanti, quando veniva organizzata dalla madre di Savannah la festa di Halloween e venivano accese delle zucche intagliate tutto attorno al perimetro.

    Ci fermammo all’imboccatura della stradina di sassi che portava dritta alla casa, e prima di scendere dall’auto mi voltai esitante verso mio padre.

    «So che sembrerà strano, ma ho un po’ paura. Chissà cosa diranno i miei amici quando mi vedranno…» Mi feci piccola e misi le mani sudaticce sotto le ginocchia. Un’insolita ansia si fece largo dentro di me.

    «Gli amici… o un amico speciale?»

    «Oh, nessuno in particolare», dissi con poca convinzione. Papà riusciva sempre a cogliere il punto della situazione.

    Mi diede due colpetti d’incoraggiamento sul braccio.

    «Diranno che sei fantastica.»

    «Papà, ti voglio tanto bene!» Lo abbracciai forte e lui ricambiò con uno sguardo gentile. Si sistemò gli occhiali sul naso e mi sorrise con affetto.

    «Anch’io ti voglio tanto bene, lo sai», disse. «Sta’ attenta, mi raccomando.»

    «Non ti preoccupare. Cenerentola sarà a casa per mezzanotte», ribattei, cercando di tranquillizzarlo.

    Uscii sbattendo forte la porta e restai a guardarlo mentre andava via.

    2

    Restai a lungo senza poter staccare gli occhi dalla strada. Una strana inquietudine si era impossessata di me e non riuscivo a scacciarla.

    Mi concentrai sul vento, che era sempre stato un grande amico. Fischiava fra le fronde degli alberi parole che in quel momento non riuscii a capire. Mi chiesi se fosse un avvertimento, ma poi scrollai la testa: no, probabilmente era solo la mia immaginazione. Il Sole non era ancora calato e l’umidità era quasi palpabile: forse era quello il motivo per il quale mi sentivo così strana.

    Mi voltai, cercando di liberarmi da quella spiacevole sensazione, da quell’ansia, e proseguii lungo la stradina di ciottoli; potevo sentire i sassolini scricchiolare sotto i miei piedi e la musica rimbombare in lontananza.

    Mi soffermai solo un attimo a guardare il viale alberato che Savannah aveva fatto decorare con tante piccole lanterne colorate. L’effetto era davvero carino: con il buio sarebbero assomigliate a tante piccole lucciole.

    Arrivai davanti alla casa. Anche se Savannah era la mia migliore amica, erano anni che non andavo a casa sua, e dopo tanto tempo mi parve enorme e bellissima: bianca, elegante, con gli infissi verdi e un giardino immenso pieno di fiori e piante ad adornarla.

    La musica era molto alta e una marea di gente si stava scatenando al suo ritmo in giardino e in veranda. Cercai di trovare la mia amica in mezzo a quella calca, e dopo pochi secondi la vidi che mi veniva incontro. Aveva raccolto i lunghi capelli color carota in un elegante chignon e indossava il vestitino rosso a balze che avevamo acquistato assieme qualche giorno prima da Lauren Boutique, al centro commerciale.

    Savannah e io eravamo amiche sin dai tempi dell’asilo e andavamo molto d’accordo, ma eravamo molto diverse: io ero sempre stata quella timida e riservata; lei, invece, a undici anni aveva già il fidanzatino.

    «Ehi, ce l’hai fatta!», esclamò entusiasta. «Sei riuscita a venire!»

     Mi guardai intorno nervosa, ma allo stesso tempo eccitata e felice. Ancora non potevo credere di essere davvero lì.

    Savannah stava ancora aspettando che le rivolgessi la parola. «Ehi Bella Addormentata! Mi vuoi dire come li hai convinti?» Ticchettava impaziente col piede al suolo.

    «Non lo scoprirai mai. Dovrai passare sul mio cadavere», scherzai.

    «Scherza, scherza…» Si guardò in giro con aria sospettosa, «Un momento… Tua madre non è mica qui, vero? Per tuo papà, passi, mi sta simpatico. Tua mamma proprio no», disse, grattandosi freneticamente il braccio, come faceva sempre quando si agitava.

    Mia madre non sopportava nessuno e diffidava sempre di tutti, specialmente dei miei amici e di chiunque mi si avvicinasse, tanto che era diventata una cosa reciproca. Nessuno sopportava il suo fare perennemente inquisitorio e iperprotettivo nei miei confronti, perciò era comprensibile che Savannah mi avesse posto quella domanda.

    «Tranquilla, è tutto okay. Non ci sono», la tranquillizzai. «Comunque mia madre non è poi così male», dissi in sua difesa.

    Mi lanciò un’occhiata sbalordita. «Se lo dici tu.»

    La abbracciai forte. «Ma ora basta parlare dei miei vecchi, passiamo alle cose importanti: buon compleanno, amica mia! Tieni, questo è per te», le dissi porgendole il regalino.

    «Ah, sono troppo curiosa, voglio aprirlo subito.» I suoi occhi erano diventati due piccole fessure brillanti mentre liberava dal fiocco il pacchettino rosa con estrema cura. Quando scartava i regali, Savannah sembrava sempre una bambina.

    «Grazie, fantastico! È bellissimo! È uguale al tuo? Lo stesso bracciale?»

    «Sì, sono uguali. Vedi, ci sono anche le stesse gemme di ametista.» Gli mostrai il polso, dove portavo il mio, facendo dondolare le pietre.

    «Speriamo porti fortuna.»

    «Allora, per sempre amiche?» Le porsi il mignolo come facevamo di solito per suggellare la nostra speciale amicizia.

    Lei fece lo stesso: «Sì, per sempre», rispose. «Ma ora vieni con me.» Mi afferrò per la mano e cominciò a cercare qualcuno, zigzagando a destra e a sinistra tra i ragazzi che ballavano scatenati.

    «Eccolo!», esclamò a un certo punto.

    Seguii con lo sguardo la direzione che m’indicava col dito, senza però capire cosa volesse farmi notare.

    «Si può sapere cosa ti è preso?», le chiesi.

    Un sorriso malizioso le spuntò sulle labbra.

    «Mi è preso che c’è Mark Stone alla mia festa. Scusa, ma non mi avevi detto che ti piaceva?», replicò, guardandomi con aria divertita mentre il mio volto andava in fiamme. «L’ho invitato proprio per questo», mi annunciò, facendomi la linguaccia.

    «Dai, fatti avanti! Quando ti ricapita un’opportunità così?», mi spronò.

    Sforzandomi di farmi passare l’imbarazzo, mi scostai un pochino da lei per vederlo bene. Mark se ne stava con i suoi amici a bere birra. Alcuni se la spruzzavano addosso ridendo come pazzi, mentre altri si stavano solo godendo la musica e la buona compagnia.

    Mark mi piaceva sin dal primo anno, da quando si era trasferito dal Connecticut, ma quella sera mi sembrava ancora più carino del solito: indossava una tshirt bianca, che metteva in risalto l’abbronzatura dorata e i muscoli appena accennati, e un paio di pantaloni corti color cachi che gli stavano divinamente. I capelli biondi e gli occhi azzurri mi ricordavano tanto uno di quei principi delle fiabe.

    Presi coraggio e pian piano mi avvicinai a lui.

    «Ciao Mark», lo salutai timidamente, dopo essermi schiarita leggermente la voce.

    «Ciao… Evelyn?! Scusami, ma non ti avevo riconosciuta. Non ti si vede mai in giro… Beh, tranne che a scuola, o qualche volta da tua madre, al museo», si corresse. Mi squadrò dalla testa ai piedi. «Accidenti! Sei davvero carina stasera.»

    «Gla… Graazie.»

    Oh, esordio perfetto, pensai. Ero già riuscita a incespicare con le parole.

    «Bel party, vero?», chiesi. Avevo cercato di rompere il ghiaccio con una frase intelligente ma non avevo trovato niente di meglio da dire se non un’osservazione ovvia, mentre continuavo a tormentarmi nervosamente le mani. Lui se ne accorse e posò timidamente la sua mano tra le mie.

    «Non c’è male, ma credo che dentro sia anche meglio.  Entri con me?»

    Le palpitazioni erano sempre più forti.

    «Credo che aspetterò Savannah», mormorai a testa bassa, mentre la mia mente urlava: "Quanto sono idiota!"

    «Uh… Beh, va bene», mi disse tra il deluso e il perplesso. «Allora ci si vede dentro», mi sussurrò poi all’orecchio in modo suadente.

    «Ookay…», balbettai.

    Non riuscii a dire altro. Il mio cuore martellava così forte da affievolire perfino la musica, e la mia scarsa lucidità residua mi rinfacciava il fatto che avevo appena perso l’opportunità di entrare con lui e proseguire la serata in sua compagnia.

    ***

    Finalmente arrivò il crepuscolo. Era, da sempre, il momento della giornata che di gran lunga preferivo: per le tonalità del cielo, che andavano dall’oro al purpureo, per il mistero che trasmetteva e per il sincopato frinire delle cicale, specialmente in estate. Molti ragazzi si spostarono all’interno, forse per ballare o per abbuffarsi al tavolo degli stuzzichini; io preferii starmene ancora un po’ all’aria aperta.

    Mi accoccolai sul dondolo bianco di ferro battuto che si trovava sotto il gazebo del giardino. La struttura di legno era sicuramente stata ridipinta da poco: si sentiva ancora l’odore penetrante della vernice fresca. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dolcemente dal vento, perdendomi per un po’ nei miei pensieri.

    «Evie!»

    Aprii gli occhi, e vidi Savannah che mi chiamava dal terrazzino di camera sua. «Evelyn! Cosa fai lì tutta sola?», domandò.

    «Niente», risposi. «Pensavo.»

    «Lo sospettavo. Immagino che non ti sia nemmeno accorta che sta per arrivare un bel temporale.» Mi fece segno di guardare il cielo. «Su, entra!»

    In effetti, a guardar bene, la sera sembrava essere diventata una pesante coltre di fumo: non c’erano più stelle ad illuminare il firmamento e da lontano s’intravvedevano già i primi lampi, seguiti dal rombo basso e prolungato dei tuoni che scatenavano la loro forza.

    «Arrivo subito», dissi, mentre mi alzavo riluttante dal dondolo: in realtà, non mi sarebbe per niente dispiaciuto stare fuori durante un temporale, magari avvolta in una coperta, a conversare con le nubi cariche di pioggia e insegnamenti. Sperando, naturalmente, che un fulmine non mi colpisse.

    Guardai l’ora: ormai le dieci erano passate da un po’. Ancora poco e sarei tornata a casa, sotto l’accurata sorveglianza di mia madre.

    Entrai dalla cucina, dove alcuni ragazzi, probabilmente dell’ultimo anno, erano seduti accanto al frigo con delle birre in mano. Osservai che alcuni erano già visibilmente ubriachi, e sorrisi al pensiero che se fosse arrivata la polizia ci avrebbe portato dentro tutti, dal momento che probabilmente nessuno di noi aveva ventuno anni.

    Mi avvicinai alle scale, dove Savannah e Sally Wood stavano chiacchierando.

    Sally era la ragazza più popolare della scuola. Carina, bionda e alta, non era solo capitano delle cheerleader e un’ottima allieva, ma apparteneva anche a una delle famiglie più abbienti della città.

    Lei e io eravamo sempre state grandi rivali, sia nella vita, sia nello sport. Ricordavo ancora il periodo durante il quale entrambe praticavamo pattinaggio artistico su ghiaccio a livello cittadino. Eravamo sempre l’una contro l’altra, finché non decisi di abbandonare: ogni volta che mi arrabbiavo, mi succedeva sempre di combinare involontariamente qualcosa di poco piacevole, come danneggiare il ghiaccio con i miei poteri mentre lei pattinava… rovinando così i suoi doppi toeloop e scatenando ogni volta un’indagine popolare, basata su ipotesi inconcludenti, su cosa avesse potuto butterare così la superficie del palaghiaccio.

    Con la coda dell’occhio vidi che Sally si era accorta di me.

    «Bene, Savannah, ora me ne vado. Domani ci sarà l’allenamento. Sai, non vorrei esagerare: ho una competizione da vincere… io», precisò, voltandosi verso di me.

    «Ah, Evelyn, ho visto che chiacchieravi con il mio ragazzo, poco fa», sentenziò prima di allontanarsi, guardandomi un’ultima volta con aria di superiorità.

    Restai imbambolata come una stupida e non replicai nulla, nonostante nei miei pensieri si affollassero decine di risposte sgarbate che avrebbero potuto fare al caso.

    «Lasciala stare Evie, lo sai che è una cretina con la puzza sotto il naso. Voleva solo metterti in difficoltà», mi consolò Savannah.

    «Lo so… quando fa così è insopportabile. Ma come mai parlavi con lei? Non siete mai state grandi amiche!»

    Mi sedetti su uno scalino, pensierosa.

    «Infatti! Voleva solo spettegolare di tutti, come al solito, prima di salutarmi e avvisarmi che stava per andare a casa. Sono costretta ad ascoltarla perché papà è amico dei suoi.»

    Guardai la mia amica. «Tu lo sapevi che Mark stava con lei?», le chiesi, senza nascondere la mia irritazione nello scoprire ancora una volta che tutto quello che avrei voluto io apparteneva a lei.

    «No, mi spiace», disse sconsolata. «Ma aspetta un momento. So cosa fare per tirarti su il morale.»

    La guardai titubante mentre raggiungeva il tavolo dei regali e frugava tra i pacchi.

    «Eccola!»

    Se ne uscì con la sua piccola fotocamera rosa e si sedette vicino a me.

    «Ora tu ed io, mia cara amica, ci facciamo delle foto imbarazzanti.»

    «Magnifico! Ci sto!», esclamai, accennando un sorriso.

    Ci scattavamo sempre foto assurde, che ci ritraevano con smorfie strane e ci facevano ridere come pazze quando, una volta stampate, le incollavamo all’interno dei nostri armadietti a scuola.

    Eravamo tutte indaffarate a fare linguacce quando, a un certo punto, sentimmo il rumore di un motore avvicinarsi. Savannah si alzò in piedi di scatto. «Oh, sono arrivati i miei genitori!»

    «Oddio, come facciamo a nascondere tutto quest’alcool?» Mi alzai in piedi in preda al panico, indicando le bottiglie vuote.

    In tutta risposta, lei mi guardò ridendo.

    «Cosa c’è da ridere?», chiesi, in piena crisi bigotta.

    «Il mio commento non era di certo riferito a quello», sorrise serenamente, «i miei sono di larghe vedute, lo sanno che non bevo, come immaginano che qualche birra sia stata imbucata di nascosto.»

    «E allora… A cosa ti stavi riferendo?»

    «Sono arrivati con la torta, deve essere bellissima!»

    Sembrava proprio felice. «Seguitemi tutti», urlò, conducendo tutti gli invitati nel salone principale.

    L’ampia sala era piena di palloncini rosa e argento appesi qua e là; al centro troneggiava un’enorme tavola con stuzzichini e due coppe di punch definito "analcolico".

    I suoi genitori fecero capolino da dietro la porta.

    «Ma… siete bagnati fradici?», chiese con sgomento e delusione Savannah alla vista dei genitori zuppi di pioggia.

    «Noi sì, ma non ti preoccupare, la tua torta è sana e salva.»

    Il sorriso rispuntò di nuovo sul bel volto di Savannah.

    In un secondo le luci si spensero, e solo qualche piccola candela rimase accesa. In quell’istante suo padre entrò con la torta tra le mani.

    «Vieni tesoro, soffia ed esprimi un desiderio.»

    Al soffio di Savannah delle piccole spirali di fumo si alzarono dalla torta, mentre l’odore acre della cera impregnava l’aria. Dopo un fragoroso applauso furono riaccese le luci e tutti potemmo vedere quanto golosa e bella fosse la torta.

    Era davvero enorme, decorata con spruzzi di crema chantilly e granella di cioccolato rosa tutto attorno.

    «Tesoro, ancora tantissimi auguri», cinguettarono i suoi genitori avvicinandosi.

    «Grazie mamma, grazie papà! E, a proposito… la BMW è stupenda!» Con tutta la felicità che aveva in corpo, strinse forte a sé i suoi genitori.

    «Oh tesoro, sapevo che ti sarebbe piaciuta. Quando ho visto quella M1 bianca, con gli interni rossi in pelle, ho subito pensato che fosse l’ideale per una ragazza espansiva e piena di vita come te», intervenne orgoglioso suo padre.

    Certo che è proprio fortunata ad avere una famiglia così unita e affettuosa, pensai. Mia madre, al posto loro, mi avrebbe regalato delle grate di ferro da mettere alle finestre, altro che BMW.

    Sfuggii a quel pensiero e mi concentrai sulla mia amica che stava per aprire un altro regalo.

    «Tesoro, questo lo manda la nonna», le illustrò sua madre.

    Un grande pacco con un enorme fiocco rosa e dei buchi sui lati le fu consegnato direttamente nelle mani. Vidi la meraviglia sul suo viso quando aprì la scatola.

    «Oh, mio Dio! È un cagnolino!», Savannah esclamò estasiata.

    Il cucciolo di barboncino sembrava un piccolo batuffolo candido, con il pelo corto e riccio. Dal fondo della sala si alzarono delle voci.

    «Allora, come lo chiamerai?»

    «Non so… mi ricorda tanto la neve. Che ne pensate di… Fiocco? Sì! Sembra proprio un piccolo fiocco di neve.» Baciò il musetto del cagnolino, che a sua volta le leccò il mento.

    Solo

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