il camino delle fate
By Magi
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Book preview
il camino delle fate - Magi
EDIZIONI
MAGI
Il camino delle fate
GDS EDIZIONI
Via G. Matteotti, 23
20069 Vaprio d’Adda (MI)
tel 02 9094203
Tutti i diritti sono riservati.
Presentazione
CAMINI DELLE FATE
venivano chiamate le spaccature calcaree nei monti dell’Anatolia. In essi si rifugiarono famiglie e comunità religiose per sfuggire alle invasioni arabe e turche (secoli XII XIII).
Questa storia si svolge in una comunità religiosa di base cristiana sorta in medio oriente nel XII secolo.
Per motivi politici e religiosi fu perseguitata dall’Imperatore bizantino, prima, e dal Sultano ottomano, poi, e costretta a trasferirsi in Europa, fra l’Italia e l’Austria dove restò, occultata, per secoli, fino ai giorni nostri.
La realtà e la fantasia si mescolano: i luoghi e i nascondigli montani sono reali mentre l’esistenza della comunità è solo fantasia. Gli adepti, tutti provenienti dall’oriente, sono costretti, dalle regole di sicurezza del passato, a vivere sottoterra per la maggior parte del loro tempo sviluppando, in alcuni casi, comportamenti violenti o ambigui indotti dal buio e dalla solitudine nonostante la saltuaria compagnia di prigioniere che si succedono nel tempo e che mai usciranno vive da quell’esperienza.
L’inizio della fine della comunità avviene quando colui che deve rapire la nuova donna decide di sceglierla nelle zone limitrofe al loro covo invece di recarsi, come al solito, nella lontana terra d’origine.
Personaggi
Gazàr il Massimo
della comunità
Kemàl il suo vice
Yaqùb fratello medico
Gem il più anziano dei fratelli
Ahmèt l’inviato in missione
Shahinshan fratello infermiere
Selim il più giovane dei fratelli
Orhàn e Qurqùd fratelli operai
Muràt fratello molto vicino al massimo
Ibrahìm anziano fratello
Beyazìt fratello cuoco
Dalia prigioniera
Günter sacerdote cattolico
Beate ragazza di montagna
Adrian fratello di Beate
Berta loro madre
Stephan Klein capitano di polizia
Dagmar Huber agente investigativa
Osman vecchio anatolico
Manfred, Werner, Eric, Richard (agenti del reparto cinofilo)
Fatiye Cahan ragazza molto vivace
Klaus Kaspar del recupero speleologico
1.
Il giovane uomo che si appoggiava mollemente al muretto che recingeva il cortile del Palazzo Comunale, era diventato, nel volgere di poche ore, l’oggetto della curiosità di tutto il paese. le prime persone uscite di casa per iniziare il lavoro lo avevano trovato lì, all’alba: quando era arrivato?
Certamente non c’era la sera precedente altrimenti qualcuno lo avrebbe visto! Dove alloggiava? Nessuno ne rivendicava l’ospitalità! Chi era? Forse un turista, nella migliore delle ipotesi e a giudicare dal grosso zaino nero poggiato sul muretto, accanto a lui. Certamente si trattava di uno straniero, di un uomo del sud dato il suo aspetto fisico: capelli neri e folti tagliati molto corti, sopracciglia ben evidenziate e grandi occhi scuri ombreggiati da lunghe ciglia.
Anche il suo abbigliamento era nero, dai jeans attillati alle scarpe da traking, dalla dolce vita di lanetta al giubbotto imbottito che lo riparava dal vento.
Lo si notava molto in quel paese montano, nordico e isolato dove tutti avevano carnagione rosea, occhi chiari e capelli biondo rame.
«Buongiorno signore, è qui in vacanza? Dove ha preso alloggio?» la guardia municipale gli era arrivata alle spalle, dopo aver percorso il vialetto che, dall’edificio, arrivava sino al cancello che immetteva nel cortile.
«Ah…salve…sono qui di passaggio» il giovane parlava la loro lingua quasi perfettamente «devo raggiungere un gruppo di amici all’altro lato del versante, mi sono fermato per riposare un poco»
Il vigile si lisciava i folti baffi grigi.
«Quindi tra non molto lascerete il nostro paesino?»
«Purtroppo sì…e me ne dispiace perché è davvero un posto molto invitante e caratteristico»
Il giovane fece vagare lo sguardo sulle villette di pietra rossiccia dalle persiane marroni ben chiuse, dai tetti spioventi fatti di tegole rosse, osservò le fioriere alle finestre, colme di piante fiorite e sorrise.
Quel sorriso cordiale, amichevole, rassicurò il vigile che, a sua volta, sorrise confermando che il paesino era piccolo ma ben tenuto, che gli abitanti si prodigavano per renderlo piacevole e che c’era tanta amicizia fra tutti i paesani.
Mentre discorrevano cominciarono ad udirsi, in lontananza, una musica dolce e un canto di voci gentili. Il giovane tacque e fece tacere, con un cenno, anche l’uomo, era l’Ave Maria di Shubert.
Il vigile spiegò «Viene dalla chiesa, sono le prove del coro che il parroco dirige»
«La chiesa non è nel villaggio?»
«No, bisogna salire per un paio di km, è dietro quelle rocce che si vedono là, in alto»
«Allora voglio andarci, mi interessa! Sa, non sono solo un turista, sono anche un sacerdote»
«Davvero?!» ormai la fiducia del vigile era conquistata del tutto.
«Padre sono contentissimo di aver fatto la sua conoscenza! Mi chiamo Vanni, vuole che l’accompagni?»
«No Vanni, non si preoccupi, sono un buon camminatore. Vado a conoscere il mio collega sacerdote prima di riprendere il viaggio»
Il giovane si gettò lo zaino sulle spalle e s’incamminò su per il sentiero della montagna mentre Vanni raccontava ai compaesani chi era quello straniero.
2.
Era quasi autunno il che, per la montagna, è già l’inizio della stagione fredda. A mano a mano che si saliva verso la vetta l’aria diventava sempre più pungente ma il turista sacerdote era abituato al freddo e non vi faceva caso.
La chiesa era snella, svettante, incastonata fra le rocce che la riparavano dal vento, fatta di pietra, grigia e bianca, semplice, come tutte le chiese di montagna.
Il giovane seguiva il sentiero e sentiva il canto sempre più vicino, arrivò alle grandi rocce che si vedevano dal villaggio, le aggirò e si trovò di fronte al portale aperto, entrò senza esitare: la navata era spaziosa ma non grande, di forma allungata; le panche di legno chiaro erano allineate su due file; ai lati c’erano statue e quadri raffiguranti alcuni santi. Lo straniero non vi badò, guardò verso l’altare dietro al quale, appoggiato ad una grande vetrata multicolore, c’era un crocifisso di legno chiaro dove era inchiodata una statua del Cristo, molto ben fatta.
Il nuovo arrivato rimase immobile a fissarla, serio. in quel momento si era come estraniato e non sentiva quasi più le voci che cantavano dolcemente.
Fu questione di attimi, poi riabbassò lo sguardo ai piedi dell’altare dove vide un gruppo corale femminile diretto da un giovane parroco che suonava un piccolo organo senza canne.
Quando si accorsero di lui smisero di provare, il parroco si alzò, era come gli altri: capelli biondo rame, occhi azzurri e pelle chiara.
Indossava un paio di blu jeans e un maglione leggero color bruciato a disegni beige, si avvicinò al nuovo venuto, fermo al centro della navata.
«Salve» disse sorridendo. «Sono Günter, il parroco del villaggio e queste sono le meravigliose fanciulle del meraviglioso coro della nostra chiesa…e tu chi sei?»
«Sono Ahmet, sacerdote anch’io» e sorrise salutando con la mano le ragazze che lo guardavano interessate.
«Ahmet, siedi e assisti alle prove del coro, poi pranzerai con me e parleremo di noi.»
3.
Gazàr misurava a grandi passi la sua cella dalle pareti ricoperte da pannelli di legno scuro. Gli occhi grigi, come i capelli e la lunga barba, si volgevano spesso, come in una muta preghiera, alla nuda croce d’argento brunito, lunga una cinquantina di centimetri, affissa sulla parete alle spalle del letto.
Gazàr era il capo di una comunità religiosa, era il Massimo
e, in quel momento era preoccupato per il giovane fratello che si trovava lontano.
Gli aveva affidato una delicata missione dall’esito della quale dipendeva la serenità della comunità.
Dal braciere in ferro battuto emanava un piacevole tepore che neutralizzava lo spiffero freddo proveniente dalla presa d’aria. L’uomo si accinse a liberarsi del nero saio: tirò indietro, sulle spalle, il cappuccio che gli copriva il viso fino alla bocca, slacciò il cordone che lo stringeva alla vita e si sfilò il tutto dalla testa; sotto indossava un pullover a giro collo e dei pantaloni, sempre neri. Si avvicinò al letto, scostò il nero copriletto di lana mettendo in mostra delle morbide lenzuola di seta rossa, poi s’inginocchiò rivolto alla croce e pregò per il buon esito della missione. Infine si svestì completamente e si infilò fra le lenzuola, provò un brivido di piacere al contatto del corpo nudo col fresco della seta e mormorò «Dio ci ha dato questa breve vita terrena non per mortificare la carne ma per godere tutti i piaceri che ci dà, avremo tanto tempo nell’al di là per la spiritualità pura!»
4.
Shubert, Gouneaud, Bach, Verdi… Un repertorio stupendo e delle voci dolcissime! Ahmèt era estasiato e si congratulò con Günter.
Il gruppo canoro si stava sciogliendo, le ragazze si accomiatavano e si allontanavano a piccoli gruppi.
«Ma quante sono?»
«Una trentina… ma non tutte del nostro paese, intendiamoci! Di qui ce ne sono solo otto, le altre vengono dai paesi delle vicinanze, c’è la corriera che fa il giro della zona»
I due sacerdoti uscirono dalla chiesetta e respirarono a pieni polmoni quell’aria frizzante che si stava intiepidendo al calore del sole di mezzogiorno, osservando il gruppo vociante delle ragazze a metà strada fra la chiesa e il paese dove, la maggior parte di loro, avrebbe preso la corriera.
Günter condusse il nuovo amico a passeggio, gli fece vedere, per il momento solo dall’esterno, la propria villetta contigua al retro della chiesa, anche essa di mattoni rossi come le villette del paese.
Dal comignolo usciva un filo di fumo. Il parroco emise un fischio prolungato e un viso rubicondo si affacciò.
«Berta, oggi ho un ospite!»
La donna fece un cenno d’assenso e si ritirò.
«È la signora Berta che sta cucinando per noi, dopo te la presenterò»
Oltre le rocce c’era un boschetto di abeti, lo attraversarono e l’odore della resina era forte e piacevole, i rami tanto folti che i raggi del sole a stento riuscivano a trovare qualche varco qua e là attirando, nella loro scia, vari insetti ronzanti.
Subito fuori dall’abetaia c’era una piccola valle ricoperta da lapidi bianche intervallate da arbusti di rododendri, era il cimitero del paese.
Lo costeggiarono, s’infilarono in una gola e sbucarono vicino ad un delizioso laghetto montano dalle acque verdi per la vegetazione che si era sviluppata nel fondo, intorno alle sponde c’erano ancora arbusti di rododendri, pini silvestri e larici.
«È un luogo stupendo» mormorò Ahmèt «Dove puoi sentirti molto più parte integrante di questa terrena bellezza, della carnalità e, insieme, della spiritualità della divina Natura»
«Sapevo che ne saresti rimasto entusiasta… ma ora torniamo perché la signora Berta sarà in ansia, l’ora del pranzo è già scoccata e lei non ammette deroghe»
Infatti la trovarono sull’uscio di casa, si asciugava le mani col grazioso grembiulino giallo che portava legato in vita.
«Su ragazzi, scusate se vi chiamo così, ma potreste essere benissimo miei figli, è tutto pronto e aspetta solo di essere divorato da voi»
Berta era alta e ben piantata senza essere grassa, aveva cinquantun anni e qualche filo bianco cominciava a intravedersi nella grossa treccia bionda che portava arrotolata intorno alla testa. Volse il suo sguardo azzurro verso il parroco e gli disse:
«Padre Günter, quando avrete finito di pranzare, metti tutte le stoviglie nella saponata che ho preparato nel catino, domattina me la vedo io. La cena è nel frigo. Ciao, a domani. Buona giornata padre Ahmèt»
«Fratello Ahmèt» corresse l’interessato.
5.
Erano gli ultimi giorni della sua vita, Dalia lo sentiva… lo sapeva… la sua prigionia stava per concludersi con la condanna a morte, come era già successo alle prigioniere che l’avevano preceduta. Le sembrava ancora di sentir gridare quella di cui aveva preso il posto. Chiedeva pietà ma inutilmente.
Come l’avevano uccisa? Dalia non lo sapeva ma tra non molto l’avrebbe scoperto su se stessa. Da quando l’avevano rinchiusa in quella cella erano passati ben undici anni, aveva segnato i giorni che passavano sui margini delle pagine dei libri che aveva a disposizione.
La lettura era l’unico svago delle prigioniere, tra una visita e l’altra.
Dalia si era formata una cultura e si era creato un mondo suo fantastico che l’aveva aiutata ad andare avanti negli anni. Poi si era innamorata di uno di loro e questo le aveva cambiato la vita e, forse, le sarebbe servito ad evitare la morte.
6.
«Noi proveniamo dall’Anatolia orientale, una delle terre più antiche del mondo e questa antichità sembra espressa dallo stesso paesaggio che appare consunto, pallido, esangue come se l’Uomo vi avesse esaurito tutte le risorse, tutto ciò che la terra e l’aria potevano dare»
Ahmèt raccontava a Günter.
Avevano mangiato un saporitissimo risotto agli asparagi, agnello al forno cotto nel proprio grasso con patate e crauti ed ora stavano terminando il loro boccale di birra.
Si sentivano amici ed erano tranquilli, seduti al tavolo della cucina, vicino al camino.
Il fuoco metteva allegria e li rendeva inclini alle confidenze
«Io sono della zona ma non di questo paese. Sono un prete cattolico e questo l’avrai certo capito osservando la mia chiesa e i suoi arredi. E tu? Qual è il tuo credo?»
«Appartengo a una comunità religiosa cristiana, per noi Dio è l’energia vitale presente in tutti gli aspetti della natura. Cristo è figlio di Dio, cioè della Natura, come lo siamo noi tutti ma Lui è una persona speciale che si è sacrificata per l’affermazione della solidarietà fra tutte le specie viventi.
Intendiamoci bene, Günter, ho detto fra tutte le specie e non solo fra gli uomini. Tutte le religioni, in un modo o nell’altro, mortificano la Natura e il piacere che ci viene da essa, soprattutto la tua, Günter. Il nostro Credo è la cristianità della croce come simbolo, senza false rappresentazioni e noi siamo e ci sentiamo fratelli e siamo fermamente convinti che, finché viviamo sulla Terra, dobbiamo godere tutti i piaceri della nostra carnalità. Dopo la morte ci dedicheremo alla pura spiritualità».
7.
Qualcuno aveva bussato alla sua porta, Gazàr, contrariato, si alzò dal letto, dette un’occhiata al saio pensando di infilarselo, poi, con una scrollata di spalle, aprì la porta così, nudo come si trovava.
Muràt quasi si precipitò all’interno della cella, il cappuccio del saio era gettato all’indietro e mostrava i suoi lisci e lunghi capelli neri e il bel viso in cui gli occhi fiammeggiavano per l’ira. «Perché hai affidato la missione ad Ahmèt e non a me? A me che ti sono stato sempre e assolutamente fedele, a me che ho accettato tutto da te, a me…»
«Basta!» Tuonò Gazàr chiudendo la porta.
«Ho accolto un giusto consiglio di Kemàl. Ma tu piuttosto, come hai osato toglierti il cappuccio? Non sei nella tua cella e dovevo dartene io il permesso!»
«Perché non mi hai più chiamato nella tua cella? Ormai è un mese Gazàr…»
Muràt improvvisamente aveva abbracciato il corpo