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Nelson
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Ebook352 pages4 hours

Nelson

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Fantascienza - romanzo (249 pagine) - Dall’arrivo della Gente del Domani il mondo è cambiato. E per Nelson sta per cambiare ancora, quando accoglie a bordo una donna che porta con sé terribili segreti.


Corsari. O forse qualcosa di meno, perché l'Inghilterra ormai si cura ben poco di loro, di Claude Nelson e della sua sgangherata flotta che depreda le ricche navi spagnole e francesi nei mari americani. In madre patria, l'interesse per il Nuovo Mondo è scemato: ora le novità sono altre, sono quelle che portano i misteriosi viaggiatori che arrivano da altre epoche, dal futuro. Che portano cannocchiali che vedono più lontano, pipe che non si frantumano, radio per comunicare istantaneamente a molte leghe di distanza.

Ma forse, anche per i viaggiatori le cose non vanno troppo bene. Forse c'è un motivo per cui ne arrivano tanti.


Editor e coach di scrittura, Giulia Abbate è cofondatrice di Studio83, agenzia di servizi editoriali specializzata nel sostegno agli autori esordienti. 

Ha esordito nel 2011 con Lezioni sul domani, antologia di racconti di fantascienza. Ha pubblicato recensioni su portali di genere (Continuum, MilanoNera, ThrillerCafé) e racconti apparsi in varie antologie (Fuga da mondi incantati, Crisis, Canti d'abisso, Terra promessa, Occhi di Tenebra, La cattiva strada, Le Variazioni Gernsback e altre).

Nata a Roma nel 1983, dal 2004 vive a Milano. Ha due figlie.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateFeb 23, 2016
ISBN9788865305966
Nelson

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    Nelson - Giulia Abbate

    9788825401684

    In quel selvaggio abisso,

    grembo della Natura e, forse, tomba,

    che non è mare o sponda, aria né fuoco,

    ma lor cause pregnanti in sé commiste

    confusamente, in una lotta eterna,

    se il Fattore Possente non costringe

    queste oscure materie a farsi mondi,

    nell'abisso selvaggio, cauto, Satana

    sostava all'orlo dell'Inferno, e vide,

    e ponderò il viaggio…

    John Milton, Il paradiso perduto

    Parte prima

    Il cuore della conchiglia di mare

    I.

    Lì nell’abisso, il mare era ancora blu. Il vento increspava la superficie dell’acqua e gradazioni sempre nuove di colore si infrangevano in creste di schiuma argentea sul bagnasciuga della nave.

    Claude Nelson osservava quei colori netti e pensava alla definizione di blu oltremare: era il colore profondo, ancora puro, che apparteneva a un mondo di oceani lontani dalla terra brulicante di compromessi, e dai mari chiusi delle acque commerciali, sporche, macchiate di pece e di rifiuti liquefatti.

    Sotto i miei piedi ci sono ancora conchiglie.

    Sotto i suoi piedi, sotto la massa oceanica, esistevano a milioni, gusci a spirale che proteggevano le vite ripiegate al loro interno, resistevano all’incommensurabile pressione dell’oltremare.

    Resistono ancora. Non verranno pescate tutte.

    Qualcuno chiamò: – Mio Commodoro.

    Nelson non si voltò. – Aha? – rispose.

    – Penso che la cena sia pronta. Vogliamo andare?

    – Certo.

    Era il capitano di vascello, che gli fece strada lungo il ponte. Scesero sottocoperta.

    Peccato. Li odio, questi cieli fasulli.

    Entrarono e presero posto al tavolo, in sala ufficiali. In quell’ambiente ristretto, tra i vapori provenienti dalla cambusa, Nelson si sentì circondato ancora dalla vastità silenziosa dell’oceano tanto scrutato, permeata di indifferenza.

    – Mare calmo, oggi – disse il nostromo, invitato al loro tavolo per il pranzo domenicale.

    – Niente navi a spasso – aggiunse il capitano in seconda.

    Non tutte le navi avevano un capitano in seconda. L’esistenza di quella flotta contravveniva ai trattati internazionali, e nonostante fosse in parte stipendiata dalla Corona era pur sempre fuorilegge: l’ammiraglio in seconda Robert Scott amava definirla corsara, con un gusto proprio dei loro tempi, che però erano già drammaticamente superati. Comunque, gli ufficiali e i gradi non erano distribuiti uniformemente e prima che Nelson divenisse Commodoro di quell’armata di bucanieri, in molte navi mancava addirittura il nostromo. Per un uomo come lui, formato alla barbara disciplina della Marina Reale nel Mediterraneo, la cosa era un sacrilegio.

    – Cambieremo questo assurdo stato di cose – aveva decretato – Gli uomini devono potersi riferire a qualcuno. Un capitano non può occuparsi anche di loro, non come un nostromo. Dovunque c’è bisogno di un intermediario. – E non appena pronunciate, quelle parole gli avevano provocato suo malgrado del risentimento verso la realtà dei fatti.

    – Niente navi – ripeté il nostromo tra un boccone e l’altro di minestra.

    – Bella sfortuna – disse il capitano. – Eppure il mare è bello.

    Il mare era bello, non c’erano navi. Nell’atmosfera di noia fin troppo abituale, perfino l’aspettativa era pensata con rimpianto. I fatti da normali diventavano fatali, da ripetersi di continuo, per non trovarsi preda della propria apatia. Tutto cambiava in continuazione, era questo a scoraggiare.

    – Magari uno di questi giorni – intervenne Nelson, seduto a capo tavola – avvisteremo qualche caracca olandese.

    Quell’affermazione altrettanto banale fu accolta con un sorriso dagli ufficiali, profumata com’era di promesse di dinamismo.

    – Ma certo – disse il capitano. – E speriamo in bene che il tempo si mantenga.

    Claude Nelson annuì e girò con il cucchiaio la minestra grigia.

    II.

    Aveva fatto in tempo a infilarsi solo i pantaloni. Al freddo dispettoso della notte, i peli sulle braccia e sul torace gli si erano drizzati non appena uscito in coperta.

    – Non vedo quasi niente – armeggiò con il lungo cannocchiale. – Mi avete dato un cannocchiale rotto?

    Il capitano Farrer nicchiò. – Devo… prendere…

    Nelson smise di affannarsi e guardò il capitano. – Cosa?

    – Ne ho… – indicò incerto il cannocchiale. – Ne ho uno in sala ufficiali. Di quelli… nuovi.

    E dove l’ha trovato? avrebbe voluto chiedere Nelson. Ma era una domanda stupida. Erano pirati, o no?, e in ogni caso i mercati di ogni porto rigurgitavano di quelle cose. Ce n’erano più di quelle, che di gente che sapesse come usarle. Uno di questi era Nelson. Il capitano gli portò il binocolo e con un rapido studio, Farrer si era già avvantaggiato, riuscirono a regolarne il fuoco. Nelson lesse una serie di minuscoli numeri rossi tutto intorno alla visuale del binocolo, dal significato oscuro. E vide perfettamente il galeone lontano, anche al buio.

    – Eccoti qui – disse finalmente. – Ci avviciniamo. A quanto pare, non ci ha ancora visti. Mantiene la rotta e non vedo luci. Se non mi sbaglio, abbiamo una fregata nei paraggi.

    – È la Clip, signore. È sulla nostra scia, lontano qualche miglio.

    – Bene, è abbastanza vicina. Dirigete le operazioni. – Si passò una mano sul braccio, sulla pelle da papero di cui si accorse solo allora, e rese al capitano il binocolo con un gesto quasi imbarazzato. – Abbordiamo.

    – Sissignore.

    III.

    Il galeone spagnolo si arrese senza tentare una resistenza inutile, nonostante fosse armato di una fila di artiglieria pesante: gravato dal peso dei bottini sudamericani, impiegava già uno sforzo notevole a navigare diritto. In questo, i ricchi olandesi erano sicuramente più accorti, mentre l’ingordigia dei mercanti spagnoli, ben riforniti dai conquistadores, era un pericolo per i marinai stessi, costretti ad affrontare una traversata oceanica sicuri quanto lo sarebbero stati su una bagnarola di negrieri. Nelson e i suoi si dissero con sarcasmo che alleggerirli era più che altro una missione umanitaria.

    Come di consueto, l’equipaggio fu risparmiato, piazzato sulle scialuppe e rifornito di strumenti di navigazione, acqua e viveri: anche in quel caso i marinai abbordati ne presero troppi, caricandosi più di quanto sarebbe stato saggio. Ma l’umanità dei corsari inglesi, dopotutto, non era illimitata, e la sopravvivenza di quei pirati travestiti da marinai civili non li riguardava. Nelson fece trasportare rapidamente le merci sulla Clip e la Coraline, e tornò su quest’ultima. Il galeone spagnolo venne cannoneggiato fino a farlo colare a picco.

    La stiva della Coraline si trasformò in pochi minuti da un grigio stomaco vuoto in una caverna da sceicchi, la debole luce era amplificata dai riflessi dell’argento e la sala era invasa dal profumo del tabacco e dei generi alimentari più esotici. Mais, pomodori, Nelson ascoltava in compiaciuto silenzio l’inventario del bottino, e si fece dare dal nostromo anche quello della roba sulla Clip. Lo lesse in silenzio.

    – Ci sono delle fragole – notò.

    Il nostromo Murray gettò un’occhiata al foglio. – A quanto pare – rispose.

    – Dieci cassette. Un’enormità.

    – Devono valere tantissimo.

    – Devono essere buonissime – concluse Nelson. Vedeva l’acqua oltre l’oblò opaco, e la luce del sole che incominciava lentamente a riscaldarla. – Comunicate alla Clip di consegnarci cinque cassette di fragole. Le restanti cinque sono a loro disposizione.

    Murray spalancò gli occhi. – Davvero, signore?

    – Non avete voglia di assaggiarle?

    Ammise: – Tantissima.

    – Cinque cassette dovrebbero bastare per tutti, in piccole porzioni. Che il cuoco le lavi e ce le serva questa sera intatte.

    – Sissignore!

    – Ammiraglio?

    Nelson voltò la testa verso il capitano Farrer appena sceso. – Aha? – rispose.

    – La nave è piuttosto carica – disse Farrer. – Non sarebbe meglio tornare all’Arcipelago?

    – Era mia intenzione. Date l’ordine e comunicatelo anche alla Clip.

    – Sissignore.

    Murray arrivò accanto al capitano.– Stasera fragole – gli disse.

    Pronunciò l’ultima parola lentamente, come a volerla assaporare.

    Diario di bordo della Coraline

    5 settembre, Anno del Signore 1615

    24°01’38.73’’N – 63°23’51.54’’O

    Manteniamo una rotta stabile e ci avviciniamo all’Arcipelago Kauai. La velocità è mantenuta costante sui dieci nodi, ridotta dal peso della merce acquisita (allegato inventario n°158). Il vento tira nella nostra direzione a una velocità di circa tredici nodi e il tempo si mantiene bello. Il sole si riflette sulla superficie dell’acqua, l’aria è luminosa. Il capitano in seconda si è rimesso dalle leggere ferite procurate nell’ultima azione di arrembaggio. Gli uomini lavorano di buona lena. Che Dio ci protegga.

    Claude Anthony Nelson

    Ammiraglio della Flotta Oceanica Irregolare dell’Ovest

    IV.

    La vista di Kauai, limpida oltre l’orizzonte, era una potente medicina dal sollievo balsamico. Una volta nelle sue acque, la velocità della Coraline e della Clip era più che dimezzata, e la gioia di tutti almeno triplicata.

    La navigazione era al termine: senza aspettare di ormeggiare, i boccaporti venivano spalancati, il sole entrava di nuovo nei corridoi a lenire l’umidità del legno corroso e imbevuto di vapori e della puzza degli uomini e dell’artiglieria.

    – Eccoci qui, finalmente – disse il capitano in seconda, a fianco di Nelson vicino alla balaustra.

    – Eccoci – si limitò a ripetere Nelson.

    L’acqua intorno era più chiara, rispetto a quella in mare aperto, ma più opaca. A contatto con la terra e con gli insediamenti, distesa su fondali più bassi e melmosi, aveva perso la brillantezza del sole in pieno giorno, era ormai incapace di restituirgli il riflesso che respirava dall’oltremare. Accanto alla Coraline arrivò un caicco a dare loro il benvenuto, salutato dalle grida degli uomini, e scivolò verso il porto segnando la strada da percorrere per l’ormeggio, veloce come un delfino spinto dal vento.

    Alla fine, Nelson smise di osservare le acque per dedicarsi a questioni più prosaiche, come raccogliere la propria roba e scendere a terra. Si rigirò il quaderno tra le mani e lo porse al capitano in seconda.

    – Eccovi il diario di bordo. È aggiornato. Ridatelo pure al capitano. Vi sentite bene?

    – Bene, grazie. Tutto passato. – Si diede un colpetto al braccio fasciato.

    – Bene.

    La nave era ferma, gli ormeggi assicurati dagli uomini che dal molo maneggiavano le enormi cime intrise d’acqua salmastra. Il nocchiero dava i comandi per le manovre delle pedane, e come formiche i pontoni circondavano la nave, pronti a prendere in consegna i carichi e portare i bottini a terra. Nelson fu tra i primi a sbarcare: era uno dei vantaggi più dolci della sua posizione.

    L’acciottolato aveva una consistenza diversa, dopo un po’ di tempo che non si era abituati a calpestarlo. C’era già un calessino che lo aspettava per portarlo alla palazzina in muratura sede dei suoi alloggi e degli uffici di comando della flotta. Nelson montò e si voltò subito indietro. Gli uomini della Coraline portavano in coperta la merce dalla stiva servendosi di argani e leve, e poco distante la sagoma agile della Clip, circondata dall’aureola di luce mattutina, completava a sua volta l’attracco.

    – Vedo che è andata piuttosto bene, signore. – Il ragazzo a cassetta indossava una giacca nera e un tricorno, come se si sentisse parte vitale e utile di un esercito organizzato.

    – Abbastanza. Vogliamo fermarci alla taverna?

    – Mi spiace, signore. Il viceammiraglio Scott mi ha dato l’ordine di condurvi immediatamente agli uffici per un affare della massima importanza.

    – Fermiamoci. Ho bisogno di un tè caldo corretto preparato con acqua pulita.

    – Signore, il viceammiraglio…

    – Il viceammiraglio sopravviverà mentre mi bevo un tè in santa pace. Su, offro io.

    – Signore, non vorrei…

    Si passò una mano sugli occhi. – Senti, portami alla fottuta taverna adesso.

    Il ragazzo parve turbato, forse pensava che la bocca gallonata di Nelson non avrebbe dovuto macchiarsi di turpiloquio. La sua nuca si mantenne immobile, lui diede un strattone alle redini. – Sissignore – cedette, e condusse il calessino verso una strada secondaria, nei meandri del porto di Kauai che aspettava lo sbarco delle ciurme allegre.

    – Smetti di chiamarmi in continuazione signore. Pensi di essere nei Dragoni, per caso?

    Il ragazzo non rispose e guidò in silenzio il suo ronzino fino alla taverna.

    V.

    Il viceammiraglio Robert Scott lo aspettava nell’atrio. – Eccoti, finalmente. Quanto ci hai messo?

    – Abbiamo avuto dei rallentamenti, signore – disse il giovane cocchiere da dietro la spalla di Nelson.

    – Abbiamo preso un tè – disse Nelson, contemporaneamente.

    – Alan, ti avevo detto…

    – Rilassati – lo interruppe Claude. – Che c’è, di così importante?

    Scott congedò il ragazzo. Nelson si voltò per guardarlo andare via con un’andatura frettolosa.

    – Dove hai pescato quella trota? – disse a Scott, appena Alan ebbe preso la porta del corridoio.

    – È cugino di mia cognata, un caro ragazzo, ed è sveglio. Ci sono notizie.

    – Dall’Inghilterra?

    Scott annuì e lo condusse nel suo ufficio, richiudendosi la porta alle spalle.

    – È arrivato un ispettore – disse, mentre Claude Nelson si sedeva sulla poltroncina logora.

    – Eh? – rispose lui soltanto.

    – Mi hai sentito. Arthur Stoneset.

    Odorava di guai. – Che razza di nome è?

    Scott alzò un sopracciglio. – Il suo.

    – Nobile?

    – Eccentrico.

    Si guardarono.

    – È uno… di quelli? – chiese Nelson.

    Scott fece lentamente spallucce.

    – Oh, dio. – Nelson si coprì il viso con una mano. – Non ci voleva.

    – Non ti ho detto di sì.

    – Ma non lo escluderesti, giusto? Non escluderesti che questo Arthur Stoneset sia un… uno degli… un invasore.

    – No, non lo escludo.

    – Si può sapere che diavolo vuole?

    Scott si sedette alla scrivania e senza parlare porse a Nelson una tabacchiera, una scatolina di giunco con delle ammaccature che ne coprivano in parte l’intaglio. Si guardarono di nuovo, e Scott gli offerse anche la propria pipa di terracotta.

    – La tua? – domandò all’ammiraglio.

    – La mia? Indovina? Frantumata.. – Nelson accese lentamente e tirò qualche boccata. – Oh, beh. L’ultima volta che ho visto la mia pipa, sarà stato dieci giorni fa. Poi niente più pipa e niente più tabacco. Certe volte, stare troppo fuori diventa un problema. Allora?

    – Allora cosa? Posso?

    Nelson gli porse la pipa e Scott fumò a sua volta. – Allora che diavolo vuole questo invasore. Sei anche tu a corto di boccate?

    – È tutto appena arrivato, pensa che non l’ho nemmeno assaggiato – disse Scott, in una nuvola di fumo. – Anche stare qui può essere un problema, certe volte.

    Nelson fece un gesto con la mano, conciliante. – Non lo metto in dubbio.

    Il discorso si spostò per un attimo agli arrivi di merce sull’isola. Kauai ospitava anche un fondaco di mercanti inglesi piuttosto in gamba, che in barba alla politica erano riusciti a stringere buoni rapporti con i loro colleghi, sia olandesi che portoghesi, che avevano avamposti sulle coste messicane. La cosa portava anche parecchi vantaggi ai corsari che dividevano con i fondachieri inglesi quella manciata di atolli. Questa volta, i mercanti avevano donato a Scott una serie di spezie e liquori che il viceammiraglio elencò con soddisfazione a Nelson, oltre alla consueta fornitura di tabacco.

    – Chi diavolo lo manda? – chiese a un tratto Nelson. – Che cosa dovrebbe… ispettorare?

    – Le cose, in generale. Che ne so. Lo manda il governo.

    – Il governo? – Nelson osservò il fumo alzarsi in un filo nervoso dalla cavità della pipa accesa. – Che credono di fare?

    – Non lo so, Anthony. Penso vogliano controllarci. Controllare i nostri bottini, o come usiamo le lettere di corsa.

    – Le lettere di corsa. – Nelson sbuffò il fumo con un’urgenza stizzosa. – Ci costano care, le lettere di corsa! Con quello che si prendono… non riusciamo neanche a riparare le navi… che vorrebbero dimostrare? Siamo qui a rimestare nella melma, a cavare soldati da luridi avanzi di galera… E vogliono anche controllare?

    – Eh – Anche lui un gesto della mano. – Può darsi che se ne vada senza storie, tra qualche giorno.

    – Non lo farà. – Nelson sorrise cupamente. – Se è uno di quei maledetti forestieri, non lo farà.

    Sia Nelson che Scott sapevano di parlare a ragion veduta. Quella vita passata a cavare soldati da luridi avanzi di galera dava loro il vantaggio di entrare in possesso di informazioni che i puliti e irreggimentati soldati non avevano. E gli ufficiali della corsa, proprio come gli acuti condottieri delle bande di mercenari che avevano messo a ferro e fuoco l’Europa solo qualche tempo prima, erano stati tra i primi ad aver scoperto qualcosa di prezioso sugli invasori che, tanto pochi e tanto uguali ai cristiani, avevano cambiato radicalmente quel mondo nel quale avevano fatto irruzione. Una piccolezza, apparentemente, proprio come tutte le altre piccolezze portate in dono dagli invasori, piccolezze imprescindibili che avevano cambiato ogni cosa. Loro erano arrivati, sì, dal loro tempo lontano: ma non potevano farci ritorno. Non potevano tornare indietro. Erano sgattaiolati lì, uno in Europa, uno nel Nuovo Mondo, uno nell’Africa negra, uno da terre la cui esistenza era stata finora sconosciuta ai cristiani stessi – cristiani per modo di dire, non è che i turchi o tutti gli altri facessero eccezione.

    Questa piccolezza li metteva sotto una luce ancora più sinistra di quella che già avevano. Era stata riferita a Nelson da un nostromo, che l’aveva udita da un marinaio ubriaco. Quell’uomo la ripeteva piangendo, stordito dalla birra, e le sue lacrime avevano da subito svelato, sia al nostromo sia al Commodoro, chi lui fosse in realtà. Poco tempo dopo, su segreta richiesta di Nelson, il nostromo aveva trovato un buon pretesto e aveva passato l’uomo per le armi. Ma da allora Nelson ne aveva parlato spesso con Scott, e si chiedevano: se io fossi catapultato via per sempre, se una qualche alchimia mi portasse in un Purgatorio senza alcuna possibilità di ritorno, cosa farei? E soprattutto… cosa avrei da perdere? Avevano trovato tante risposte. Nessuna era confortante.

    Scott sembrava d’accordo con l’ostilità di Nelson, ma continuò la sua parte senza sbilanciarsi troppo. – Mi ha accennato che vedrà l’arcipelago, la flotta, e le modalità delle operazioni.

    Claude Nelson aspirò le ultime boccate dalla pipa e vuotò il tabacco. – Vuoi dire che ce lo dobbiamo portare dietro negli arrembaggi? E se ci resta secco?

    – Dice di aver combattuto. Magari sa badare a se stesso.

    – Ci mancava il generalissimo.

    – È duca. Duca di Manchester.

    Nelson non disse nulla, guardando torvamente il muro grigio davanti a sé.

    – Sta aspettando nel tuo studio.

    Lui si alzò con un sospiro che somigliava a un ringhio.

    – Mi lasci la pipa? – disse Scott.

    La posò sulla scrivania del viceammiraglio – Resta nei paraggi, può essere che debba chiamarti.

    – Bene – rispose Scott.

    – Dannati loro – concluse Nelson, uscendo.

    VI.

    Si inchinarono brevemente l’uno davanti all’altro, poi si strinsero la mano in fretta.

    – Accomodatevi, Vostra Grazia – gli disse Nelson, sedendosi al proprio largo tavolo sgombro. Arthur Stoneset, duca di Manchester, si sedette a sua volta, di fronte a lui. Era di mezza età, come Nelson navigava sui trentacinque. I due avevano in comune alcuni tratti somatici, erano entrambi di media altezza, biondi e dagli occhi chiari. Quelli di Manchester erano azzurri, dal taglio tipicamente nordico, mentre Nelson, che aveva sangue europeo, aveva occhi verde scuro, quasi castani, e un viso dai tratti regolari, con una vaga reminiscenza latina, che lo facevano sembrare più amichevole e accomodante di quanto non fosse in realtà.

    – Penso che il viceammiraglio vi abbia già informato riguardo lo scopo del mio arrivo.

    – Sì, Vostra Grazia. Mi ha accennato qualcosa. Ma sono qui per ascoltarvi. Che possiamo fare per voi?

    – Sono stato mandato dalla Corona. Intendiamo dare un’occhiata alle vostre attività qui nell’Atlantico, visto che circolano diversi galeoni spagnoli, che più di una volta hanno bombardato le nostre flotte regolari.

    – Desolato per questo. Ma non riguarda strettamente noi – disse Nelson, veloce nel disimpegno. – Non siamo una flotta di difesa.

    – No, certo. Ma si pensa che le vostre funzioni vadano in parte riviste.

    Nelson non rispose, appoggiato con la schiena alla sedia.

    – Sua Maestà ha nuove disposizioni, sono qui anche per consegnarvele. – Manchester tirò fuori dal nulla un plico sigillato e lo porse a Nelson. – A voi.

    – Piuttosto consistente – disse lui, soppesandolo.

    – Impiegate tutto il tempo che ritenete necessario.

    Tante grazie, Vostra Grazia!

    Nelson si alzò. – Sono costretto a lasciarvi, signore. Stasera devo rimettermi in mare, e devo sbrigare alcune faccende. Avete intenzione di imbarcarvi?

    Manchester si era alzato a sua volta. – Per il momento, no. Ho intenzione di visitare l’arcipelago, i porti e i cantieri, e di presentarmi al fondaco.

    – I miei uomini saranno a vostra disposizione.

    – Vi ringrazio. Quando sarete di ritorno?

    – Penso che non starò fuori più di due mesi.

    – Allora ci rivedremo. Mandatemi vostre notizie.

    – Come desiderate.

    Si strinsero di nuovo la mano. Prestando più attenzione alla stretta di Manchester, così ostentatamente forte da dargli fastidio, Claude Nelson capì che il duca non era un uomo di mare.

    VII.

    Si svegliò con la bocca impastata del sapore del tabacco, quando il sole già tramontava: la luce offuscata si era ritirata dalla parete e resisteva solo su un angolo del pavimento. Si tirò a sedere ancora confuso, sentiva il calore del proprio corpo disperdersi dalla camicia e dalla coperta.

    Qualcuno bussava.

    Si infilò la veste da camera buttata accanto al letto e si trascinò alla porta. Aprì. – Chi si rivede.

    Il giovane Alan eseguì una riverenza. – Buonasera, signore.

    – Che c’è?

    – Il viceammiraglio Scott si chiedeva se voi foste pronto, signore.

    – No. Diavoli. Che ore sono? Devo imbarcarmi, il Seashell parte stasera.

    – Il viceammiraglio Scott vi aspetta sulla terrazza, signore.

    – La terrazza?

    Alan esitò. Indicò qualcosa verso l’alto e Nelson non poté evitare di guardare il soffitto. – Il… il tetto, signore.

    – Ah, il tetto. – Nelson alzò un sopracciglio. – Cinque minuti.

    – Sissignore. Riferirò.

    – La terrazza… – ripeté Nelson tra sé, chiudendo la porta.

    Ricoperta da una colata di terra e calce viva, sembrava più un campo di pallamano che una terrazza. Scott, seduto su una delle sedie di giunco – l’onnipresente, squallido giunco – portate lì qualche tempo prima, leggeva i fogli con i nuovi ordini del governo, e aspettava Nelson per bere il tè, che fumava dal bricco sul tavolo.

    – Buonasera – disse, quando Nelson si sedette accanto a lui in silenzio.

    – Potresti portare anche un divanetto e biscottini – rispose senza guardarlo.

    – Spiritoso. Ammettilo, su, che piace anche a te.

    Nelson guardò il panorama sottostante, i tetti degli edifici in pendenza, e oltre quelli, il mare: non si intravedeva la spiaggia, né il porto, nascosti dalle costruzioni che terminavano ai margini della macchia che lambiva la costa. Alla luce soffice del crepuscolo, anche la superficie di quel mare chiuso sembrava distendersi e tornare se stessa… tornare alla propria autenticità, accarezzata dai raggi rosa e costellata di barbagli blu. L’acqua accarezzata dalla malinconia della sera si tranquillizzava, non si curava delle poche navi che la solcavano, quasi immobili di lontano.

    – Mi

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