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L'Incontro
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L'Incontro

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About this ebook

L’immigrazione di ieri e di oggi conosciuta attraverso il racconto di padri e nonni e vissuta nell’incontro fra due ragazzi.
Malik ha dodici anni e si è salvato con la madre da un naufragio, mentre il padre e il fratello sono morti annegati nel viaggio su un barcone che trasportava più persone di quante ne potesse contenere.
L’incontro tra Malik e Giuseppe, un ragazzo di 14 anni, è l’occasione per rivivere il percorso di Malik, di conoscerne il vissuto, il dolore e la speranza.
È la storia che si ripete nel corso degli anni con l’emigrazione della gente dal meridione d’Italia nelle città del nord, in America e in altri Paesi europei. Le loro sofferenze, i distacchi.
Un percorso seguito oggi dalla gente dei paesi dell’Est, dei paesi africani e arabi che iniziano il viaggio della speranza, con le sue morti innocenti, anche di bambini.
Riaffiorare di discriminazioni sociali, razziali ed etniche con centri di accoglienza simili ai campi di concentramento.
LanguageItaliano
Release dateFeb 16, 2016
ISBN9788868223908
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    L'Incontro - Erminio Amelio

    genitori

    I

    Da casa uscii di fretta. Ero felice, avevo più motivi per esserlo. Correvo per le strade strette e sconnesse del paese.

    Guardandomi intorno, ogni tanto vedevo gruppi di anziani seduti su vecchie panchine di legno: l’espressione dura del viso, la pelle bruciata dal sole, lo sguardo vuoto, spento, rassegnato. Sembravano tutti uguali, di un’età indefinibile. Ritratti fieri di un’antica civiltà contadina.

    Erano insopportabili gli anziani. Appena un ragazzo si avvicinava cominciavano con i soliti discorsi sulla miseria della loro gioventù. Assettate ca cuntamu nu fattu dicevano e, senza dare il tempo per capire cosa stesse per succedere, cominciavano a raccontare che non avevano avuto da mangiare, che avevano vissuto senza scarpe, che le loro serate erano state rischiarate dalla luce fioca del lume a petrolio. Sapevano parlare solo delle loro sofferenze, nelle quali erano rimasti prigionieri. Erano capaci di parlarne per ore. Vivevano lunghi momenti di opprimente monotonia, sempre uguali, al punto che era difficile distinguerli uno dall’altro. Facevano pena con i loro vestiti vecchi, i cappelli consunti e il bastone che, tenuto dalla mano tremante, a volte era l’unico segnale di vita, quando stavano con la testa penzoloni. L’unica cosa sensata da fare era scappare e lasciarli soli al loro triste destino. Non c’era ragione per ascoltarli, neanche per un solo minuto.

    Mordevo l’asfalto con grinta, correvo sempre più forte, anche quando mi sembrava che le forze stessero per abbandonarmi. Tenevo duro. Non mi fermavo neanche quando gli occhi cominciavano a bruciare per il sudore. Mi asciugavo velocemente con il polso e, anche se il fastidio non andava via, continuavo nella corsa. Non volevo perdere un solo secondo. Dovevo arrivare prima possibile al campetto di calcio che noi ragazzi avevamo costruito in un terreno lasciato libero dal proprietario, emigrato in America senza fare ritorno.

    Il campetto l’avevamo realizzato con i pochi mezzi a disposizione: quattro grosse pietre ai lati che delimitavano idealmente lo spazio, le porte formate da due legni, leggermente fissati al terreno, senza la traversa; l’altezza del tiro la calcolavamo a occhio, con valutazione di comodo per affermare o negare il goal se a segnarlo era stata la propria squadra o quella avversaria. Era questa una delle tante occasioni per litigare. Prima avevamo giocato in strada e non era stato facile. Le interruzioni erano continue: le persone passeggiavano, i contadini con gli asini tornavano dalla campagna, a volte c’era la transumanza delle greggi. Le nostre partite non avevano un orario, giocavamo a chi arrivava prima a venti goal o fino a quando faceva buio. Ognuno usava una maglietta vecchia, alcuni giocavano scalzi perché bisognava non rovinare l’unico paio di scarpe possedute.

    Con tenacia proseguivo nella corsa, stringevo i denti, lo sguardo dritto verso la meta. Passo dopo passo la vedevo, sembrava venirmi incontro, aumentavo lo sforzo, ancora 30 metri, 20, 10. Sentii allora le voci dei miei amici rincorrersi nell’aria in maniera disordinata. Urla che esprimevano gioia e soddisfazione, rabbia e contestazione. Parole che vivacizzavano la quotidianità tranquilla e silenziosa nella quale scorrevano le lunghe ore pomeridiane nel paese, scrollandole dall’immobilismo nel quale erano perse e al quale erano abituate.

    Quando arrivai al campetto ero esausto. Mi piegai in avanti, lasciai andare le braccia e cominciai a respirare, poi alzai gli occhi e vidi lo spettacolo di sempre: ognuno dei miei compagni tentava di conquistare il pallone per iniziare il dribbling nei confronti di chiunque si trovasse davanti.

    «Smettila di giocare da solo, non sei Pelè, ci siamo anche noi, ci dobbiamo divertire tutti» urlò Pietro a Luciano che continuò a dribblare gli avversari. L’ultimo lo superò con un tunnel, si portò avanti il pallone e con un gran tiro fece goal, rendendo inutile anche il disperato tuffo del portiere.

    Finita l’azione urlai:

    «Guardate sono gli scarpini che usano i calciatori, me li ha comprati mia madre a Roma».

    Li alzai in alto come un trofeo. Tutti corsero verso di me e sgranarono gli occhi. Era la prima volta che vedevamo gli scarpini da calcio, i miei compagni iniziarono a toccarli.

    «Quanti tacchetti! Chissà se correndo faranno male, se si può tirare più forte e se è più facile fare goal».

    Indossai gli scarpini e immaginai di essere un calciatore vero. Iniziai a correre seguito da tutti e quando raggiunsi il pallone, che per qualche istante era rimasto abbandonato in mezzo al campo, lo colpii facendolo andare nella porta: "goool".

    Mi lasciai cadere a terra. I miei compagni si fermarono in piedi a osservarmi. Li guardai uno per uno. Allungai il braccio e afferrai una delle tante mani protese, mi rialzai, cominciai a saltellare ed ebbi la sensazione che gli scarpini mi facessero andare più in alto del solito.

    «Ce li fai provare?» Fu il coro che si levò.

    Tolsi gli scarpini e i miei compagni litigarono su chi dovesse calzarli per primo e chi ci riuscì iniziò a correre con le braccia levate al cielo gridando il nome del calciatore che in quel momento credeva di emulare. Dopo qualche minuto iniziammo a giocare e quando i primi colori del tramonto si impadronirono del campetto finimmo la partita e ci incamminammo verso casa. L’aria era fresca, intrisa del profumo del gelsomino. Nei giardini, ai lati della strada, si potevano ammirare le belle di notte completamente schiuse e sfavillanti nei loro colori rosso e giallo che rispecchiavano i colori del cielo, mentre il sole lentamente si perdeva dietro le montagne.

    Lungo il percorso incrociammo dei contadini che, con la schiena curva e ad andatura lenta, tornavano dai campi, dopo una dura giornata di lavoro. Con una mano tiravano gli asini che arrancavano carichi di legna, degli arnesi da lavoro e talvolta anche delle donne in groppa. In paese le finestre delle case si illuminavano alle quattro del mattino una dopo l’altra, come se l’accensione della prima lampadina trasmettesse il segnale alla seconda, questa alla terza e così via. Sembravano piccole lanterne tenute sospese in aria da un invisibile filo, tanti piccoli fuochi nell’oscurità. Erano il segnale che la vita ricominciava fra mille pensieri e tantissime preoccupazioni. Dopo essersi preparati i contadini chiudevano la porta di casa e si incamminavano per le strade buie dirigendosi verso la campagna. Anche loro, prima del crepuscolo, tornavano a casa in processione, una fila interminabile che animava le strade. Spuntavano fuori all’improvviso, come lumache dopo l’abbondante pioggia, dopo essere stati inghiottiti dalla campagna, come se questa li avesse, temporaneamente, sequestrati e nascosti. Due mondi si incrociavano ugualmente stanchi, per ragioni diverse.

    «Tuttu u journu a jocare. I libri mai i pigghiati», ci dicevano.

    Alle loro parole noi rispondevamo con sberleffi perché non ci interessavano i loro consigli, come potevano darceli se non avevano frequentato la scuola, cosa ne sapevano loro dello studio, dei compiti. Avrebbero dovuto stare zitti e pensare alle loro cose.

    Con gli scarpini da calcio in mano imboccai la strada di casa, una via stretta, in leggera salita e poco illuminata, sterrata e piena di buche che rendevano ogni volta il passaggio una sorta di avventura. Alla fine della salita, dove la via curvava leggermente verso destra, a 35 passi dalla strada e a 20 dalla porta di casa mia, abitava una donna, era sola, non aveva parenti o nessuno si riteneva tale anche in un contesto dove quasi tutti lo erano. La sua casa, una grande spelonca, era umida, disadorna e senza luce. Il letto era un pagliericcio sistemato all’angolo della stanza, l’unico riparato dalle correnti d’aria. La gente diceva che quella donna era cattiva, trasmetteva malattie e attaccava i pidocchi. Non era vero, erano solo paure alimentate per tenerla lontano, per discriminarla. Senza ragione. Col fiato in gola arrivai davanti alla porta di casa dopo aver salito gli scalini due alla volta, bussai con forza per farmi sentire. La porta rimase chiusa. Girando lo sguardo vidi la donna seduta sullo scalino della sua porta, ci guardammo. Mi avvicinai. Il suo viso era sporco, ma gli occhi e lo sguardo riflettevano serenità. Le mani erano piccole e ossute, anch’esse nere di sporcizia atavica: da anni probabilmente avevano dichiarato guerra all’acqua, che non aveva neanche in casa.

    «Cchi teni are manu?»

    Le mostrai gli scarpini, lei ne prese uno, lo guardò e fece una smorfia. Le spiegai a cosa servivano, ma le mie parole la lasciarono indifferente. Non c’era possibilità di capirsi. Mentre parlavo mia madre si affacciò dalla porta e mi chiamò. La raggiunsi velocemente e ci abbracciamo a lungo, non ci vedevamo da diversi giorni. Era andata a Roma per sottoporsi a cure mediche che l’ospedale della città vicina al paese non forniva. Nessuno mi aveva detto niente sulla sua salute. Gli adulti parlavano fra loro e quando arrivavo io si zittivano. Non avevo mai pensato che mia madre potesse essere ammalata, la vedevo sorridere sempre, faceva mille lavori in casa e in campagna senza mai lamentarsi. Anche quando qualche volta si sedeva sfinita, pensavo fosse solo stanchezza fisica e nient’altro. Era giovane mia madre, non poteva essere malata. Per me la malattia era la febbre ed era una cosa buona quando veniva perchè non andavo a scuola. Ero contento quando avevo la febbre.

    Mio padre aveva accompagnato mia madre e io ero rimasto con la nonna. Dopo il primo giorno avevo iniziato a chiedere, volevo sapere perché la mamma era partita, lei non mi avrebbe lasciato senza una buona ragione. Non mi fu data nessuna spiegazione.

    «Tua mamma tornerà presto» era sempre l’unica risposta, quando qualcuno decideva di darla.

    Quando mia madre era tornata non avevamo potuto parlare. Tanti parenti erano venuti a salutarla e io appena mi aveva consegnato gli scarpini per la gioia ero uscito a mostrare il regalo ai miei compagni. Ora eravamo noi due. Mia madre cominciò a chiedermi della scuola, dei compiti, se avevo fatto arrabbiare mio padre, se avevo litigato con i compagni. Mentre parlavamo mi passò la mano sui capelli e poi l’affondò tra la maglietta e le spalle.

    «Sei tutto sudato».

    «Ho corso molto. Gli scarpini che mi hai regalato sono bellissimi».

    «Ora scaldo l’acqua e ti lavi subito altrimenti ti prendi un forte raffreddore. Non voglio che tuo padre ti veda così, si arrabbierebbe molto».

    Quasi in nessuna casa c’era la doccia o la vasca da bagno.

    «Lui esagera. Ogni volta che gioco è sempre la stessa storia».

    «È ansioso, cerca di capirlo è più forte di lui».

    «Papà dovrebbe capirmi. Tu non ti arrabbi allo stesso modo».

    «Anche io mi preoccupo quando ti vedo sudato, anche se non grido come lui».

    «Perché?»

    «Siamo diversi».

    Come un soldatino obbedii e andai nel piccolo bagno, dove mia madre portò l’acqua calda dopo qualche minuto.

    «Sbrigati a lavarti; la cena è quasi pronta. Stasera da mangiare c’è una sorpresa».

    Non mangiavo volentieri. Ero gracile e guardandomi allo specchio potevo vedere le ossa che formavano la gabbia toracica. Quando uscii dal bagno vidi mio padre che stava entrando in casa, lo abbracciai e infilai le mani nelle tasche della giacca, ma non trovai niente che potesse interessarmi. Fu in quel momento che mia madre ci chiamò per la cena. Quando arrivai in cucina guardai la tavola e rimasi deluso.

    «Qual è la sorpresa?»

    «La pasta».

    «La pasta?»

    «Questa è quella che mangiano i calciatori per diventare più forti e più bravi», disse mia madre.

    «Non è vero. È una scusa per farmi mangiare».

    «Nel negozio dove ho comprato gli scarpini c’era un calciatore, gli ho detto che mio figlio gioca a calcio e gli ho chiesto cosa mangiano per giocare bene».

    Non credevo alle parole di mia madre. Guardai mio padre sperando di avere il suo sostegno.

    «È vero, c’ero anch’io».

    «Perché non hai portato tu la pasta quando sei tornato da Roma? L’avrei mangiata prima e sarei già diventato più bravo».

    «La mamma aveva piacere a portarla lei e prepararla con le sue mani».

    «Chi era il giocatore che avete incontrato?»

    Mio padre tentennò prima di rispondere. Pensai di aver smascherato il loro gioco.

    «Losi, il capitano della Roma, tutte le persone lo chiamavano e lo salutavano».

    La risposta di mio padre era giusta. La cosa mi colpì perché mio padre conosceva i nomi di pochi calciatori. Mi chinai sul piatto, guardai la pasta e vidi che aveva una forma strana, mai vista prima, per un attimo credetti alle parole di mia madre. Cominciai a mangiare. Anche il sapore mi sembrò diverso, il calcio mi aveva suggestionato.

    «Mamma è bella Roma? È tanto bello il Colosseo?»

    «Roma è bellissima. Più bella di quanto dicono. Io ho visto poche cose. Un giorno andremo a visitarla e tu che hai studiato ci spiegherai la sua storia».

    Poi fu la volta di mio padre.

    «Oggi ti ho visto quando giocavi al campo».

    Mi bloccai temendo la sua solita sfuriata, ma non successe niente. Era la prima volta che mio padre non si arrabbiava per le mie partite di pallone.

    «Adesso basta con i discorsi, è tardi devi andare a letto».

    Salutai mio padre. Mia madre mi accompagnò in camera, mi rimboccò le coperte e si fermò a chiacchierare a voce bassa.

    Quella sera era più bella del solito, mia madre era accanto a me, stavo quasi dimenticando quel piacere, ma ora che era tornata mi sembrava che niente fosse successo, che la sua presenza avesse annullato il tempo trascorso senza di lei.

    «Hai speso tanti soldi per comprare gli scarpini da calcio?»

    «Non preoccuparti. Sei felice?»

    «Tantissimo».

    «Questo è importante. Il resto non conta».

    «Papà non si arrabbierà se continuerò a giocare?»

    «Ha paura che tu ti faccia male. Adesso dormi tranquillo, domani dovrai andare a scuola, buonanotte».

    Buonanotte mamma e grazie.

    «Di cosa?»

    «Di tutto».

    «Di niente», disse un attimo prima di spegnere la luce.

    Quando rimasi solo mi resi conto che non avevo chiesto a mia madre nessuna notizia sulla sua salute. Mi sentii in colpa. Come avevo potuto dimenticarmi? Era bastato un regalo per far passare in secondo piano la sua salute? Per un attimo pensai

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