Gente di città
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Book preview
Gente di città - Luciana Volponi Massei
Rosanella
Nota dell’autore
In un tempo in cui tutto viene urlato
, Gente di città
è una raccolta di racconti sottovoce
.
Storie normali di gente comune.
Storie di emozioni da leggere tutte di un fiato, per sorridere, riflettere, commuoversi un po’.
Sono vere?
Chissà…
Visita a domicilio
Ferragosto. Strade deserte. Aria calda da togliere il respiro. Cielo azzurro spesso.
Luigi De Simone, detto semplicemente Gigi, si muoveva rasente i muri, cercando un minimo conforto d’ombra e scrutando come un gatto affamato portoni e finestre. Sentiva il sudore colargli giù lungo la schiena e le scarpe da ginnastica facevano, ad ogni passo, uno strano ciaf ciaf sull’asfalto bruciante.
Stava procedendo a casaccio, in una zona al di fuori dei suoi soliti percorsi. Ancora dieci minuti e poi se ne sarebbe andato sul fiume. Una fetta di cocomero e un tuffo come nei tempi migliori.
Quando stava per disperare, scorse una finestra aperta all’angolo di una vecchia palazzina di due piani, un edificio aperto su un vicoletto che aveva davanti uno sputo di giardino, uno di quei piccoli occhi verdi nel muso bianco sporco della città, di cui, normalmente, nel caos del traffico, ti accorgi a malapena.
La prudenza gli consigliò di suonare il campanello in basso per accertarsi che l’abitazione fosse deserta. Dita sulla pulsantiera, occhio alla finestra. Suonò prima con esitazione, poi più deciso. Niente. Bene. Più facile del previsto. Con un salto, aiutato da una grata messa a protezione di un contatore dell’acqua, scavalcò il davanzale.
Dilatò le pupille per adattarle a quell’improvvisa penombra e mise a fuoco un salottino di altri tempi, molto simile a quello dei suoi nonni, con divani fiorati e stampe ingiallite alle pareti.
C’era anche lo stesso odore. L’odore delle case dei vecchi. Un’aria molle, polverosa, sospesa.
Provò un confuso, strano languore.
I nonni, a Gigi, avevano sempre voluto molto bene. Il nonno, da piccino, lo andava a prendere a scuola con l’Ape verde, che faceva un rumore allegro come le trombette della fiera, e la nonna gli faceva trovare la minestrina con i bombolotti, quelli rigati, che tanto gli piacevano.
Non ci voleva un occhio esperto per capire che lì dentro avrebbe trovato poco o nulla.
Frustrato, quasi prevedendo l’inutilità di quanto stava per fare, cominciò a muoversi nella stanza, dimentico delle regole di base: precisione, eleganza, discrezione.
Con malagrazia spostò un mobiletto basso, facendo cadere una mesta fila di elefanti di legno.
«Dottore, sono qui, dottore…»
La voce lo fece sobbalzare. Allora c’era qualcuno in casa!
«Dottore, sono qui, dottore…»
Era la voce di una vecchia, lamentosa, supplichevole.
L’istinto di sopravvivenza, la logica, gli suggeriva di tornarsene subito in strada, ma Luigi De Simone, detto semplicemente Gigi, a dispetto degli anni trascorsi in carcere per quel suo maledetto vizio di rubare, era fondamentalmente una brava persona.
«Signo’, dove siete?»
«Dottore, sono qui, dottore… nel bagno».
Era nel bagno, seduta per terra, tra il water e la vasca. La vestaglietta a fiori, sollevata sulle gambe incredibilmente bianche, così contrastanti con i calzerotti neri, scopriva una ragnatela di vene azzurre.
Si coprì pudicamente il seno con una mano. L’altra stringeva un cellulare con un numero fisso, cui, però si era dimenticata di dare l’avvio, forse perché la caduta l’aveva messa in confusione.
«Vi ho chiamato tanto… ma lei non è il dottore!»
«Signo’, sono il sostituto. Ho bussato alla porta, ma non mi avete aperto, così sono entrato dalla finestra».
Bravo Gigi, hai sempre la risposta pronta.
Dottore? Perché no? I pantaloni di tela celeste e la polo blu, pur ammosciati dal sudore, gli davano l’aria sufficientemente distinta, leggermente stropicciata, di un professionista chiamato in un giorno di festa, all’improvviso, per una visita a domicilio.
Pesava la vecchia, non lo aiutava, si lasciava andare a corpo morto.
Non doveva avere niente di rotto, se no avrebbe strillato. Lui sapeva bene, per esperienza, la differenza fra un’acciaccatura e un osso rotto.
«Ho avuto un giramento di testa e sono cascata come una scema».
Doveva assumere un’aria professionale. Suo nonno era fissato con la pressione, andava sempre a farsela misurare in farmacia.
La pressione… giusto… la pressione.
Se gli avesse chiesto di misurargliela, lui le avrebbe risposto di aver lasciato la valigetta in macchina e poi via, come una lepre.
«Non si preoccupi, deve essere la pressione… dove la devo portare, signo’?»
«Nel salotto, mi porti nel salotto».
Si lasciò cadere su una delle poltrone fiorate.
Gigi non aveva quasi più fiato e lei se ne accorse.
«Mi scusi, dottore, ma da quando mi sono rotta il femore non sono più la stessa. Prima andavo e venivo, che mi sembravo una trottola, ora mi fa fatica fare tutto».
«Non ce l’avete la badante?»
«Sì ce l’ho, ma non viene di festa. È andata dall’amante. Quella ha i figli e il marito al paese suo e si è fatta l’amante qui» scosse la testa con disappunto. «Siete sposato dottore?»
Gigi, fatto il suo dovere, aveva solo voglia di sparire il più in fretta possibile, ma la vecchia, si capiva, aveva voglia di chiacchierare. L’assecondò, tuttavia, per uscire liscio come era entrato.
«Sì. Ho pure una piccoletta, bionda, bionda, con i riccetti a cavatappi, la cocca di papà. Sta al mare con la mamma, a Fregene. Domani vado in vacanza anch’io».
Non era vero. Lui non era sposato. Già era tanto complicato vivere da solo, figuriamoci con una famiglia. Aveva pensato a sistemarsi ai tempi di Natascia, brava a letto, fissata con il matrimonio…
Squillò il cellulare e il cuore gli diede un sobbalzo.
«Ora vado, signo’…»
Lei, gli fece cenno di restare mentre rispondeva.
Non doveva allarmarla. Misurò rapidamente la distanza che lo separava dalla finestra. Pochi passi e la strada.
«Sì, sto bene… no… ora mi preparo qualcosa… il bambino che fa? Passamelo… Paolino, cuore di nonna tua, me li hai presi i pesciolini?»
Parlava, parlava, non la finiva più e Gigi stava sulle spine per timore che accennasse a lui, che, con le orecchie ritte, fingeva di guardarsi intorno con aria indifferente. Per non apparire un impiccione interessato alle conversazioni altrui, le girò le spalle, concentrandosi, prima, su un orologio di ceramica a parete, che aveva dipinte sul quadrante le quattro stagioni, poi risollevando la fila di elefanti caduti. A uno mancava una zampa, a un altro una zanna, l’ultimo aveva un bel paio di baffi disegnati sotto la proboscide, segno sicuro del passaggio di Paolino, cuore di nonna sua
.
«Ora vado, signo’…»
Sembrò ignorare la sua tensione.
«Sapete, mi avevano invitata a andare con loro. Mi sento in colpa, un po’ maleducata per non averli seguiti, ma mi è presa una strana stanchezza, ho sentito il bisogno di starmene un po’ da sola. E poi, troppo tempo in macchina, il caldo, le file, mio figlio che si spazientisce per un nonnulla… meglio sola… avete mangiato dottore?»
«No».
La prima verità da quando era entrato in quella casa.
«Volete farmi compagnia?»
Attento, Gigi, attento. Finora ti è andata bene. Non sfidare la fortuna.
«Potrebbero chiamarmi da un momento all’altro. Sapete, signo’, devo essere reperibile…»
«E se vi chiamano, voi andate… prendetevi almeno un caffè».
La vecchia si alzò tenendosi l’anca con la destra.
«Vi fa male, signo’? Avete preso una bella botta. Metteteci il ghiaccio, se no vi rimane il livido. L’importante è che non avete niente di rotto. Vi accompagno in cucina e vi lascio…»
«E se mi viene un altro mancamento? Restate ancora un po’. Giusto il tempo di buttare la pasta».
Niente. Non voleva lasciarlo andare. Guarda che ferragosto! Bloccato da una vecchia. Si rassegnò. In fondo lì stava al fresco, fuori si cuoceva.
«Come vi chiamate?»
Dio, l’intimità, qualcosa che Luigi De Simone, detto semplicemente Gigi, odiava. Ma doveva rispondere. Doveva dare un nome rispettabile, per non alimentare sospetti. Quante persone perbene aveva conosciuto? Frugò disperatamente nei meandri della memoria e poi, quasi, l’illuminazione.
Grembiuli neri con i fiocchi blu…
Un tempo lontano. Un tempo diverso.
Un tempo di corse a perdifiato in campi disseminati di piscialletto, di ostinate ortiche, di lucertole oziose, appiattite su sassi sconnessi sotto il sole di maggio. Occhi, orecchie, anima, ogni singola molecola piena del senso inesprimibile della libertà. Aria prima delle vacanze, aria di bianche cavolaie fluttuanti nel vento. All’orizzonte, nuvole vagabonde fatte di torri, castelli, draghi.
Lotte con elastiche pannocchie strappate alle rive di stagni verdolini. Profumo di pagnottelle con la mortadella da mangiare piano, piano, per farle durare di più.
Un tempo lontano. Un tempo diverso.
Grembiuli neri con i fiocchi blu…
«Guerrini Salvo… Salvatore Guerrini…»
Il nome del suo maestro delle elementari, l’unica persona rispettabile che avesse mai conosciuto.
Il maestro Guerrini, dal gilet a quadri giallo e marrone, dagli occhiali cerchiati di tartaruga, dalle risate improvvise, devastanti, come acqua che sfondi prepotente una diga, dalle lunghe gambe di airone, paziente, buono come il pane.
La vecchia sembrò allontanare dal suo volto un misterioso insetto comparso come all’improvviso dal nulla, poi, con un impercettibile sorriso, disse:
«Io mi chiamo Elisabetta».
L’orologio della chiesa batteva le quattro, quando Gigi, a stomaco pieno, uscì dalla porta di casa di Elisabetta con la raccomandazione Chiudetevi bene dentro, ché è pieno di ladri
.
In tasca aveva i venti euro, che lei gli aveva dato, per il disturbo, per ringraziarlo di averle fatto compagnia, perché ci comprasse qualcosa alla sua piccoletta bionda.
Non era stato male. Lei era stata gentile, di una gentilezza a cui non era più abituato.
Aveva mangiato seduto, finalmente, qualcosa di decente, mentre lei gli parlava del nipotino, della nuora, del figlio, delle amiche. Storie di tutti i giorni.
Anche lui aveva parlato, mischiando realtà e finzione, ripescando anche nei racconti di altri ciò che più lo aveva colpito. Era un dottore, non Gigi, che entrava e usciva da Regina Coeli, (quante volte si era fatto quei tre scalini?) e aveva recitato la sua parte da consumato attore.
Quando poi lei gli aveva offerto un liquorino fatto in casa in bicchieri piccoli, sottili, simili a bolle di sapone, si era lasciato andare e le aveva raccontato di quei bruciati pomeriggi d’estate, quando, da bambino, scappava in cerca di piume e di uova di uccelli. Una volta ne aveva trovata una tutta blu, frangiata di nero. Una piuma bellissima, che aveva barattato con sei biglie con le facce dei ciclisti…
Respirò a fondo l’aria della strada. Era di nuovo solo, libero e solo, in quel sole che continuava a battere senza pietà. Si stirò affondando le mani nelle tasche e si accorse di aver dimenticato qualcosa… lo vide: il suo vecchio telefonino sul tavolo della cucina.
A malincuore, perché già si vedeva altrove, tornò indietro.
Questa volta guardò i nomi sulla pulsantiera prima di suonare e rimase di sasso.
Guerrini Salvatore.
Dio di Dio, fra tanta gente, proprio a casa del suo vecchio maestro doveva capitare!
Lei era affacciata al davanzale.
«Dottore, avete dimenticato il cellulare. Venite qua sotto che ve lo lancio».
I piedi gli rimanevano attaccati al terreno. Si sentiva un imbecille.
«Signo’… sapevate tutto!»
Sapeva tutto e non aveva strillato, anzi gli aveva dato la frittata con le zucchine e venti euro.
«Certo che sapevo tutto, sono vecchia, ma non scema…»
Lui continuava a non capire.
«Perché…»
«Perché, perché… non potevate essere una cattiva persona se tra tanti nomi che potevate darvi avete scelto, proprio quello di mio marito… dove l’avete conosciuto?»
«Era il mio maestro alle elementari».
«Come vi chiamate davvero?»
«De Simone, Luigi De Simone».
Lei socchiuse gli occhi come per ricordare, poi sorrise, forse divertita per l’assurdità della situazione.
Sorrise e quel sorriso le cancellò le rughe e Gigi la rivide giovane.
Una giovane donna con un cappellino di paglia bianca e il carrozzino con dentro un pupetto sempre ingrugnato, nero, nero. Aspettava all’uscita il marito. Che anno era? L’anno della quinta.
«Mi ricordo di voi. Aspettavate il maestro all’uscita con il bambino… non rideva mai».
«È grande ora, fa il commercialista. Avete ragione, non rideva mai, sembrava che ci guardasse tutti dall’alto in basso… non è cambiato…»
«E il maestro?»
«È morto sei anni fa. Tranquillo, nel suo letto. La fine del giusto».
Gigi avrebbe voluto dire che gli dispiaceva, ma qualsiasi parola avesse pronunciato in quel momento sarebbe suonata falsa.
Fu lei a rompere il silenzio.
«Buona fortuna, Luigi De Simone, smettete di entrare dalle finestre».
«Certo che smetto, signo’… certo che smetto. Grazie per tutto e metteteci del ghiaccio su quella chiappa».
Lei gli strizzò l’occhio e lo salutò con la mano prima di chiudere la finestra.
Ma guarda un po’ il destino! Gigi non riusciva a capacitarsi. Se lo avesse raccontato nessuno ci avrebbe creduto.
Forse avrebbe dovuto dare veramente una svolta alla sua vita.
Aveva quarant’anni. Non pochi, ma neppure molti.
Si sentiva leggero, contento come non gli accadeva da tanto, pieno di