Fuori Portata
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Fuori Portata - Vincenzo Occhipinti
Vincenzo Occhipinti
FUORI PORTATA
Romanzo poetico
Cavinato Editore International
© Copyright 2015 Cavinato Editore International
ISBN: 978-88-6982-127-1
I edizione 2016
Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati. I diritti di traduzione, di mem-orizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi
© Cavinato Editore International
Vicolo dell’Inganno, 8 - 25122 Brescia - Italy
Q +39 030 2053593
Fax +39 030 2053493
cavinatoeditore@hotmail.com
info@cavinatoeditore.com
www.cavinatoeditore.com
Progetto grafico, impaginazione Rakesh Kumar Sharma, revisione Emanuele Lopez
Immagine di copertina: Prigionieri – 2011- di Vincenzo Occhipinti
Indice
PREFAZIONE
Prima parte - LE PIETRE
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Seconda parte - GLI ACCADIMENTI
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Terza parte - GLI ESITI
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Autore
A chi non rinuncia mai alla vita e alla gioia:
anche se mai si vide mare che non fosse tetro,
né polvere che non fosse un peso immane.
[V. Occhipinti]
O blu del mondo, o blu che tu mi hai recitato!
¹
__________________________________
¹ Paul Celan: sotto il tiro di presagi
PREFAZIONE
Si affolla la mente anche a nostra insaputa, perché non si può evitare che un cancello sia tutto vento e un fiore arrampicante lo attraversi da parte a parte per conquistarlo. Musica e stupore tra le sbarre si combinano e non si contraddicono.
E’ pur vero che le cose hanno aspetti equivoci e specifici, oltre che misteriosi e inquietanti. Agita sempre un romanzo, nato per toccare nel vivo.
Giorgio Tini è morto in un istante
è l’inizio di «FUORI PORTATA». Già questo scombussola, tira in pentola, fa sgranare gli occhi.
Un libro risponde a più necessità.
Dell'ego intricato dell’autore, sprofondato in sé, che vuole prendere respiro e sfuggire al proprio narcisismo.
Di sapere qualcosa in più dell’animo umano, scavando negli equivoci, nelle furbizie e nelle ignavie, nelle fragilità innate, nel vissuto giornaliero, riflettendo sulla storia e sul presente.
Di scoprire se si ha qualcosa d’importante da esporre, per dare un contributo che aiuti altri nella propria esistenza. E’ l’invito pressante del poeta russo Evgenij Evtusenko:
"Eventi murati dentro
gridano disperati:
siamo dimenticati noi.
Possiamo scomparire dalla storia,
facci uscire!".¹
Se schietta, se sospinta dal talento, se sostenuta e affinata da una ricerca sistematica, se obbedisce a un imperativo interiore, l’arte è il frutto di doni ricevuti da una pluralità di agenti culturali, della tradizione e della modernità, filtrati, assimilati e rielaborati in proprio. La gratuità del ricevere e del dare è sostanziale all’atto creativo, qualsiasi cosa si faccia e comunque poi vada. Così è sempre stato:
"L’uno dall’altro l’arte
ora e sempre deriva".²
Tutto si traduce in qualcosa di concreto e di vigoroso, perché innesca discussioni, altre idee, crescite culturali impreviste.
Lucio Fontana, pittore, ceramista e scultore, insegnava che non esistono limiti espressivi se vi sono esiti estetici nuovi e potenti. Tutto è dunque ammesso, anche uno squarcio sulla tela, come lui ha fatto, purché sia segno e grido di ciò che l’autore intende comunicare con efficacia. L’opera nasce perciò non pensando al testo da scrivere o al quadro da dipingere, bensì alla vita e al cosmo, a una realtà che ci supera, da cui non si può prescindere. E così partire da un ciottolo per correre nell’universo col proprio essere; afferrare un respiro, un’emozione, per spingersi nella vita umana, nel suo svolgersi drammatico e tragico. In questo aiuta la fantasia dell’autore e di chi accede all’opera per gustarla e farla propria.
La situazione storica, lo stile di vita, la capacità d’isolarsi dai frastuoni, determina il gesto dello scrivere, del dipingere, del suonare. La libertà espressiva è metodo, la bellezza è scopo. La ricerca stilistica tende a dare corpo, quindi forma, alla verità immaginata e assunta come guida.
E’ come dire: solo mentre scrivo, dipingo o scolpisco, scopro l’argomento, il soggetto, il luogo, il tempo. Questo non esclude un’intuizione, una scintilla iniziale, indicativa di un valore, di un problema, che accende la mente, scuote lo spirito, incita a creare.
Si matura cammino facendo, infatti; c’è sempre un’evoluzione in atto, una preistoria personale da superare. Per similitudine: scopro un sentiero che mi conduce nella foresta, mi guida anzi, e con stupore vedo paesaggi mai sognati prima. Non ci si arriva facilmente: occorre l’impegno, prima ancora, una sete, un desiderio, una mancanza, insomma, un’insoddisfazione.
Certe sinfonie di Ludwig van Beethoven sono la ricerca spasmodica del tema musicale da sviluppare. Avanti e indietro. Speranza e sconforto. La musica si fa ondeggiante e ripetitiva, un maroso che si abbatte su uno scoglio e si disperde in innumerevoli spruzzi. Dov’è la terra ferma su cui approdare? Trovato il tema, fine dell’opera, del viaggio.
Infatti, perso in una foresta, ogni uomo si angoscia nella ricerca di una traccia, di un senso, di un’uscita da quel mondo caotico che affascina, sì, ma può anche uccidere, nascondere precipizi. Come in una favola, trovato il viottolo, intravista una luce lontana, ci si rasserena e si riprende il respiro: ecco laggiù la propria casa, dove alfine riposare.
Un romanzo è tutto questo: foresta, paesaggio nel suo variare, un luogo in cui ricomporsi. Il mito vi gioca non poco, gli dà sapore, annoda e slega, stimola curiosità, apre prospettive. Questo è il bello e la sostanza della narrativa, quando non è cronaca, cosa già fatta, biografia di qualcuno, semplice intrattenimento.
Scrivere è in definitiva un bisogno stringente dello spirito, ma la paura di produrre un’opera inutile accompagna lo scrivente dalla prima all’ultima parola. A quest’assillo non si sfugge, pur nel piacere della narrazione, dell’intrecciare di una trama; pur nell’invenzione di personaggi sui quali si assume un potere assoluto.
Pubblicare è comunque un atto di presunzione, una responsabilità.
Per giunta, ogni arte si colora di ascetismo.
Gli artisti stanno in grotta, in cui contemplano e ascoltano, si esaminano, criticano il proprio lavoro. Emerge una contraddizione curiosa: il mistico tende a tacere, a farsi dimenticare, perché è un percettore isolato di un tutto che è materia, di una presenza altra
che lo trascende e gli comunica pienezza; lo scrittore vuole invece esprimersi e comunicare i risultati della sua ricerca, della sua passione. Vanità è però il nome del secondo aspetto, sebbene sia legittimo.
In ogni uomo, in varia misura, magari inconsci, coesistono queste tensioni, che in lui lottano perché emerga l’una a scapito dell’altra. A un certo punto, fatto il lavoro, bisogna decidere: uscire allo scoperto, con tutti i rischi del caso. Ciò non disturba, non crea sdoppiamenti nell’autore, produce anzi equilibrio, consapevolezza e pace. Rammenta però James Joyce: L’artista, come il Dio della creazione, rimane dentro o al di là o al di sopra della sua opera, invisibile, sottilizzato fino al nulla, indifferente, mentre si pareggia le unghie
³.
Scrivere è per altro un atto politico.⁴ Di più: è una condotta con implicazioni morali. E’ un osare, in ogni caso.
In vero, lo scrivente ha un proposito spesso inconfessato, addirittura inammissibile, arrogante: vuole infettare della sua stessa malattia il lettore.⁵ Non intende insegnare né informare né intrattenere. Vuole mostrare un mondo, un punto di vista, essere portatore di qualcosa che, contagiando questo e quello, si estenda il più possibile e incida nel modo di pensare e di agire altrui. Questo è il suo sogno, il suo peccato: che si veda il mondo col suo occhio! Ciò è vero anche nella stesura di un romanzo, perché è uno scavo nella vita, a volte implacabile e scandaloso, un dire non innocuo, contrastato dai potenti che lo giudicano distruttivo di un’ideologia, di un sistema, a prescindere dalla verosimiglianza degli accadimenti narrati e dei personaggi in scena.
La verosimiglianza in arte è un falso problema. Non consiste nell’obiettività della storia raccontata, nel confronto con il reale posto all’esterno del libro o dei limiti fisici di un quadro, bensì nelle verità messe in primo piano o alluse, nelle questioni che toccano nell’intimo e nel vissuto di ogni nato, nella bellezza espressa, che nutre e cambia una persona.
Chi dunque si chiude nelle proprie certezze, in un fortino costruito da sé e per sé, non è disponibile all’ascolto di altri, non legga libri esigenti, che scomodano e fanno pensare, scavalcano trincee, abbattono murate.⁶
Questo romanzo vuole perciò inoculare nel lettore un virus che gli causi febbre, gli faccia ribollire la mente e il sangue, senza però deprimerlo, anzi, dandogli l’opportunità e la gioia di conoscersi più a fondo, offrendogli passaggi poetici che lo districano dai suoi grovigli e lo rendono più vitale e libero.
Non esiste gioia, tuttavia, senza coscienza dei propri limiti, senza voglia di strapparsi maschere, bende e bavagli, togliersi i tappi dalle orecchie per ascoltare le musiche che di certo esistono.
Ogni lettore è trascinato nel racconto col suo nome, con la sensibilità che lo caratterizza; non per forza ma per scelta sua, giacché il testo insiste sul problema per eccellenza: la morte. E’ inevitabile; se ne parla:
Luigi propone di ragionare come un poliziotto a caccia di criminali, giacché ogni morte,
anche per cause naturali, ha un preciso omicida.
«Luca, vuoi metterlo in galera finalmente? Bisogna fargliela pagare, come merita.
E’ un tuo dovere professionale, una richiesta di giustizia insita nelle singole persone».
«Blateri, Luigi!».
«Smaschera l’assassino principale!».
«E chi sarebbe costui?...».
Niente paura, sebbene nessuno sappia risolvere il punto più dolente dell’umanità. Bisogna nondimeno farci i conti, con occhi e mente aperti. Il libro non è però chiuso a ipotesi di speranza. Se ne siamo consapevoli, diventiamo più saggi, più umani. Se non si capisce e non si accetta la fine della vita, infatti, non si comprendono neppure il nascere e il vivere in generale.
E’ questo il dramma esistenziale irrisolto del commissario Luca: un brav’uomo, ottimo indagatore, un tipo difficile e introverso, molto esigente con sé. La natura è spietata, non lascia scampo a nessuno. Gli uomini sono spesso crudeli e uccidono. Vale la pena di vivere? Egli è convinto che la morte vinca su tutto. Nulla si può fare per conviverci e superarla; perciò non vuole generare figli e delude la moglie. Così si vive male, tra schegge e rottami, in un groviglio di rovi, in un mondo franoso. Si vede ogni cosa con pessimismo estremo, che tarpa, umilia e nulla costruisce. Il commissario è così annichilito.
La realtà della morte, per quanto sia odiosa e distruttiva, è invece motivo di profonda pace per il collega e amico Luigi, calmo e riflessivo per scelta, sempre pronto all’azione e all’ascolto. Il mondo gli è amico.
Sono infine l’insuccesso professionale e umano, l’inutilità di molti tentativi per scovare gli assassini e metterli in galera, che provocano il ribaltamento mentale e qualitativo del responsabile della squadra mobile, il Capitano, offertosi alla causa della giustizia fin da giovane, caparbio, deciso, molto abile, autoritario e teatrale, dopo un coma per un atto violento subito, quando meno se lo aspettava. L’esperienza del dolore, il contatto con la morte e le cocenti delusioni scrostano l’ufficiale. Egli è più umano. Tutto si è capovolto: egli è finalmente appagato, nuovo nel modo di leggere il mondo e gli avvenimenti. Nessuna indagine poliziesca ormai lo interessa. La voglia di successo e il comando, infarciti di cinismo, sono ora vinti dalla poesia, dalla musica e dagli affetti.
Un duplice mistero però aleggia lungo il racconto e tutto permea di ambiguità che scombina ragionamenti e azioni. Due personaggi, infatti, sono inspiegabili, sfuggono a ogni analisi, intrigano e non risolvono ma incoraggiano con le loro stranezze, cambiano lo sguardo e il pensiero di quelli che accostano:
Un vecchio poliomielitico, bizzarro e sfuggente, col quale Luca s’imbatte sul greto del Ticino al culmine della sua crisi. Un poeta? Un saggio? Un imbroglione? Compare e scompare dalla scena. Chi è?
Una donna in età avanzata, alquanto singolare: detiene il segreto di un giallo. Una mattoide o una santa?
Vincenzo Occhipinti
____________________________________________
¹ Creazione: da Il vento di domani
.
² Bacchilide: 518 a. c.
³ James Joyce: «Ritratto dell’artista da giovane».
⁴ Jean Paul Sartre: «Che cos’è la letteratura».
⁵ Philippe Daverio: «Il secolo spezzato delle avanguardie».
⁶ Roger Garaudy: «L’alternativa – Cambiare il mondo e la vita».
Prima parte
LE PIETRE
"Sei al sicuro tu, tu sei lontano
dal dolore e così non starò ad aspettare
le tue risposte, o Angelo".²
² Josif Brodskij: Fermata nel deserto - Colloquio con un celeste.
Capitolo 1
Giorgio Tini è morto in un istante; l’altra mattina: alle otto e trenta in punto, in ufficio. Luca gli ha detto ciao. Giorgio si è voltato ed è caduto a terra con gli occhi rigirati, mentre un raggio di sole lo colpiva in fronte.
Il sacerdote adesso prega per lui. Ha in bocca anestesie e metafore, ortiche e spine. Sembra in realtà che vaneggi, benché egli voglia predire e consolare; così affonda tra le sue stesse parole e vi annaspa. Prega, ma non sa bene che cosa in sostanza affermi, né capisce perché gli astanti lo rimirino stralunati da molto lontano. Per di più, come condensare gli argomenti su un punto di sutura così inspiegabile come un cadavere, che atterrisce pur standone discosti?
Insegna il prete, incornicia l’accaduto; lo dispiega, perché tutti ne colgano i messaggi: palesi, non nascosti, da assimilare subito.
Egli vuol essere concreto, efficace, ma non si accorge che la morte è di per sé un’iperbole rivoltante, un’assurdità che offende e nasconde verità basilari, ricoprendo gli occhi di nero fumo, tappando le orecchie con bitume, sfasando la mente e il cuore con sibili di frusta. Cade perciò nell’ovvio più spicciolo e puerile, più diffuso e inammissibile.
«Gente mia» assicura lui come fosse la novità del giorno «morire è una cosa serissima! Lo capite? Lo capite bene?».
Ne dettaglia così gli aspetti di abissale scelleratezza, come può, come gli riesce, con le viscere e con la mente, ma ottiene sorrisini, rifiuti anche intenzionali benché taciuti. Il reverendo lo sa per esperienza, e, non di meno, imperterrito, sintetizza le minuzie prima sostenute: punteggia quindi qui, aggiunge là qualcosa, colorisce questa o quella parola, commenta significati. Parla infine dell’aldilà di cui è sicuro, cita la scrittura a sostegno, ammonisce e incoraggia perché si superi lo scoramento, come se nulla gli sfuggisse e tutto fosse inesorabile, prestabilito e necessario.
Oh, certo! Le riflessioni cercano vie, chiarezza, scatti dell’animo, scopi da far emergere, soggetti e predicati verbali da giustificare, complementi e punteggiature da definire secondo precise regole. Servono dunque decisioni appropriate ai dolori e allo scorrere del tempo; anche qui, sul catafalco, tra le volte della chiesa, sui diversi altari dei santi, della Madonna, tra i nembi dei putti dipinti o in marmo, per le strade del paese, sulle pareti delle case, sui tetti, sui pali e sui tralicci, sui cavi e sulle antenne, fin nel camposanto.
I cimiteri sono la comune piazza del mondo, secondo il prete, dei vivi e dei defunti. Dovunque si trovino, per quanto innumerevoli e raccapriccianti siano, essi costituiscono l’unico territorio nel quale confluire. Qui è il pozzo di caduta di ognuno, dove ci si confronta, in cui è d’obbligo incontrarsi, salutarsi, abbracciarsi, giura l’officiante, smunto in faccia, frastornato da sé con parole da capogiro. E’ appunto per la desolazione mostrata dal sepolcreto che tutto precipita nell’insipienza e nell’insicurezza più avvilente, profanando i sensi pur vigili e la tranquillità del genere umano.
Persino qui, col piede sull’orlo della fossa, il prete azzarda di tutto, suppone l’immaginabile più attraente, per dare futuro e respiro a ogni vita e cosa. «Non esiste vita senza la morte» egli sostiene, innalzando un crocefisso. Qualcuno griderà per ciascuno di noi, assicura il sacerdote: «Lazzaro, vieni fuori!».³
Il prete è afflitto. Alcune lacrime gli segnano il volto, mentre mormora: «Pure Gesù pianse sull’amico». Gesticola altresì l’uomo, senza neppure avvedersene, come a dare altro vento al turbine già in atto, dove già un soffio geme da sempre e senza motivo.
Dapprima egli si esprime con gesti brevi e calmi, poi con mosse più veloci e ampie, fino a orchestrarsi tutto, con moti incalzanti delle braccia e sussulti del corpo; quindi silenzio improvviso, occhi sbarrati, trame facciali ieratiche, bocca segnata da profonda pena, forse per mal celato sgomento, per eccesso di cuore.
E’ sincero il sacerdote. Era amico e confessore di Giorgio ma ora egli non intimidisce nessuno, né comunica speranza e la tenerezza gli sfugge di mano, perché in sé piange e tutto in lui si ribella e grida: -Era un giusto, un uomo buono!- .
Il fetore consuma intanto il defunto, lo tiene stretto nella sua caverna. Il buio è davvero il predatore da cui fuggire, fin da bambini. Ognuno sa questo, ma si dà pace, pensandosi finalmente adulto, in grado di orientarsi in ogni caso. In vero, si segue il bastone bianco dei ciechi e si tira avanti al meglio. L’indifferenza è lo scudo più efficace, la via di fuga dall’orrore per i più. Molti tuttavia s’inteneriscono, si scompongono dentro, si torcono le mani a più riprese, roteano gli occhi in cerca di un punto di riposo, che sia sostanziale e risolutivo.
Infine, ecco la definitiva benedizione della bara, per sigillare lo scomparso nell’incorruttibile dimensione dell’eternità: esattamente sopra la fossa, sotto l’ombra di alberi che affastellano parole da alcuni secoli. Gesti e volti di più generazioni, tra le antiche radici, si accavallano e si annullano. Rimane il tedio, il continuo disfacimento di sensazioni e di verità. La preghiera è il frutto magro di un terreno duro, ricco di sterpi, sassi, rovi. Un pianto continuo qui si forma e mai completamente si versa.
Eppure le goccioline di acqua benedetta, lanciate con gesti energici dall’officiante, rimbalzano festanti sul legno della cassa levigata a specchio, fremente d’immagini distorte e di riverberi in conflitto: e sono presto, ricadendo, soltanto terra bruna e vapore che si dona all’aria e al sole.
Il lessico di tutti cerca significati fuori moda e impropri suoni tra i sassolini, che ridono sarcastici nei vialetti e nella stessa buca. I conti però non tornano: poiché l’abbrivo si è spezzato e le nubi non sanno che cosa predire di speciale. L’incontinenza del cielo travolge perciò i cervelli e punzecchia le carni; infatti, travalica le tombe, le siepi, i fiori, chiunque qui si domandi come mai sia accaduto il fatto, la vita sia implosa in sé, perché la disgrazia abbia colpito proprio un galantuomo. Più di uno scuote il capo, ad altri vien da ridere. Ah come sarebbe comodo assentarsi, tamponare almeno pus e dolore, ma non vi è scampo, non solo dalla morte, altresì dalla vita che tutto pretende e poco offre.
Ognuno dei parenti, degli amici e dei colleghi, si fa ombra nel frattempo con la mano o col giornale, tiene stretto il cuore e incrocia le dita. Oggi a me, domani a te.
Così un piccolo popolo tergiversa sulle gambe, si affligge e ascolta l’officiante. Ascoltando e affliggendosi, attende il riempimento definitivo di quella raccapricciante buca. Pensa, ma non è certo che ci riesca: tutto viene in mente e fugge, per poi ritornare, mischiando ciò che di per sé è confuso e ridondante.
Per i tocchi di luna, gli sfiori di ali, chissà che si dilata e brucia sui cardi. Virulenze inaspriscono le spine già corrose dalle frenesie di api. Struggimenti e ingordigie di rugiade sulle foglie. Tramortito il sole, tramortito dai sopori. Chissà che scorre via e si vendemmia sul terreno se le rondini si disperdono all’orizzonte. Chissà che di frivolo s’imbrunisce e muore se a caso squittiscono le ombre tra i sepolcri.
Un Dio intrattabile, il vento, che disorienta e sorprende; semi però porta da altrove con muschi e licheni, terra reca dal tempo e dalla vita. Ah sì! Un lampo esiste che rigenera i giorni.
Era Giorgio, prorompe il sacerdote, un uomo che tracciava destini sulle mani. Forse era appena un feto che cercava uscite, costanza di luce e seni da cui succhiare qualcosa che della vita avesse il grido. Forse era invece soltanto una voce che dei suoni conosce il ferire e lo strepito che spaventa. Così il prete cita Giovanni il Battista, poiché questi annunciava, sterrava, colmava, falciava, soprattutto parlava di miele e di cagli, come poteva, come gli riusciva, anche a costo di morirne. Giorgio era a lui simile nella fede convinta e nei comportamenti urticanti, ma, come Giovanni, "non era la luce".⁴
«Giorgio la sa lunga» sentenzia il prete, asciugandosi la fronte. «Più di tutti noi messi assieme. Oramai egli è un ferro battuto su incudine rovente, inciso e scalfito da incomparabili fiotti di luce. Oramai è un ossido assiderato da sguardi eterni. Sa però che il sapere suo folle è il grido di monte che attendeva».
A tema il silenzio. Ora. In questo luogo, dove sfere si dilatano e si restringono. Lo sanno bene il sole e le cose, ciò che germina e si sviluppa nella spontanea loquacità dell’esistenza.
Ne coglie il limpido pulsare chi non è astioso, non vile, si cede all’arcano e vi s’immerge come un bimbo. Ma il silenzio è terrificante se si ascolta con gli occhi in fossa e magari a mani giunte.
Ognuno è adesso un’incognita penetrata di soppiatto nell’intelletto proprio, similmente a un’ape nel favo, in cui nacque, il cui miele è da rinnovare. L’uomo è l’ics di tutte le equazioni, il centro della realtà.
Giorgio è davvero morto in un istante. L’ics di tutte le equazioni è dunque in tempesta e diviene polvere da depositare dappertutto.
E’ per questo motivo che l’uomo zampilla da sé: si spinge così verso l’infinito, connesso ai fatti in ogni modo avvenuti nelle varie epoche, sollecitato all’oltranza dei tempi futuri, teso all’ottimo dei pensieri e del cosmo, al peggio della storia e dei veleni.
E’ già soluzione Giorgio Tini? Di ogni uomo?
Il sacerdote, al momento, dichiara il dichiarabile dei testi sacri; ma non sa nulla di preciso pur non ammettendolo, e neppure giura, né mente, né fugge. Soltanto spera, soltanto chiede, cita, ripete, e propone punti di fuga possibili. Astrattezze seccano le labbra, cingono le fronti, corrugano i visi, giudicano e inveiscono.
3 Gv. 11, 43
4 Gv. 1,8
Capitolo 2
Il commissario Luca Sirtillo si tormenta.
-Allora, Giorgio, che cosa mi replichi? Bizzarra situazione: sono al tuo funerale come un babbeo. Vai per la tua strada. Non so che altro dirti. Oramai tu sei troppo serio e freddo per me. Non ti comprendo più. Lasciami dunque stare. Ho indossato il vestito migliore per te, ma farò del mio meglio per dimenticarti. Addio. Non turbarmi più con la tua presenza muta. Vai. Ti supplico. Se ti fosse possibile, però, prega per tutti noi, che ora, con rispettosi saluti, ti abbandoniamo nella fossa per ritornare nella città illusa e demente. Tu ci fai comprendere che noi sappiamo soltanto morire: soli, uno dopo l’altro. L’uomo non sa risorgere, né vi è pietà in lui ma commozione. Di Dio sono la pietà e la vita. Di Dio soltanto, caro amico. Scopro così che tu mi sei di esempio. Cantavi. Facevi bene le tue cose. Ti bastava poco per vivere a dovere. Ora però tu mi rivolgi certi discorsi col