Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

La vita è come una piuma
La vita è come una piuma
La vita è come una piuma
Ebook472 pages6 hours

La vita è come una piuma

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Un romanzo di riflessione sociale, dove Carmela, una giovane donna dell'entroterra siciliano, si fa interprete delle contraddizioni di un'epoca, quella del dopoguerra, per giungere ai giorni nostri. Una società contadina, legata indissolubilmente alle proprie tradizioni e regole, in conflitto con l'emancipazione e con la crescita economica, fa da sfondo al romanzo, toccando temi quali il fenomeno dell'emigrazione, la condizione femminile, il lavoro minorile ed i diritti fondamentali dell'uomo, rispetto della propria dignità, diritto allo studio ed al lavoro.
LanguageItaliano
Release dateJan 18, 2016
ISBN9788869630637
La vita è come una piuma

Related to La vita è come una piuma

Related ebooks

Performing Arts For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for La vita è come una piuma

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    La vita è come una piuma - Anna Maria Ruotolo Perrone

    Anna Maria Ruotolo Perrone

    LA VITA

    È

    COME

    UNA PIUMA

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2015 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    Via Milano 44

    73051 Novoli (LE)

    ISBN 9788869630637

    Dedico il mio libro a mio marito Mario, che da cinquant’anni, con sincero amore, mi ha dato il sostegno e la fiducia in tutto ciò che faccio. Ai miei genitori, Giovanni e Bianca, che mi hanno insegnato il valore della vita ed il rispetto dei sentimenti umani.

    Ai miei tre meravigliosi figli, Tiziana, Roberto e Claudia, che mi ammirano e mi spronano affinché io possa raggiungere la vetta più alta dei miei desideri.

    1975

    Sicilia

    1

    Era la Vigilia di Natale del 24 dicembre 1975 e in un antico paesino della Sicilia, situato su una collina a 450 metri sul livello del mare nei pressi di Nicosia, la gente dormiva ancora. Ma nel silenzio della notte, pur mantenendo le finestre chiuse, si udiva fin dentro le case ogni rumore.

    Quella mattina nei vicoli si sentivano passare dei carretti pieni di frutta e verdura, trainati da asini, muli o vecchi cavalli stanchi e malati.

    Erano i contadini che andavano in piazza per allestire il mercato, mentre altri, invece, si recavano nei paesi vicini per vendere la loro merce.

    Sebbene durante la settimana avesse piovuto, inondando le strade e la piazza, il giorno precedente la pioggia era cessata. Il cielo stellato sembrava come una grande cupola forata con dei puntini luminosi. La luna faceva capolino dietro la montagna. Era una notte bellissima, ma faceva molto freddo.

    Ogni tanto si sentiva l’abbaiare di un cane. Il canto del gallo che annunciava un nuovo giorno.

    Il cigolio delle ruote di un carro trainato dal cavallo fece svegliare Carmela di soprassalto. I raggi della luce del lampione stradale filtravano tenui attraverso i vetri del balcone, illuminando fievolmente la camera da letto.

    Carmela sollevò la testa dal cuscino. Benché ancora buio, credette che fosse già mattino. Poi pensò che i contadini Avessero rinunciato a dormire nei loro letti, perché dovevano recarsi al mercato prima dell’alba, per preparare sui banchetti la loro merce da vendere.

    Ancora frastornata dal brusco risveglio, prese l’orologio che si trovava sul comodino. Guardò l’ora, le lancette segnavano le quattro meno un quarto.

    «È troppo presto per svegliare Peppe. È meglio che riposi ancora un po’. Semmai lo sveglierò verso le sei. Povero ragazzo!» Pensò Carmela, mentre riponeva l’orologio sul comodino. Però, chissà se per nostalgia o per vecchio ricordo, improvvisamente le venne in mente quando anche lei e la sua famiglia il ventiquattro dicembre andavano tutti al mercato a vendere i prodotti che coltivavano nei loro campi. La madre la svegliava prima dell’alba. Ad un’età in cui tutti i bambini giocavano spensierati e felici, per Carmela ed i suoi cinque fratelli non era lo stesso.

    I genitori erano contadini ed i figli, anche se piccoli, dovevano lavorare presso i padroni, come gli adulti, per guadagnare qualche soldo in più. D’estate si andava tutti in campagna, compresi i nonni. D’inverno, invece, anche se pioveva o nevicava, i nonni e la madre restavano a casa. Carmela e tre dei suoi fratelli uscivano per accompagnare il padre al mercato, mentre gli altri due erano dai loro padroni.

    Ogni mattina, tutta la famiglia si alzava verso le tre. La bacinella d’acqua fredda era già pronta. A turno, si lavavano solo il viso.

    La domenica mattina era una gran festa. Si svegliavano alle sette. La tinozza, che durante la settimana era stata usata per il bucato, veniva riempita con l’acqua riscaldata sulla legna del camino, così tutti si potevano fare il bagno. La prima era Carmela, un po’ privilegiata perché femmina, poi nella stessa acqua si lavavano i fratelli. Tutti dovevano usare il sapone del bucato.

    Il paese dove abitavano era molto piccolo. La maggior parte degli abitanti erano contadini, che, per poter vendere la loro merce, erano costretti ad andare ogni mattina in paesi diversi, che spesso si trovavano molto distanti dalle loro case.

    Carmela abitava con i suoi genitori ed i nonni in una casa colonica a due piani, situata un po’ fuori dal centro del paese. Accanto alla casa c’era la stalla per il bestiame e un casotto dove si metteva il carretto e si conservavano la frutta e la verdura.

    Prima di andare al mercato, mentre suo padre sellava il cavallo, lei ed i fratelli caricavano il carretto con tutto ciò che avrebbero potuto vendere quel giorno.

    La mamma o la nonna preparavano per tutti del pane e formaggio e una bottiglia di vino, che sarebbe stato bevuto solamente dal padre e dal fratello maggiore. Per tutta la giornata fino al loro ritorno a casa quello era l’unico pasto di cui disponevano.

    La sera tornavano stanchi, affamati ed infreddoliti. Se aveva piovuto o nevicato, i loro vestiti erano impregnati d’acqua. Sul carretto non c’era nessuna tenda dove avrebbero potuto ripararsi.

    Appena giunti in casa, in fretta i ragazzi indossavano gli indumenti asciutti, perché sulla tavola c’era già pronta la zuppa, fumante e saporita, preparata dalla mamma o dalla nonna.

    Dopo aver gustato quel delizioso pasto, ed essersi finalmente rifocillati, prima di andare a dormire, Carmela ricordava con nostalgia quando con il suo fratellino Giovanni si raccoglieva accanto al fuoco del caminetto e la nonna gli raccontava le bellissime favole, mentre i fratelli maggiori uscivano per andare in piazza ad incontrare i loro coetanei.

    Il padre ed il nonno, Antonino, accanto al tavolo tra un bicchiere di vino e l’altro fumavano la pipa o il sigaro, discutevano ad alta voce sia di politica, che della precaria situazione finanziaria della loro famiglia.

    La mamma si sedeva in un angolo accanto al camino e rammendava qualche giacca o calzino che si era appena rotto.

    Il diversivo di Carmela era recarsi assieme alla nonna o alla madre al lavatoio pubblico o vicino al ruscello, per lavare i panni. Là incontrava tante ragazze, con le quali, tra un lenzuolo e l’altro, potevano ridere, cantare le canzoni più note e, soprattutto, parlare dei loro sogni. Tutte aspettavano, come nelle favole, il principe azzurro su un cavallo bianco che le avrebbe portate in un castello fatato.

    Al ritorno a casa lei si sentiva più felice e leggera, come un uccello che volava verso il paese dei sogni.

    Da adolescente, come ogni ragazza della sua età, desiderava un bel vestito o delle scarpe moderne. La madre, una volta l’anno, a Natale o a Pasqua, andava al mercato, le comprava della stoffa e le cuciva la gonna, che era sempre con un elastico in vita. A Pasqua le comprava un paio di scarpe, quasi sempre fuori moda. In campagna indossava gli scarponi o gli stivali del fratello.

    Che strano! Seppure allora avesse desiderato tante cose mai avute, improvvisamente provava una grande nostalgia del periodo della sua infanzia.

    Carmela ricordava vividamente che, ogni qualvolta uno dei fratelli chiedeva dei soldi per comprarsi una camicia o dei pantaloni nuovi, le grida che il padre, seduto a tavola prima di mangiare, rivolgeva con aggressività a tutta la famiglia.

    «Noi siamo una famiglia povera. Ringraziate Dio che mi dà la forza di lavorare. Non capisco di cosa vi lamentiate. Ogni giorno avete una zuppa calda da mangiare ed anche il pane fresco. Noi, durante la guerra abbiamo sofferto la fame. Dovevamo accontentarci di riuscire a mangiare qualche volta le patate con un poco d’erba che trovavamo nei campi. Da vestire ci mettevamo le camice ed i pantaloni già usati più volte. Ricordo di un cappotto molto pesante di mio nonno, che era già stato messo dai miei fratelli più grandi, poi lo diedero a me. Lo dovetti portare ancora per molto tempo, fino a quando mia madre non riuscì più a rattoppare i buchi. Adesso la nuova generazione vuole tutto e non è mai contenta. Voi figli non siete riconoscenti per tutti i sacrifici che facciamo noi genitori, perciò non voglio più sentirvi chiedermi i soldi per le vostre stupidaggini. Poi, quando vi formerete una famiglia, allora potrete comprarvi tutto quello che vorrete. Ma fino a quando resterete a casa mia, farete quello che io dico.»

    Il nonno Antonino approvava ciò che suo figlio, Domenico diceva.

    Spesso ricordava il comportamento dell’altro figlio, Casimiro. Il quale era partito per l’America, senza farvi più ritorno.

    In casa si doveva risparmiare su tutto. La cucina, abbastanza grande, era l’unico ambiente dove si riuniva ogni giorno tutta la famiglia.

    Dal soffitto scendeva un filo elettrico alla cui estremità c’era un piatto di metallo bianco e blu con una lampadina da 25 watt. La sua luce era così fioca, che molte volte non si riusciva a vedere neppure il viso di una persona o ciò che si aveva nel piatto.

    D’inverno, quando pioveva, la corrente elettrica andava via. La nonna accendeva l’unico lume a petrolio che avevano in casa, per illuminare solo la cucina. Le candele non si compravano perché costavano molto.

    Ogni camera da letto aveva una fioca lampadina ma durante i temporali rimanevano al buio fin quando non tornava di nuovo la corrente elettrica.

    In casa l’argomento soldi, non si doveva mai menzionare. Per i ragazzi era insopportabile quella vita di sacrifici e privazioni, senza un soldo di cui disporre e con un padre tanto tiranno. Infatti, i due figli maggiori di don Domenico non appena ebbero la cartolina per andare a fare il soldato, subito si precipitarono al distretto ma, purtroppo, vennero riformati.

    Allora decisero di partire assieme ad altri loro compaesani per il Belgio, preferendo lavorare in una miniera di carbone, dove avrebbero avuto senz’altro più libertà e disponibilità di denaro.

    2

    Carmela era molto adirata. Il rumore del carretto aveva interrotto il suo sonno. Salvatore era stato molto agitato. Si era lamentato nel sonno e si era scoperto continuamente. La sera gli aveva dato un cucchiaio di sciroppo. Ma la febbre era sempre molto alta. Durante la notte si era dovuta svegliare più volte. Per non fargli aumentare la febbre, era andata in cucina a sbucciare delle patate. Poi, avvolte in un panno, gliele aveva messe sulla fronte. Era un metodo antico. Lo facevano anche la mamma e la nonna quando lei, da bambina, aveva la febbre alta.

    Controllò, poggiando il palmo della mano sulla fronte di Salvatore, ma subito la ritrasse, perché notò che scottava ancora. Era disperata. Non sapeva più che cosa fare affinché suo figlio potesse guarire al più presto. Lei gli aveva dato tutte le medicine che il dottore aveva prescritto. Lui le aveva assicurato che il bambino non era affetto da una malattia grave, ma da tonsillite. Però sarebbe dovuta stare attenta alle correnti d’aria, perché, con gli sbalzi di temperatura, da tonsillite poteva divenire polmonite.

    Le raccomandò di tenerlo a letto ben caldo. La febbre doveva calare gradualmente. Se avesse preso regolarmente l’antibiotico, sarebbe guarito in tre o quattro giorni. Comunque, anche se la febbre fosse calata, il bambino non sarebbe potuto uscire di casa per almeno una settimana.

    Carmela si ricordò le parole di sua nonna che spesso diceva: «ogni malattia deve durare nove giorni: tre giorni per nascere, tre giorni per crescere e tre giorni per morire. Però, una buona madre deve stare attenta alla coda, perché è più pericolosa della malattia».

    Da ragazzina quelle parole della nonna lei non le capiva, ma ora si rendeva conto del vero significato.

    «Allora il dottore ha ragione – pensò Carmela – Sono passati appena due giorni da quando Salvatore ha avuto la febbre, dobbiamo aspettare ancora qualche giorno ed il mio piccolino guarirà. Farò tutto ciò che il medico mi ha consigliato».

    Nella camera faceva molto freddo. Sul letto c’erano due coperte pesanti, ma ugualmente, le lenzuola erano gelate. Aveva lasciato la stufetta accesa tutto il pomeriggio, poi l’aveva spenta prima di andare a letto. Il suo timore era, che durante la notte, nel buio, l’avrebbe potuta urtare, facendola cadere.

    La resistenza accesa, senza alcuno schermo, avrebbe potuto incendiare la casa, come già era successo ad una sua vicina. Salvatore, che le dormiva accanto, aveva il corpicino molto caldo per la febbre alta, mentre le manine ed i piedini erano un po’ freddi. Gli si avvicinò per fargli sentire più calore ma lui la respinse, spostandosi verso la sponda del letto. Lei cercò di non svegliarlo, lasciandolo dove era. Lo coprì con un altro lembo di coperta.

    Sollevò la testa e diede un’occhiata a Mariuccia. La ragazza dormiva su una brandina ai piedi del letto. Per fortuna non si era svegliata. Lei si girò sul lato destro e cercò di riprendere sonno. Purtroppo, non ci riuscì.

    Troppi ricordi le balenavano nella mente. Alcuni ricordi cercò di cancellarli. Ma altri le ronzavano nella mente. Le venne un forte mal di testa. Sembrava come se un trapano le stesse trapanando le tempie. Si voltò di nuovo verso il bambino. Lentamente si avvicinò a lui e notò che la febbre alta lo faceva respirare affannosamente. Gli pose la mano sui capelli e gli accarezzò i riccioli biondi.

    «Madonna mia! Perché lo hai fatto ammalare proprio quando lui era così felice? Ogni giorno, dopo la scuola, da circa due mesi rinunciava a giocare e, qualche volta, saltava anche il pasto, per recarsi in chiesa insieme ad altri bambini, per imparare la canzoncina da cantare per la notte di Natale. Ho dovuto risparmiare dei soldi, sottraendoli alla mia famiglia, per comprargli il vestitino nuovo. E invece, adesso, tutto è svanito».

    Carmela avrebbe voluto gridare per far sentire tutto il suo dolore, ma non poteva. Guardò l’immagine della Madonna Immacolata che era sul comò accanto alle altre fotografie.

    «Maria Immacolata, solo tu mi puoi capire. Troppi dolori mi hanno colpito. Hanno distrutto la mia vita e quella della mia famiglia. Che cosa ho fatto per subire tante mortificazioni? Ho sempre creduto di essere stata una buona moglie ed una buona madre. Ho lavorato tutta la mia vita per far felici gli altri. Ma ora sono stanca. Ho perso la fiducia in me stessa. Non so più quale sarà il futuro dei miei figli. Ti prego! Solo tu mi puoi aiutare! Dammi la forza di andare avanti. Non farmi incontrare altri ostacoli che potrebbero distruggere la mia famiglia. Stammi sempre vicino. Non lasciarmi sola. Ti prego! Dammi un po’ di serenità».

    Alle ragazze del sud, sin da bambine, vengono inculcati da nonne e mamme, il peccato mortale e la devozione verso la Madonna, la quale, con il dolore del Figlio morto sulla Croce, rappresenta la Madre Suprema.

    Carmela, per l’educazione cattolica ricevuta, parlava molto spesso con l’immagine della Madonna Immacolata. Spesso e in varie occasioni si era rivolta a Lei, come se fosse stata la sua migliore confidente. Dopo provava interiormente una grande pace e serenità. Quasi fosse un incoraggiamento che le alleviava il proprio dolore.

    Aveva il viso bagnato dalle lacrime. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Alzo la testa dal cuscino e diede un’occhiata verso il balcone. Fuori era ancora buio. Una fitta pioggia batteva sui vetri. Sulla strada bagnata si sentiva il calpestio dei cavalli che trainavano i carretti. Poche ore prima il cielo brillava di stelle. Il vento aveva coperto il cielo di nuvole. Poi, improvvisamente, era iniziato a piovere. Alcune passanti imprecarono contro il tempo.

    Nel silenzio della notte dalla camera da letto si distingueva nitidamente qualsiasi rumore o voce proveniente dai vicoli stretti. Carmela cercò di ascoltare i loro discorsi.

    Parlavano ad alta voce. Una di loro disse: «Chissà se la pioggia domani mattina lascerà spazio al sole.». Un’altra le rispose:

    «Vedrai! Come due anni fa, che alla Vigilia di Natale nevicava».

    «No. Non credo. Non fa così freddo da venire la neve. Donna Rosalia mi ha detto…» Non terminò la frase. Qualcuno le chiamò da lontano.

    La pioggia diventò più intensa. Si udirono dei passi veloci, forse le donne andarono a ripararsi da qualche parte.

    Carmela si era divertita ad ascoltare la conversazione di quelle donne. Le venne spontaneo sorridere. Pensava che la pioggia avesse interrotto i loro discorsi. Erano le cinque ed il sonno le era ormai passato. Avrebbe preferito alzarsi. Ma in cucina c’era Peppe che dormiva su una brandina. Già durante la notte, quando era entrata in cucina, il ragazzo dormiva tranquillamente. Per non svegliarlo, aveva dovuto sbucciare al buio le patate per la fronte di Salvatore.

    Fu forse per la stanchezza fisica e mentale che si riaddormentò senza nemmeno accorgersene.

    3

    Mariuccia si svegliò. Guardò l’orologio che si trovava sul comò. Mancavano cinque minuti alle sei. Un cane abbaiava in lontananza. Si udì il richiamo di un uomo, seguito da altri latrati. Dalla strada arrivavano delle voci.

    Lei si meravigliò che sua madre dormisse ancora. Anzi, si spaventò. Normalmente era sempre lei che a quell’ora si trovava già in cucina a preparare il latte per Peppe. La ragazza pensò che anche la mamma si fosse ammalata. Si alzò e, senza nemmeno mettersi i calzini, si avvicinò al letto dove dormiva la madre con il fratellino. Sorrise nel vederli abbracciati. Si tranquillizzò. Tutti e due dormivano profondamente.

    Si vestì in fretta. In punta di piedi uscì dalla camera da letto. Chiuse la porta senza far rumore.

    In cucina Peppe dormiva ancora. Si avvicinò al suo letto e lo scosse per un braccio, cercando di svegliarlo. Dovette chiamarlo più volte a bassa voce.

    «Peppe! Peppe, alzati! Lo sai che ora è?» Il ragazzo, piuttosto infastidito ed intorpidito dal sonno, aprì gli occhi. Con molto stupore, guardò sua sorella, come se avesse visto un estraneo.

    «Cosa vuoi? Perché mi svegli? Dov’è mamma?» Prima che la sorella gli rispondesse, lui si sedette sul letto e gridando chiese: «Si è ammalata anche lei?»

    «Ssssssst. Sei scemo ad alzare così la voce? Vuoi svegliarla? Mamma sta bene. Sta dormendo. Stanotte si è dovuta alzare più volte a causa di Salvatore.»

    «Perché? Salvatore ha la febbre? Li ho visti che dormivano abbracciati. Povera mamma! La febbre è ancora molto alta?»

    «Non lo so. Ma penso che lo sia stata. Ora riposa.» Mariuccia andò verso il fornello a gas e lo accese. Dal mobiletto prese una bottiglia di latte, ne versò un po’ in un pentolino. Lo poggiò sulla fiammella. Riempì una pentola d’acqua fredda e accese un altro fornello, per farla riscaldare.

    «Su, alzati! Chiudi la brandina e mettila nello stanzino. Tra un minuto il latte sarà pronto. Adesso vado a prenderti una camicia pulita in camera da letto. Però, ti raccomando, non fare troppo rumore.»

    Peppe restò in silenzio. Si alzò dal letto. Piegò le lenzuola. Cercò di chiudere la brandina, senza fare alcun rumore. La poggiò vicino alla porta d’ingresso. Mariuccia entrò in cucina. Sulla sedia poggiò la camicia di flanella, un paio di calzini ed un paio di mutandine. Prese l’acqua calda dal fornello e la versò nel lavello.

    «Lavati prima che l’acqua si raffreddi. Vestiti! Ti ho preparato il latte. Prendi dalla credenza una fettina di pane.» Il ragazzo si mise a torso nudo. Si lavò il viso e le mani e si asciugò con un vecchio asciugamano che la sorella gli aveva preparato vicino al lavello. In un angolo, un po’ nascosto, indossò le mutandine ed i calzoni. Si vestì in fretta. La tazza di latte era già pronta sul tavolo di cucina. Lui la prese ma dopo un paio di sorsi la poggiò nuovamente sul tavolo. Mariuccia lo vide, scrollò la testa e disse: «No, no. Tu berrai tutto il latte e dopo andrai a lavorare».

    «Ma io non ho tempo. Poi, tu lo sai, Vincenzo mi dà sempre un cornetto ed il cappuccino. Ma adesso questo latte non mi va».

    Prima che la sorella potesse risponderli, lui cercò di distrarla cambiando discorso: «Ti piace il presepe che ho fatto?

    Hai visto com'è più bello con le luci? Cosa ha detto la tua amica, le è piaciuto?»

    «Sì. Ha detto che sei un vero maestro. È più bello dell’anno scorso. A casa sua nessuno lo sa fare così bello». Entrambi si avvicinarono al presepe e lo guardarono con ammirazione. La cucina era abbastanza grande. Il presepe era in un angolo, poggiato su un tavolo. Peppe quest’anno lo aveva ingrandito. Gli aveva messo delle nuove casette con le luci interne. Al mercato aveva comprato degli altri pastori.

    In ogni famiglia, nell’Italia del sud il presepe non era solo una vecchia tradizione che si tramandava da generazioni, esso consisteva infatti nella stessa festa religiosa, perché ricordava la nascita di Gesù. Ogni anno si cercava di rinnovarlo, rendendolo sempre più grande, aggiungendovi più sughero e carta colorata.

    Nei piccoli paesi ammirare il presepe del vicino di casa era anche un pretesto per poter far visita ad un parente o amico. Si offriva un caffè o un bicchierino di rosolio. Si scambiava qualche pettegolezzo su l’una o l’altra famiglia. Ma era anche un motivo per tenere insieme un contatto umano.

    Il sette gennaio, dopo l’arrivo dei tre Re Magi, il presepe si smontava. Le statuine di terracotta, per non farle rompere, si conservavano in un cartone con la paglia. Ogni primo di dicembre per i ragazzi era una gran festa. Si riprendevano i cartoni conservati il precedente gennaio. Si scartavano le statuine di terracotta e con il sughero si preparava il presepe che ogni anno doveva essere sempre più grande.

    Peppe era orgoglioso di mostrare alla sorella dove venivano messi i vari pastori. Quando era piccolo, il presepe lo costruiva il padre. Da alcuni anni lo costruiva insieme al fratellino.

    Con ansia aspettava che lei gli facesse di nuovo i complimenti ma Mariuccia si allontanò. Mentre riordinava i piatti nella credenza, disse: «Ah! Ho dimenticato di dirti che ieri è venuta Giuseppina a portarmi il giornaletto che le avevo prestato. Sai, quella ragazza che ha sempre qualcosa da criticare, appena ha visto il nostro presepe è rimasta sbalordita. Mi ha detto di farti i complimenti, perché tu sei un ragazzo straordinario».

    Peppe nel sentire quelle parole arrossì. Giuseppina andava spesso al bar. Un giorno gli aveva detto davanti a tutti che era un bel ragazzo e che, se fosse stato più grande, lo avrebbe sposato.

    In paese Giuseppina era molto criticata. La chiamavano la civetta. Le mamme proibivano ai figli di frequentarla. Giuseppina viveva in casa degli zii sin dall’età di dieci anni. Il padre, dopo la morte improvvisa della moglie, l’aveva lasciata presso di loro. Un giorno improvvisamente partì e nessuno seppe mai dove fosse andato. Giuseppina aveva un carattere ribelle. Ormai, lei era maggiorenne e si sentiva libera di fare tutto ciò che voleva della propria vita. All’età di sedici anni partì per Roma per assistere una donna anziana, ma dopo un anno la donna morì e lei dovette ritornare a casa.

    Gli zii erano troppo anziani e malati. In campagna non potevano più lavorare. Furono costretti a vendere una parte dei fondi ed il bestiame. Vivevano con una modesta pensione e qualche soldo ricavato dalla vendita dei terreni. Avevano la casa di proprietà e un piccolo orto vicino alla casa, che il marito coltivava.

    I loro quattro figli nel 1956 emigrarono in Germania. Tutti e quattro furono assunti dalla VW di Wolsburg. Si erano sposati ed avevano avuto dei figli. Si erano inseriti molto bene nel campo lavorativo. Ognuno di loro aveva acquistato una casetta che si trovava a circa dodici chilometri da Wolsburg. Per la loro posizione, lavorativa e finanziaria non sarebbero più ritornati nel loro paese a lavorare in campagna.

    Quasi ogni anno, in estate o a Natale, i quattro fratelli si alternavano, tornando al paese per trascorrere le vacanze con i genitori. I loro figli, purtroppo, non potevano comunicare con i nonni perché parlavano solamente la lingua tedesca.

    L’estate precedente il cugino di Giuseppina, Cosimo, era venuto al paese con la sua famiglia. Prima di partire aveva promesso a Giuseppina che le avrebbe trovato un lavoro in Germania e le avrebbe inviato i soldi per comprare il biglietto del viaggio. La ragazza era molto delusa, ogni mattina aspettava il postino, sperando di ricevere posta dalla Germania. Ma il cugino non scriveva né telefonava.

    Giuseppina era troppo giovane per restare a casa degli zii. Il nonno negli ultimi mesi si era aggravato ed aveva bisogno di molta assistenza. La ragazza si era confidata con Mariuccia. Le aveva detto chiaramente di essersi stancata di fare la serva agli zii, volendo crearsi una famiglia come tutte le altre ragazze, e che un giorno sarebbe partita per Palermo e non sarebbe più ritornata in quel misero paese. Mariuccia si commosse. Pensava che la sua amica fosse stata molto sfortunata. Non aveva mai avuto una madre con cui poter parlare e starle vicina.

    «Perché hai fatto salire quella in casa nostra?» Disse Peppe piuttosto adirato verso la sorella. Poi, continuò: «Tu lo sai: mamma non vuole che tu sia amica di Giuseppina.»

    «Anche tu cominci a parlare come una pettegola donnicciola? Ma qui in paese nessuno capisce che Giuseppina è sola e molto infelice?»

    «Ah scusami! Va bene! Fai come vuoi!»

    Dal finestrino che dava sul ballatoio un lampo illuminò la cucina. Mariuccia si spaventò e si nascose dietro il fratello. «Ma smettila! Il fulmine non può entrare qui dentro. E…» Mentre Peppe stava per finire la frase, si udì il fragore del tuono.

    «Madonna Mia! Speriamo che mamma non si sia svegliata.». Mariuccia andò verso la camera da letto, accostò l’orecchio alla porta, ma non sentì alcun rumore. «Stanno dormendo?» domandò Peppe, sottovoce.

    «Sì. Credo di sì.»

    «Ieri sera mamma mi ha detto che Salvatore metterà il Bambino Gesù nella capanna. E sì, io sono d’accordo. Lui è il più piccolo e poi è anche malato». Benché Peppe avesse solo dodici anni, alcune volte sembrava come se si sentisse l’uomo di casa.

    Salvatore era coccolato dai fratelli. Il giorno in cui Salvatore nacque, Mariuccia lo aveva stretto fra le sue braccia e lo aveva accudito come se fosse stato suo figlio.

    «Su. Adesso devo proprio andare. Speriamo che non piova troppo, altrimenti mi faccio un bagno.» Mentre stava per aprire la porta d’ingresso, si voltò verso la sorella. «Allora, ciao! Dà un bacio per me a mamma e a Salvatore».

    Aveva ancora la mano sulla maniglia della porta, quando la sorella lo chiamò: «Aspetta! Dove vai? Tu devi mettere la brandina nello stanzino».

    Il ragazzo prese la brandina, Mariuccia lo seguì sul ballatoio. Aprì lo stanzino, poggiò la brandina al muro e la richiuse in fretta. Peppe si precipitò verso le scale. Aveva raggiunto il terzo gradino, si voltò verso la sorella e le disse:

    «Ah! Ho dimenticato di dire a mamma che stasera verrò a casa più tardi. Qui in paese è arrivata tanta gente dall’estero. Ho molte consegne da fare. Però vi porterò una bella cassata siciliana e qualche buon dolcino per Salvatore. Me l’ha promesso zio Vincenzo, il mio padrone. Allora, ciao eh!»

    Mariuccia rientrò infreddolita in cucina. Chiuse la porta d’ingresso. Sentì i passi del fratello. Correva sulla strada per andare in piazza dove c’era il bar. Il proprietario del bar, Vincenzo, era un cugino di Carmela, figlio dello zio Calogero e della zia Rosalia, figlia di don Domenico.

    Calogero, come altri giovani, all’epoca della sua gioventù era stato attratto dal sogno americano. Solo successivamente si rese conto, per le vicissitudini occorsegli nella vita, che il sogno americano era molto diverso dalla realtà.

    4

    Quasi tutti i piccoli paesi, non solo nell’entroterra della Sicilia ma anche in altre regioni dell’Italia meridionale, furono costruiti ed abitati da vari popoli venuti da oriente e occidente. Nel passaggio delle varie dominazioni i paesini venivano distrutti e di nuovo ricostruiti secondo le esigenze degli abitanti. Molti di questi piccoli centri urbani si somigliavano fra loro, sia per il materiale usato che per le caratteristiche architettoniche, nei vari periodici storici.

    Dai monti alle valli le case erano costruite l’una accanto all’altra, forse anche per motivi di difesa, in tufo o in pietra dura, formando delle ripide salite e delle strette stradine. Inizialmente erano state costruite su un unico piano ma, successivamente, alcune rialzarono il piano superiore con accesso da scala esterna in gradini di pietra dura.

    Il piano terra era composto da una grande stanza senza finestre e vi si entrava direttamente dalla strada. C’era sempre un camino a legna che serviva non solamente per riscaldarsi ma anche per cucinare. C’erano uno o due letti matrimoniali, dove dormivano almeno quattro persone per letto. Dal soffitto scendevano delle corde per appendere la culletta di vimini del bambino, che vi avrebbe dormito fino all’età di tre anni. In un angolo c’era un secchio, che veniva svuotato ogni mattina da un carretto trainato da un asino, che lo raccoglieva e lo portava in campagna per concimare. In un mobile rustico veniva riposta la biancheria ed i vestiti. Frapposto ai letti c’era anche un tavolo con le sedie, per mangiare.

    In estate le donne anziane si sedevano fuori dall’uscio, per godersi l’aria e scaldarsi ai raggi del sole. Lavoravano all’uncinetto o rammendavano la biancheria della famiglia ed accanto a loro tenevano un bambino in un cesto che veniva dondolato con il piede.

    Le case, che disponevano di un primo piano, avevano la porta d’ingresso che si trovava su un ballatoio. C’erano due camere intercomunicanti. Si entrava direttamente in cucina, che aveva un vasto ambiente ed era ammobiliata da un tavolo con le sedie, ed una credenza sulla parete destra, vicino al fornello a legna. I piatti si lavavano in una grande bacinella. Non c’era un lavello con i rubinetti, perché in casa non giungeva l’acqua potabile. Quasi ogni mattina le donne dovevano recarsi in piazza, alla fontana pubblica, per prendere l’acqua con delle grosse giare di terracotta. La maggior parte di esse andava volentieri alla fontana.

    Incontravano le loro compaesane con le quali talvolta discutevano. Spesso quello si rivelava un luogo dove spettegolare. S’informavano delle ultime notizie del paese. Su ciò che era avvenuto nelle varie famiglie.

    Nell’altra stanza, di minori dimensioni, c’erano due letti matrimoniali, in cui, se la famiglia era numerosa, vi dormivano, cinque o sei figli ed alcuni di loro con i genitori. Aveva quasi sempre un balcone che si affacciava sulla strada. Il gabinetto era costituito da un secchio con il coperchio, che veniva custodito nello stanzino sul ballatoio. Nello stesso stanzino vi si conservavano i legumi secchi e qualche salame o prosciutto.

    Al pianterreno c’era la stalla. La sera vi si lasciava il cavallo o l’asino con il carrettino. In un angolo c’erano le pecore e qualche vacca.

    Il clima mediterraneo era caldo e umido. Distese di terre incolte ed erba alta erano gli enormi pascoli di pecore o buoi che vi brucavano l’erba fresca. Tanto in autunno che in primavera si sentiva nell’aria il profumo dei fiori d’arancio e limone. La natura, il clima salubre, la spensieratezza e tanta gioia di vivere potrebbero sembrare elementi di un paese fantasmagorico. Sembrerebbe assurdo ed inimmaginabile che dietro questo angolo di paradiso, vi potessero essere problemi o tragedie familiari. Invece la realtà era completamente diversa. Forse il mondo là cominciava e là finiva.

    In ogni paesino c’era sempre una piazza con una chiesa con il campanile alto ed imponente. Alcune di esse erano in stile romanico ed altre gotiche o barocche, costruite per conto ed a spese di un duca o di un principe.

    La chiesa era il punto di riferimento religioso. Il sacerdote incuteva rispetto e fiducia. Egli era il confidente di tutti, al quale ci si poteva rivolgere, senza alcuna reticenza, per raccontare buoni o cattivi, segreti che ognuno aveva.

    Non c’era una persona in paese, sia anziana che giovane, che il sacerdote non conoscesse. A Pasqua benediva le loro case, i loro animali e i loro campi. Se egli era anziano, li aveva visti nascere, li aveva battezzati, li aveva sposati e li aveva accompagnati verso l’ultimo viaggio della loro vita.

    Il povero prete combatteva tra la parola del Signore e la superstizione e l’ignoranza che rodeva l’animo dei suoi parrocchiani. Nel periodo borbonico ai figli dei contadini era proibito frequentare la scuola. I nobili temevano che la scuola avrebbe sviluppato loro l’intelligenza, facendoli scaltrire.

    Nel mondo contadino non vi furono mai cambiamenti, né con l’Unità d’Italia, né con l’insediamento del re Vittorio Emanuele. Alcuni non si erano neppure accorti che i Borboni non c’erano più. Né un re che si chiamava Vittorio Emanuele.

    La miseria del meridione italiano aveva una lunga storia. La questione meridionale si rilevò con aspetti tragici subito dopo l’Unità d’Italia, allorché apparvero nette le differenze il sud ed il nord. Da Firenze in su, c’erano paesi e città ben dotate di strade, infrastrutture e vasti complessi industriali.

    Dalla Lombardia al Trentino Alto Adige durante il periodo di dominio austriaco-ungarico, gli italiani del settentrione avevano potuto frequentare la scuola. I giovani avevano imparato un mestiere o una professione.

    Mentre il meridione, avvilito da secolare povertà, escluso dall’Europa, privo di industrie e con una popolazione contadina analfabeta, non c’era lavoro in grado da sfamare troppe bocche. Non c’erano fabbriche che potessero offrire lavoro. Da

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1