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Audio antologia della Letteratura Italiana (Volume I, dal 1200 al 1700) (Audio-eBook)
Audio antologia della Letteratura Italiana (Volume I, dal 1200 al 1700) (Audio-eBook)
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Audio antologia della Letteratura Italiana (Volume I, dal 1200 al 1700) (Audio-eBook)

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L'Audio Antologia della Letteratura Italiana in Audio-eBook è strumento didattico eccezionale per tutti gli studenti italiani e per gli stranieri che desiderano approfondire la storia della lingua letteraria del Bel Paese! I brani dei più conosciuti e studiati scrittori italiani possono essere ascoltati in sincronia con i testi che sono evidenziati automaticamente, ordinati per periodo storico e facilmente rintracciabii con un solo click. Le audio-letture, realizzate da narratori esperti, sono fruibili su tutti i dispositivi attualmente disponibili. In questo primo volume troverete le opere di Alighieri, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto fino agli illuministi del XVIII secolo. Ben 42 autori per 90 brani di grande letteratura!
Questo Audio-eBook è nel formato EPUB 3 che ha funzioni molto importanti per la didattica, soprattutto l'evidenziazione del testo scritto che viene contemporaneamente ascoltato, migliorando così l'apprendimento linguistico, emotivo ed empatico attraverso la Lettura+Ascolto di libri e audiolibri.

Per fruire al meglio di questo Audio-eBook da leggere e ascoltare in sincronia leggi la pagina d'aiuto a questo link:
https://help.streetlib.com/hc/it/articles/211787685-Come-leggere-gli-audio-ebook
LanguageItaliano
PublisherIl Narratore
Release dateAug 10, 2015
ISBN9788868161835
Audio antologia della Letteratura Italiana (Volume I, dal 1200 al 1700) (Audio-eBook)

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    Audio antologia della Letteratura Italiana (Volume I, dal 1200 al 1700) (Audio-eBook) - AA. VV.

    il Narratore audiolibri

    presenta

    Audio Antologia

    della

    Letteratura Italiana

    Volume I

    (dal 1200 al 1700)

    A cura di

    Maurizio Falghera

    Una produzione il Narratore audiolibri

    Zovencedo, Italia, 2015


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    Presentazione del secolo XIII

    [Lettura di Eugenio Farn]

    Dal punto di vista letterario il Basso Medioevo si caratterizza per la nascita delle letterature in lingue moderne. Il primo fenomeno di grande rilievo riguarda la Francia, dove si sviluppano quasi contemporaneamente due diversi filoni letterari: quello legato alle canzoni di gesta che esprimono una concezione della vita severamente religiosa e rispecchiano la mentalità dell’aristocrazia guerriera, e quello legato alla cultura ‘cortese’ che si manifesta nelle liriche d’amore dei provenzali e nei romanzi cavallereschi di Chrétien de Troyes.

    Con la crisi della cultura provenzale l’Italia raggiunge la piena maturità letteraria alla fine del Duecento con l’opera degli stilnovisti e di Dante Alighieri. Alla distinzione, tipica dell’Alto Medioevo tra il latino lingua scritta, conosciuta solo da pochi, e i volgari lingue parlate, subentrò, tra il Duecento e il Trecento, la distinzione, che attraverso tutta la storia d’Italia giungerà fino al nostro secolo, tra una lingua italiana d’uso colto e una varietà ricchissima di idiomi regionali e dialettali espressione di una tradizione non colta e popolare.

    Un volgare italiano letterario maturò dunque a partire dalla metà del Duecento. Si cominciò in diverse parti della penisola a comporre testi letterari nei volgari delle diverse regioni, le scuole poetiche principali – la prosa in volgare sarà più tarda – di questo periodo sono la scuola siciliana, quella toscana, quella di argomento religioso che si sviluppò in Umbria e quella didattico-religiosa dell’Italia settentrionale. Ma fu in Toscana che si affermò una lingua capace di proporsi come modello per una lingua nazionale. Ciò si dovette a numerose circostanze: l’importanza economica che aveva Firenze tra i comuni italiani, il fatto che il toscano, più di altri volgari, assomigliava al latino, il fatto, infine, che in toscano, tra il Duecento e il Trecento, si espressero i letterati maggiori della penisola: Dante, Petrarca e Boccaccio.

    Fino a Dante il volgare rimase la lingua dei generi letterari considerati minori: la poesia d’amore, le opere di divulgazione religiosa e morale. Il latino era invece la lingua del trattato scientifico; per gli scrittori la scelta della lingua era dunque di volta in volta indicata dal genere letterario che intendevano praticare, dal tipo di lettore a cui si rivolgevano e dallo scopo che l’opera si prefiggeva.

    Il punto d’arrivo dello sviluppo della lingua italiana e delle discussioni sulla lingua che corrono lungo tutto il Duecento è rappresentato da Dante.

    All’inizio del Trecento nel De vulgari eloquentia il poeta fiorentino cerca di formulare sia una dottrina della lingua sia una teoria degli stili poetici. A quell’epoca la produzione in versi in volgare italiano durava ormai da quasi un secolo e Dante poteva comporre una storia della poesia italiana precisandone la distribuzione geografica e la cronologia, dai lirici siciliani fino a quelli toscani. Proponendo il proprio modello, bello e nobile, di volgare poetico, Dante riprende questa esigenza di eleganza e di omogeneizzazione della lingua per ridurne le incertezze grammaticali e lessicali. Con l’affermazione della sua proposta la nostra lingua sarà fissata in un modello strettamente letterario, anzi poetico, che sarà accettato fino ai secoli più recenti.


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    Francesco D’Assisi

    [1182–1226]

    Cantico di Frate Sole o Cantico delle Creature

    [Lettura di Raimondo Moncada]

    Altissimu, onnipotente bon Signore,

    tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

    Ad te solo, Altissimo, se konfano,

    et nullu homo ène dignu te mentovare.

    Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,

    spetialmente messòr lo frate Sole,

    lo qual è iorno, et allùmini noi per lui.

    Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:

    de te, Altissimo, porta significatione.

    Laudato si’, mi’ Signore, per sòra Luna e le Stelle:

    in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

    Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento

    et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,

    per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

    Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua.

    la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

    Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,

    per lo quale ennallumini la nocte:

    ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

    Laudato si’, mi’ Signore, per sòra nostra matre Terra,

    la quale ne sustenta et governa,

    et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

    Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore

    et sostengo infirmitate et tribulatione.

    Beati quelli ke ’l sosterrano in pace,

    ka da te, Altissimo, sirano incoronati!

    Laudato si’, mi’ Signore, per sòra nostra Morte corporale,

    da la quale nullu homo vivente pò scappare:

    guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;

    beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,

    ka la morte secunda no ‘l farrà male.

    Laudate et benedicéte mi’ Signore et rengratiate

    e serviateli cum grande humilitate.


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    Cielo D’Alcamo

    [?–XIII sec.]

    Contrasto

    [Lettura di Moro Silo]

    "Rosa fresca aulentissima ch’ apari inver’ la state

    le donne ti disiano pulzell’ e maritate:

    tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate;

    per te non ajo abento notte e dia,

    penzando pur di voi, madonna mia."

    "Se di meve trabàgliti follia lo ti fa fare.

    Lo mar potresti arompere, a venti asemenare

    l’abére d’esto secolo tutto quanto asembrare:

    avere me non pòteri a esto monno;

    avanti li cavelli m’aritonno."

    "Se li cavelli artonniti, avanti foss’io morto,

    ca’n issi sì mi pèrdera lo solaccio e ’l diporto.

    Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto,

    bono conforto donimi tuttore:

    poniamo che s’ajunga il nostro amore."

    "Ke ’l nostro amore ajùngasi, non boglio m’atalenti:

    se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti.

    guarda non t’arigolgano questi forti correnti.

    Como ti seppe bona la venuta,

    consiglio che ti guardi a la partuta."

    "Se i tuoi parenti tròvanmi, e che mi pozzon fare?

    Una difensa mèttoci di dumili’ agostari,

    non mi toccara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.

    Viva lo ’mperadore, grazi’ a Deo!

    Intendi, bella, quel che ti dico eo?"

    "Tu me no lasci vivere né sera né maitino.

    Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino.

    Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino

    e per ajunta quant’ha lo soldano

    toccare me non pòteri a la mano."

    "Molte sono le femine c’hanno dura la testa,

    e l’omo con parabole l’adìmina e amonesta:

    tanto intorno procàzzala fin che l’ha in sua podesta.

    Femina d’omo non si può tenere:

    guàrdati, bella, pur de ripentere."

    "K’eo ne pur ripentésseme? davanti foss’io aucisa

    ca nulla bona femina per me fosse ripresa!

    Aersera passàstici, correnno a la distesa.

    Aquìstati riposa, canzoneri:

    le tue parole a me non piaccion gueri."

    "Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core,

    e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!

    Femina d’esto secolo tanto non amai ancore

    quant’amo teve, rosa invidïata:

    ben credo che mi fosti distinata."

    "Se distinata fòsseti, caderia de l’altezze

    ché male messe fòrano in teve mie bellezze.

    Se tutto adivenìssemi, tagliàrami le trezze

    e consore m’arenno a una magione

    avanti che m’artocchi ’n la persone."

    "Se tu consore arènneti, donna col viso cleri

    a lo mostero vènoci e rènnomi confleri:

    per tanta prova vencerti fàralo volonteri.

    Conteco stao la sera e lo maitino:

    besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino."

    "Boimè tapina misera, com’ao reo distinato!

    Geso Cristo l’altissimo del tutto m’è airato:

    concepìstimi a abàttare in omo blestiemato.

    Cerca la terra ch’este granne assai,

    chiù bella donna di me troverai."

    "Cercat’ajo Calabria, Toscana e Lombardia,

    Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,

    Lamagna e Babilonia e tutta Barberia:

    donna non ci trovai tanto cortese,

    per che sovrana di meve te prese."

    "Poi tanto trabagliàstiti, faccioti meo pregheri

    che tu vadi adomànnimi a mia mare e a mon peri.

    Se dare mi ti degnano menami a lo mosteri

    e sposami davanti da la jente;

    e poi farò le tuo comannamente."

    "Di ciò che dici, vìtama, niente non ti bale,

    ca de lo tuo parabole fatto n’ho ponti e scale.

    Penne penzasti mettere, sonti cadute l’ale;

    e dato t’ajo la bolta sottana.

    Dunque, se poti, tèniti villana."

    "En paura non mettermi di nullo manganiello:

    istòmi ’n esta grorïa d’este forte castiello;

    prezzo le tuo parabole meno che d’un zitello.

    Se tu no levi e va’tine di quaci,

    se tu ci fosse morto, ben mi chiaci."

    "Dunque vorresti vìtama, ca per te fosse strutto?

    Se morto essere débboci od intagliato tutto,

    di quaci non mi mòssera se non aj’ de lo frutto

    lo quale stäo ne lo tuo jardino:

    disïolo la sera e lo maitino."

    "Di quel frutto non àbbero conti né cabalieri;

    molto lo disïarono marchesi e justizieri,

    avere no’nde pòttero: gìro ’nde molto feri.

    Intendi bene ciò che bolio dire?

    Men’este di mill’onze lo tuo abere."

    "Molti so’ li garofani, ma non che salma ’nd’ài:

    bella, non dispregiàremi s’avanti non m’assai.

    Se vento è in proda e gìrasi e giungeti a le prai,

    arimembrare t’ao este parole,

    ca dentr’a ’sta animella assai me dole."

    "Macara se dolésseti che cadesse angosciato:

    la gente ci corressoro da traverso e da lato;

    tutt’a meve dicessono: ’Acorri esto malnato!’

    Non ti degnara porgere la mano

    Per quanto avere ha ’l papa e lo soldano."

    "Deo lo volesse, vìtama, te fosse morto in casa!

    L’arma n’anderia cònsola, ca dì e notte pantasa.

    La jente ti chiamàrano: ’Oi perjura malvasa,

    c’ha ‘ morto l’omo in càsata, traìta!’

    Sanz’onni colpo lèvimi la vita."

    "Se tu no levi e va’tine co la maladizione,

    li frati miei ti trovano dentro chissa magione.

    […] be lo mi soffero pèrdici la persone.

    Ca meve se’ venuto a sormontare;

    parente néd amico non t’ha aitare."

    "A meve non aìtano amici né parenti:

    istrani mi so’, càrama, enfra esta bona jente.

    Or fa un anno, vìtama, che ‘ntrara mi se’ ‘n mente.

    Di canno ti vististi lo maiuto,

    bella, da quello jorno so’ feruto."

    "Di tanno ‘namoràstiti, tu Iuda lo traìto,

    come se fosse porpore, iscarlato o sciamito?

    S’a le Vangele jùrimi che mi si’ a marito,

    avere me non pòter’a esto monno:

    avanti in mare jìttomi al perfonno."

    "Se tu nel mare gìttiti, donna cortese e fina,

    dereto mi ti mìsera per tutta la marina,

    e da poi c’anegàsseti, trobàrati a la rena

    solo per questa cosa adimpretare:

    conteco m’ajo aggiungere a peccare."

    "Segnomi in Patre e ‘n Filio ed in santo Matteo:

    so ca non se’ tu retico o figlio di giudeo,

    e cotale parabole non udi’ dire anch’eo.

    Morta si è la femina a lo ‘ntutto,

    pèrdeci lo saboro e lo disdotto."

    "Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare.

    Se quisso non arcòmplimi, làssone cantare.

    Fallo, mia donna, plàzzati, ché bene lo puoi fare.

    Ancora tu no m’ami, ma molto t’amo,

    sì m’hai preso come lo pesce a l’amo."

    "Sazzo che m’ami, e àmoti di core paladino.

    Lèvati suso e vatene, tornaci a lo matino.

    Se ciò che dico fàcemi, di bon cor t’amo e fino.

    Quisso t’adimprometto sanza faglia:

    te’ la mia fede che m’hai in tua baglia."

    "Per zo che dici, càrama, neiente non mi movo.

    Innanti prenni e scannami: tolli esto cortel novo.

    Esto fatto fa pòtesi inanti scalfi un uovo.

    Arcompli mi’ talento, amica bella,

    ché l’arma co lo core mi si ‘nfella."

    "Ben sazzo, l’arma dòleti, com’omo ch’ave arsura.

    Esto fatto non pòtesi per null’altra misura:

    se non ha’ le Vangelïe che mo ti dico ‘Jura’,

    avere me non puoi in tua podesta;

    inanti prenni e tagliami la testa."

    "Le Vangelïe, càrama? Ch’io le porto in seno:

    a lo mostero présile (non ci era lo patrino).

    Sovr’esto libro jùroti mai non ti vegno meno.

    Arcompli mi’ talento in caritate,

    ché l’arma me ne sta in suttilitate."

    "Meo sire, poi juràstimi, eo tutta quanta incenno.

    Sono alla tua presenzïa, da voi non mi difenno.

    S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno.

    A lo letto me gimo e la bon’ora,

    ché chissa cosa n’è data in ventura."


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    Guido Guinizzelli

    [1235–1276]

    da Il Canzoniere

    Al cor gentil rempaira sempre amore

    [Lettura di Moro Silo]

    Al cor gentil rempaira sempre amore,

    come l’ausello in selva a la verdura,

    né fe’ amor anti che gentil core,

    né gentil core anti ch’amor, natura:

    ch’adesso con’ fu ‘l sole,

    sì tosto lo splendore fu lucente,

    né fu davanti ‘l sole;

    e prende amore in gentilezza loco

    così propïamente

    come calore in clarità di foco.

    Foco d’amore in gentil cor s’aprende

    come vertute in petra prezïosa,

    che da la stella valor no i discende

    anti che ‘l sol la faccia gentil cosa;

    poi che n’ha tratto fòre

    per sua forza lo sol ciò che li è vile,

    stella li dà valore:

    così lo cor ch’è fatto da natura

    asletto pur, gentile,

    donna a guisa di stella lo ‘nnamora.

    Amor per tal ragion sta ‘n cor gentile

    per qual lo foco in cima del doplero:

    splendeli al su’ diletto, clar, sottile;

    no li stari’ altra guisa, tant’è fero.

    Così prava natura

    recontra amor come fa l’aigua il foco

    caldo, per la freddura.

    Amore in gentil cor prende rivera

    per suo consimel loco

    com’ adamàs del ferro in la minera.

    Fere lo sol lo fango tutto ‘l giorno:

    vile reman, né ‘l sol perde calore;

    dis’omo altér: Gentil per sclatta torno;

    lui semblo al fango, al sol gentil valore:

    ché non dé dar om fé

    che gentilezza sia fòr di coraggio

    in degnità d’ere’

    sed a vertute non ha gentil core,

    com’aigua porta raggio,

    e ‘l ciel riten le stelle e lo splendore.

    Splende ‘n la ‘ntelligenzïa del cielo

    Deo crïator più che ‘n nostr’occhi il sole:

    ella intende suo fattor oltra ‘l cielo,

    e ‘l ciel volgiando, a Lui obedir tole;

    e con’ segue, al primero,

    del giusto Deo beato compimento,

    così dar dovria, al vero,

    la bella donna, poi che ‘n gli occhi splende

    del suo gentil, talento

    che mai di lei obedir non si disprende.

    Donna, Deo mi dirà: Che presomisti?,

    sïando l’alma mia a lui davanti.

    "Lo ciel passasti e ‘nfin a Me venisti

    e desti in vano amor Me per semblanti:

    ch’a Me conven le laude

    e a la reina del regname degno,

    per cui cessa onne fraude."

    Dir Li porò: "Tenne d’angel sembianza

    che fosse del Tuo regno;

    non me fu fallo, s’in lei posi amanza".


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    Guido Guinizzelli

    [1235–1276]

    da Il Canzoniere

    Io vogl’ del ver la mia donna laudare

    [Lettura di Moro Silo]

    Io vogl’ del ver la mia donna laudare

    ed asembrarli la rosa e lo giglio:

    più che stella diana splende e pare,

    e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

    Verde river’ a lei rasembro e l’are,

    tutti color di fior’, giano e vermiglio,

    oro ed azzurro e ricche gioi per dare:

    medesmo Amor per lei rafina meglio.

    Passa per via adorna, e sì gentile

    ch’abassa orgoglio a cui dona salute,

    e fa ‘l de nostra fé se non la crede;

    e no ‘lle pò apressare om che sia vile;

    ancor ve dirò c’ha maggior vertute:

    null’om pò mal pensar fin che la vede.


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    Jacopone da Todi

    [1233 ca.–1306]

    da Le Laude

    Contrasto – Quando t’aliegre, omo d’altura

    [Lettura di Moro Silo]

    Quando t’aliegre, omo d’altura

    va’ puni mente a la seppultura;

    e loco puni lo to contemplare,

    e ppensate bene che tu di’ tornare

    en quella forma che tu vidi stare

    l’omo che iace en la fossa scura.

    – Or me respundi, tu, om seppellito,

    che cusì ratto d’esto monno èi ‘scito:

    o’ so’ li be’ panni de que eri vestito,

    cà ornato te veio de molta bruttura? –

    – O frate meo, non me rampugnare,

    cà ‘l fatto meo te pòte iovare!

    Poi che parenti me fero spogliare,

    de vil celizio me dèr copretura. –

    – Or ov’è ‘l capo cusì pettenato?

    Con cui t’aregnasti, che ‘l t’à sì pelato?

    Fo acqua bullita, che ‘l t’à sì calvato?

    Non te ci à opporto più spicciatura! –

    – Questo meo capo, ch’e’ abi sì biondo,

    cadut’è la carne e la danza dentorno:

    no’l me pensava, quanno era nel mondo!

    Cantanno, ad rota facìa saltatura! –

    – Or o’ so’ l’occhi cusì depurati?

    For de lor loco sì se so’ iettati;

    credo che vermi li ss’ò manecati,

    del tuo regoglio non n’àber pagura. –

    – Perduti m’ò l’occhi, con que già peccanno,

    aguardanno a la gente, con issi accennando.

    Oi me dolente, or so’ nel malanno,

    cà ‘l corpo è vorato e l’alma è ‘n ardura. –

    – Or uv’è lo naso, c’avì’ pro odorare?

    Quigna enfertate el n’à fatto cascare?

    Non t’èi potuto da vermi adiutare,

    molt’è abassata esta tua grossura. –

    – Questo meo naso, c’abi pro oddore,

    caduto m’ène en multo fetore;

    nol el me pensava quann’era enn

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