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Versi Aurei
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Versi Aurei

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Salvatore Fazìa, i cui libri hanno l’inconfondibile copertina blu “sporcata” di rosso, regala un’altra pubblicazione intrigante e complessa, intitolata “Versi aurei”, il cui sottotitolo “rive e derive pitagoriche” fa già intuire che le pagine sono dedicate al filosofo matematico di Samo. Naturalmente Pitagora è un nome ben conosciuto, generalmente associato alle tabelline della famosa “tavola pitagorica” che un tempo si trovava nel retro copertina dei quaderni a quadretti, e al teorema sul triangolo rettangolo. Fazìa, forse anche per rendere più facilmente accessibile il suo scritto, non si sottrae a questa descrizione semplicistica del grande filosofo, anche se lo fa a modo suo: nella prima parte il concetto della “tavola pitagorica” viene declinato in una serie di brevi riflessioni scritte “al quadrato”, cioè in blocchi di parole in cui giustezza e altezza sono uguali. Quadrati che hanno lati lunghi tanto da prendere quasi tutta la larghezza della pagina, altri piccolissimi, formati dall’incrocio di due o tre parole anagrammate fra loro. Un esercizio di stile che già visivamente è intrigante, e che poi alla lettura offre diversi spunti di riflessione. La seconda parte, più tradizionale, è uno studio su Pitagora e i pitagorici, e in particolare sulla scuola di Crotone, a proposito della quale viene anche riportata una tesi di laurea. Corredata da immagini dei luoghi e da disegni che illustrano i teoremi matematici, è una ricerca interessante e molto ricca. Una ricerca che nasce dal web, e l’autore lo lascia tranquillamente intendere, ma non si limita al banale “copia e incolla” da wikipedia o altre fonti: c’è sempre un tocco personale, un modo che definiamo “artistico” di collegare gli argomenti e che di per sé potrebbe essere un manuale dell’uso corretto e ragionato di Internet.
LanguageItaliano
Release dateOct 14, 2014
ISBN9788884497130
Versi Aurei

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    Versi Aurei - Salvatore Fazìa

    (Nietzsche)

    INTRODUZIONE

    "Afferma Alessandro nelle Successioni dei filosofi di aver trovato in certe Memorie pitagoriche queste dottrine, insieme ad altro. Principio primo di tutte le cose è la Monade; dalla Monade deriva la Diade indeterminata, la quale soggiace, quasi fosse sostanza materiale, alla Monade, che ne è la causa; dalla Monade e dalla Diade indeterminata derivano i numeri; dai numeri i punti; da questi le linee, e da queste le figure piane; dalle figure piane le solide; da queste quindi i corpi sensibili, i cui elementi sono quattro (fuoco, acqua, terra, aria), che mutano e si trasformano totalmente l’uno nell’altro. E dagli elementi nasce il cosmo, che è animato, dotato di intelletto, sferico e contiene al centro la terra, anch’essa sferica e abitata… Il sole, la luna e gli altri astri sono divinità, perché in essi prevale il caldo che è causa di vita. La luna è illuminata dal sole. Tra dei e uomini vi è parentela, perché l’uomo partecipa del caldo; e per questo la divinità provvede a noi. Il fato è causa dell’ordine che regge il tutto e le sue parti. Dal sole si diffonde un raggio che attraversa tanto l’etere freddo quanto l’etere denso – chiamano etere freddo l’aria, etere denso il mare e tutto ciò che è umido. Questo raggio penetra fin negli abissi marini e perciò vivifica ogni cosa. Tutto quanto partecipa del caldo vive, ed è per questo che anche le piante sono essi viventi: peraltro non tutti gli esseri viventi possiedono un’anima. L’anima è un frammento di etere… essa è immortale, perché anche ciò da cui si è distaccata è immortale. Gli esseri animati si generano gli uni dagli altri per mezzo di semi, ed è impossibile la generazione spontanea dalla terra. Il seme è una stilla di cervello che contiene in sé un’esalazione calda; quando viene introdotta nella matrice, la materia encefalica emette siero, umore e sangue, da cui si formano le carni, i nervi, le ossa, i peli e il corpo nel suo insieme, mentre l’esalazione emette anima e sensibilità. L’embrione prende forma in quaranta giorni, poi secondo i rapporti armonici giunge al suo compimento in sette o nove o al massimo dieci mesi e viene partorito il bambino; questi ha in se stesso tutti i rapporti numerici della vita, i quali lo tengono insieme connettendosi tra di loro secondo rapporti armonici, ognuno di essi venendo a determinarsi al momento stabilito. La sensazione in genere, e in particolare la vista, è una sorta di esalazione molto calda ed è per via di questa – sostiene il nostro autore - che vediamo attraverso l’aria e attraverso l’acqua; infatti il caldo trova resistenza nel freddo. Se in effetti fosse fredda l’esalazione negli occhi, non ci sarebbe differenziazione rispetto all’aria esterna,che in questo caso risulterebbe di natura consimile all’esalazione stessa; ora però ci sono dei punti in cui il nostro autore chiama gli occhi «porte del sole». Quanto poi all’anima dell’uomo, questa si trova ad essere divisa in tre parti, mente (nous), intelletto (phrenes) e animo passionale (thimos). Ora, la mente e l’animo passionale sono anche in tutti gli esseri viventi, ma l’intelletto solo nell’uomo. Il dominio dell’anima si estende dal cuore fino al cervello; e la parte di essa che è nel cuore è l’animo passionale, mentre le parti che hanno sede nel cervello sono la mente e l’intelletto. Le sensazioni sono stille che emanano da queste parti. La ragione (phronimon) è immortale, mentre le altre due parti dell’anima sono mortali. L’anima è alimentata dal sangue; le facoltà dell’anima sono soffi di vento. L’anima e le sue facoltà sono invisibili, perché anche l’etere è invisibile. I legami dell’anima sono le vene, le arterie e i nervi; ma quando prende vigore e, isolatasi in se stessa, si trova in uno stato di quiete, allora, i suoi legami sono i pensieri e le azioni. Quando l’anima si trova ad essere sbalzata sulla terra, vaga nell’aria, consimile al corpo. Ermes è il ministro delle anime e per questo è detto Accompagnatore, Custode e Conio, perché avvia le anime fuori dai corpi, che provengono sia dalla terra che dal mare; e le anime pure sono condotte nel più alto dei luoghi celesti, mentre le impure non si avvicinano le une alle altre, né si accostano alle pure, ma vengono legate dalle Erinni in vincoli indistruttibili. Tutta l’aria è piena di anime, ed esse sono ritenute demoni ed eroi, dai quali i sogni, i segni e le malattie sono inviati agli uomini, e non solo ad essi, ma anche alle greggi e a tutte le altre bestie. Per i demoni e agli eroi si praticano le cerimonie di purificazione, i riti apotropaici, ogni specie di divinazione, i presagi e simili. La cosa più importante, tra quante sono date agli uomini – afferma il nostro autore – è persuadere l’anima al bene piuttosto che al male… La virtù è armonia, e così la salute, ogni bene e la divinità: perciò anche l’universo è costruito secondo armonia. Anche l’amicizia è uguaglianza armonica…  

    Pitagora morì in questo modo. Mentre lui e i suoi tenevano una riunione nell’abitazione dell’atleta Milone, capitò che uno di quelli che non erano ritenuti degni di essere ammessi al sodalizio, per invidia, appiccò il fuoco all’abitazione – peraltro alcuni affermano che siano stati i Crotoniati stessi, nel timore di un tentativo di stabilire una tirannide -. Pitagora dunque fu preso mentre fuggiva: giunto a un campo pieno di fave, pur di non attraversarlo si arrestò, proclamando che era meglio essere catturato piuttosto che calpestarle e preferiva farsi uccidere, piuttosto che parlare; così fu sgozzato dai suoi inseguitori".

    Diogene Laerzio

    Dιογένης Λαέρτιος

    Βίοι καὶ γνῶμαι τῶν ἐν φιλοσοφίᾳ εὐδοκιμησάντων

    [ed. H. S. Long, Oxford 1964]

    Βιβλίον Η’

    ΠΥΘΑΓΟΡΑΣ

    1 Ἐπειδὴ δὲ τὴν Ἰωνικὴν φιλοσοφίαν τὴν ἀπὸ Θαλοῦ καὶ τοὺς

    ἐν ταύτῃ διαγενομένους ἄνδρας ἀξιολόγους διεληλύθαμεν, φέρε

    καὶ περὶ τῆς Ἰταλικῆς διαλάβωμεν, ἧς ἦρξε Πυθαγόρας Μνησάρ-

    χου δακτυλιογλύφου ὥς φησιν Ἕρμιππος (FHG iii. 41), Σάμιος,

    ἢ ὡς Ἀριστόξενος (Wehrli ii, fg. 11a) Τυρρηνός, ἀπὸ μιᾶς τῶν

    νήσων ἃς ἔσχον Ἀθηναῖοι Τυρρηνοὺς ἐκβαλόντες. ἔνιοι δ’ υἱὸν μὲν

    εἶναι Μαρμάκου τοῦ Ἱππάσου τοῦ Εὐθύφρονος τοῦ Κλεωνύμου

    φυγάδος ἐκ Φλιοῦντος, οἰκεῖν δ’ ἐν Σάμῳ τὸν Μάρμακον, ὅθεν

    PITAGORA

    … Conclusa la trattazione della filosofia ionica - che prese avvìo da Talete - e dei suoi esponenti di rilievo, passiamo ora a trattare la filosofia italica. Il primo esponente ne fu Pitagora, figlio di Mnesarco, un incisore di pietre per anelli. A dire di Ermippo Pitagora era di Samo, secondo Aristosseno era invece un Tirreno originario di una delle isole occupate dagli Ateniesi dopo averne cacciato appunto i Tirreni. Taluni peraltro sostengono fosse figlio di Marmaco, a sua volta figlio di Ippaso figlio di Eutifrone figlio di Cleonimo, un fuoriuscito da Fliunte; Marmaco - a quanto dicono – viveva a Samo e per questo motivo Pitagora fu detto Samio…

    Diogene Laerzio è stato uno storico greco vissuto sotto l’Impero Romano. La sua opera Vite dei filosofi è una delle fonti principali sulla storia della filosofia greca. Data di nascita: 200 d.C. Data di morte: 250 d.C. Libri: Etica stoica, Vite e dottrine dei più celebri filosofi

    PREFAZIONE

    Ognuno di questi quadrati è costruito su un lato della vita, quelli piccoli o medi su un lato piccolo o medio, quelli piccolissimi o quelli più grandi su un lato piccolissimo o più grande, e ciò in rapporto a come il quadrato, che ne rappresenta la figura, sta nello spazio dell’essere, nel quale la vita e la sua interpretazione, la storia o l’esperienza vissuta, si sono svolte, dato, che dove il vivere si svolge, è lo spazio bianco dell’essere che si apre, ed è sul bianco del foglio che si inscrive tutto quello che esiste. Accade che la quantità fisica del quadrato, la sua quantistica, è proporzionale alla quantità simbolica del testo, ora più semplice, ora più carica e complicata. E’ il caso mettiamo del testo più piccolo di tutti come quello costituito della sola lettera O al centro della pagina, viene mantenuta nel suo proprio somatismo rotondo e maiuscolo della lettera, per ragioni di lealtà: in fondo questa O dovrebbe rappresentare il senso di una voce che significasse il punto di uno spartiacque, che, posizionato al centro bianco della pagina, spalancasse il senso unico e inquietante di un’opzione assoluta, generica e a perdere. Più in generale resta da spiegare l’idea di fare del quadrato l’icona di una letteratura che parla della vita, cosa del quadrato entri nel simbolismo dei calcoli dei sensi, e in un certo modo quale esistenzialismo venga qui attribuito al suo specifico geometrico: insomma, perché il quadrato? La risposta è ingenua: di tutte le figure della geometria sembra che il quadrato sia la figura che dà maggior sicurezza e soddisfazione [divide e contiene al suo interno due triangoli retti], così che il discorso prende sicurezza e soddisfazione, e dà il massimo di affidabilità. Quale perizia migliore di questa che in una prova di scrittura sfida e scommette di riuscire a dare all’interno di una misura geometrica precostituita la misura intera di un discorso e la sua stessa estensione di senso? Chi può accettare di scrivere un testo di senso compiuto accettando nel contempo di stare entro una certa dimensione spaziale o lineare, come se, uno dicesse: devi coprire quindici o venticinque centimetri lineari di testo in corrispondenza di quindici o venticinque centimetri di pagina, riuscendo a produrre un discorso di senso compiuto, e perfettamente riuscito. Come dire: fammi un ragionamento completo nel tempo di 55 secondi, in modo che al cinquantacinquesimo ci si arrivi in punto! Come se ci fosse uno scopo nell’ordinare un pensiero a prova di tempo o di superficie! Senza trucchi, senza truccare con degli espedienti fastidiosi e puerili, come batterie di aggettivi o di avverbi o di verbi o di sinonimi e contrari, eccetera, o di altri, in modo da raggiungere con delle zeppe la soglia del limite fissato, dando invece evidenza di un comportamento esatto, integro e funzionale. Specialmente in un caso nel quale si parlasse della vita, che notoriamente può sbandare in qualunque momento e in qualunque momento finire chissà in quali derive. Ma più ancora per un altro motivo, molto più complicato e intrigante. E cioè perché, in una problematica del genere, dovendo parlare della vita, a memoria, ma anche in punta di filosofia, fin dall’inizio è sembrato fortemente suggestivo utilizzare non solo esteriormente il quadrato e la sua forma immobile, ma interiormente i giochi mobili dei due triangoli rettangoli di cui è composto al proprio interno e che ne danno il calcolo d’area – bastando calcolarne uno solo dei due, e utilizzando la figura complice del triangolo, per via del somatismo particolare e del simbolismo quasi speculare che la figura del triangolo ha per chi guarda o si guarda nello specchio della vita: non sfugge a nessuno infatti che la misura dell’area del triangolo è la stessa di quella con la quale è possibile misurare l’area della vita, e ciò in base alla nota regola della base per altezza e il prodotto diviso due. Il triangolo essendo costituito da una linea di base, bassa e orizzontale, e una linea centrale (bisettrice delle due sezioni di destra e di sinistra), verticale e dal basso verso l’alto, e poi dagli altri due lati di sinistra e di destra, piegati, inclinati e obliqui, a chiudere sull’esterno, appunto di destra e di sinistra… la cui area si misura moltiplicando la base per l’altezza e il prodotto diviso due e così l’area della vita, dato che questa risulta perfettamente formulabile negli stessi termini della triangolazione: un lato inferiore e orizzontale che ne rappresenta il piano basso, un lato interno centrale, superiore verticale che ne rappresenta la verticalità d’investimento verso l’alto, e altri due lati inclinati, piegati e obliqui che a sinistra e a destra ne chiudono l’area interna e contro l’esterno… quest’area prendendo la stessa configurazione del triangolo, ne comporta la stessa conclusione di una medesima misurabilità nei modi della regola che misura base per altezza e il prodotto è diviso due… secondo il significato per cui base per altezza è l’insieme del vivere, e il prodotto diviso due (le due sezioni, di destra e di sinistra) è il dividersi del vivere tra il bene e il male. Approfittando, per l’occasione, del teorema di Pitagora che, enunciando il postulato scientifico per cui il quadrato costruito sulla somma dei cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa, si viene allora a introdurre una specie di formula a elica nella nostra metafora geometrica e esistenziale, per cui perfino tutta l’area esterna, costruibile sui tre lati del triangolo, è computabile, grazie a tutta una serie di inferenze con le quali inseguire tutti i fili alla deriva e a perdere della vita, se la vita è del tutto interna/esterna alla sua triangolazione. Insomma, darsi una geometria della vita e acconsentirne una qualche filologia di calcoli alfanumerici su base pitagorica, può comportare un gioco tra il filosofico e il geometrico capace di risparmiare la solita dispersione di cui si soffre quando se ne parla senza i paletti di una regola logico-matematica, filosofico-geometrica, e si perde nella solita peripezia del ragionamento sciolto, i cui filamenti praticamente non hanno soglia di sbarramento né di orientamento, e il dicibile sparisce nella deriva senza né inizio né fondo. Allora subentra l’angoscia e chi legge se ne dispera. E’ di questo che ci siamo preso cura, della disperazione. Il nostro sistema, invece, di una quadratura del dicibile, fondata sulla divisibilità a triangolazione interna, dà l’opportunità di misurare giocando e maneggiando noti giocattoli pitagorici, grazie ai quali poter tenere meglio il contatto con la vita, per racconti e immagini, nonché per concetti che ne accendano la luce propria che li rivela.

    2

    Nel senso di far quadrare i conti, i racconti e le aree di vita che vengono osservate, per cui prima la figurazione del linguaggio, la sua capacità iconica e la sua messa in piano, sulla pagina, poi la rappresentazione delle figure vere e proprie, il loro disegno, prendono l’aspetto e la fantasia di una lettura biometrica, in una scrittura geometrica e astratta che realizzi misurazioni del discorso/pensiero entro lo spazio dell’essere e del dire, formulate anch’esse e ben profilate, disegnate e percepibili quali proiezioni e espansioni concettuali o loro emulsioni, costruibili lungo i lati, e, per così dire, lungo i cateti regolari di quel triangolo rettangolo che il linguaggio forma con i trascorsi della vita. In modo da ottenere, in prospetto, disegni del discorso e frazioni di vita perfettamente intercambiabili, reciprocamente sovrapponibili e assimilabili. Le frasi, i versi, il loro sviluppo sulla pagina, avendo di queste immaginazioni l’effetto di una commensurabilità doppia e speculare: a specchio sulla lingua, a specchio sulla vita; e dando, anche puntualmente, l’idea di una sorta di geometria simbolica, sul nodo lingua/vita, in seguito alla quale singole evoluzioni parlate e vissute prendono l’aria di una sorta di quadrature, piccole o grandi, minime o medie, plastiche di quanto è accaduto o va accadendo.

    Anche nel senso che, a un certo punto, la loro estensione, sia come spazio del dire che come spazio del pensare, e già come spazio stesso del vivere, venga drasticamente rotta e attraversata, dalla violenza obliqua, diabolica, e tagliente, di una diagonale di dissezionamento, di confine e clausura, che nel linguaggio colto e nella geometria tecnica che la rappresenta, viene chiamata ipotenusa, una linea che blocchi da una parte e colleghi gli estremi dei due lati rettangoli, i due cateti, in modo da formare un’area chiusa, all’interno, e un’area aperta, esterna: ad angolo retto dentro, e tutta un’area anonima e informale fuori, all’esterno, che preme sul lato traverso, lungo, riverso, e inclinato. Intervento questo dell’ipotenusa, che, nella storia della pagina e nella scena simbolica del discorso, con la sua immagine di lateralità e spasmo, rispetto al resto, complica e sposta tutta l’apparenza dell’animazione linguistica e concettuale, verso un’inclinazione aerea e rovinosa, dando luogo, in sede di teorema, a un piano, un quadrato più ampio di ognuno dei due triangoli rettangoli, immaginato su ognuno dei due lati, i due cateti, e teoreticamente equivalente alla loro somma. Succede, insomma, che nella teoresi pitagorica, l’ipotenusa, lato e versante, pagina e scena, lingua e vita, a un certo punto, ma presto, pieghi discorsi e percorsi, forme e contenuti, figurazioni e significazioni, secondo una inclinazione che sposta come di traverso, intercetta e taglia tutti i prospetti, sia quelle lineari dei cateti sia quelle aeree dei quadrati, orientando verso proiezioni impensate e avarie impensabili tutto il narrato geometrico e tutto l’accaduto tecnico dei fatti.

    Aprendosi alla domanda essenziale: cos’è questa complicazione, che cosa modifica dell’intero piano lingua/vita, dove evolve in termini di filosofia e in una filosofia aperta alla possibilità di sapere, in modo che ne risulti il senso originario?

    Essendo, allora, su questo versante dell’ipotenusa, e sulla sua versione di una planarità asimmetrica, spastica e turbolenta, che si fa pressante l’idea del domandare, dell’interrogare e dell’indagare filosofico, e con essa il pensiero e il linguaggio che vengano a osservarne l’evento dell’ipotenusa e il suo cataclisma di obliquità, deriva e precipitazione, portato a colpire lingua e vita, pagina e scena, per cui tutto ridiventa enigma, dubbio e problema. E, di seguito, in contraccolpo sullo stesso stato d’animo in termini di avidità e revisione, verbosità e poesia. Filosofia, dunque, come tentativo e reazione di sapere che cosa succede in quest’ingorgo d’aree, tra tentazione e desiderio, preoccupazione e sentimento. Sbirciando già nell’ipotesi di un’equivalenza, come possibilità e probabilità di un futuro, una qualche vivibilità, tra le diverse aree ad angolo retto e governate dalla rettitudine morale corrispondente, e quelle in espansione inclinata e alla deriva, sospesa, caotica e obliqua, codificabili verso una commensurabilità assimilabile alla prima, in modo che diventi possibile intanto una tenuta di vita, tra ortogonalità del pensare e rettitudine del fare: se geometria e etica hanno un senso, e se il senso è intercambiabile e equivalente, in modo che realtà e antirealtà, metafisica e patafisica, fisica e esistenzialismo, possano essere riconducibili ad un unico piano evolutivo della assomiglianza, e intanto anella praticabilità della misura e del calcolo.

    Cosi che il Teorema di Pitagora, da noi scelto come piano d’appoggio illustrativo-argomentativo, opportunamente adattato alla letteratura e alla trascorsività della vita, possa diventare l’espediente tecnico e l’invenzione retorica di una possibile pianificazione del caos e del problema valutativo.

    Se i conti tornano.

    Come mettere insieme, se no, viaggio della mente e incidente, infinito di giornata e scontro, treno sul binario delle tradizioni e deragliamento? Orizzonte di scena e caduta, galassia stellare e collasso, orbita e buco nero?

    Intanto che nell’infanzia, laggiù, a Crotone, tutto era già accaduto, spiaggia, ore a perdere, solarità e macchie di luce, esoterismo del luogo, nascondigli e trappole dell’io.

    TAVOLE PITAGORICHE

    1

    È come dice Lawrence: «se io sono una giraffa, e gli inglesi ordinari che scrivono su di me dei bravi cani educati, è tutto qui: sono animali diversi… voi detestate istintivamente l’animale che sono io». 

    (Gilles Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, pg. 15). Poiché la poesia è l’animalità, l’animalità dell’altro, detestabile specialmente quando si tratta (ahi!) della poesia dell’amico.

    2

    L’io essendo l’organo dell’azione in tanto che è l’occhio aperto che vede, che pensa e parla? Il primo organo sessuale, perché è l’organo del desiderio, ma anche quello che attua il contatto, come l’intuizione o la penetrazione, che sono la stessa cosa? Sempre in lotta e per questo è romantico? Il sé essendo l’altro dell’io, l’altro sociale che siamo, nel quale ci specchiamo? Realista, mai romantico? 

    E’che fino a quando il nostro io parla col suo sé, va bene, ma quando è il sé che tira i nostri fili, e forse proprio quelli dell’io, allora ahi! va male. E il risultato sarebbe la fossa comune dove l’io muore

    3

    Essendo il sé l’organo 

    della passione di vivere, nella doppia versione per cui «un essere mangia un altro essere» e «una coscienza cerca sempre la morte dell’altra», il doppio principio attivo della vita, che la cultura fa di tutto per nascondere o viceversa far apparire come geniale e creativo. Non la cultura della cucina con la sua letteratura delle ricette, sfiziose e leziose, e, così, aperte allo spettacolo e all’estetica di tutte le trasfigurazioni, dove, per esempio, una giovane vitella diventa lo stufatino di latte coi finocchi e si presta alle manipolazioni più alterate, del tipo: spezzettate il petto di vitella di latte lasciandogli le sue ossa. Fate un battuto con aglio, prezzemolo, sedano, carota e una fetta proporzionata di carne secca; aggiungete olio, pepe, sale e mettetelo al fuoco insieme colla carne suddetta. Rivoltatela spesso, e quando sarà rosolata alquanto,spargete sulla medesima un pizzico di farina, un po’ di sugo di pomodoro o conserva e tiratela a cottura con brodo o acqua. Per ultimo aggiungete un pezzetto di burro e i finocchi tagliati a grossi spicchi già ridotti a mezza cottura nell’acqua e soffritti nel burro. Parola di Artusi, notoriamente una lingua biforcuta, come dicono gli indiani d’America, per via della sua abilità di far passare un messaggio al posto di un altro, e intanto di frastornare il gesto di una carneficina bella e buona con un soppalco di decori e altre vertigini del gusto, per cui la povera vitella da latte si viene a trovare in una graticola degli inferni più atroci ma come trionfasse, invece, in mezzo a un quadro di eventi multimediali, dai fattori, dai colori, dagli odori, giocati, variegati, e fantasticati: il battuto d’aglio, prezzemolo e sedano con carota; l’intingolo di olio, pepe e sale e la conserva tirata a cottura; una leggera infusione di finocchio, a pezzetti, portati a mezza cottura o soffritti nel burro non senza quella premura secca con la quale accompagna i comandi: spezzettate, aggiungete, rivoltate, eccetera. Ma è lo stesso autore che è pieno di garbo quando spiega come i pesci vadano mangiati nelle loro stagioni più propizie, e addirittura nei mesi più consoni alle varie specie: lo storione, il dentice, la sogliola, ottimi tutto l’anno; ma i polipi d’ottobre. Frittura e seppie, di marzo, aprile e maggio; le triglie di settembre e ottobre, eccetera. In un finale, di poesia e grazia, quando i marinai dicono che i crostacei e i ricci di mare sono più pieni é pescati al chiaro di luna.

    4

    La volgarità essendo la vulgata del sé, 

    il suo effetto speciale, essendo il sé la parte divulgabile del soggetto nell’epoca della sua organizzazione di massa e della sua esultanza narcisistica: a misura d’uomo comune, che ne farebbe un doppio uso, espressivo e comunicativo, da una parte per toccare i fondi della propria sensualità libertina, dall’altra per incontrare i valori promiscui d’una latenza di sensualità che fa comunione con gli altri. Via per l’emancipazione da ogni stato dell’io tenuto sotto controllo, che l’emergenza caotica dell’attualità rimette in gioco tra l’io privato e l’io di massa dove si apre la possibilità di scaricarsi della mediocrità, sulla quale ha modo di imporre il disordine disgustoso e sovrano delle proprie libertà. La nuova volgarità essendo dappertutto, mediatica e portatrice di attualità, non quella precedente, quella vecchia, mai istituzionale e come tale patetica,

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