La classe dirigente Viterbese negli anni del fascismo
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Questo studio si inserisce in tale filone, e si propone di indagare le vicende storiche del periodo fascista in un territorio ben definito, quello della città di Viterbo e del suo circondario, a partire dall’analisi biografica dei protagonisti a livello locale degli avvenimenti politici, amministrativi, economici, sociali del periodo.
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La classe dirigente Viterbese negli anni del fascismo - Maria Chiara Bernardini
Maria Chiara Bernardini
La classe dirigente Viterbese negli anni del fascismo
Proprietà letteraria riservata.
La riproduzione in qualsiasi forma, memorizzazione o trascrizione con qualunque mezzo (elettronico,
meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, internet) sono
vietate senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.
© 2014 Edizioni Sette Città
Via Mazzini, 87 • 01100 Viterbo
www.settecitta.eu • info@settecitta.eu
isbn: 978-88-7853-100-0
ISBNebook: 978-88-7853-541-1
La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire tutti i diritti relativi al corredo iconografico della
presente opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito.
L’opera pubblicata ha ricevuto il premio "Annibale Gilardoni per la storia
delle Province 2004-2007" nella originaria stesura di Tesi del Corso di dottorato
di ricerca in Società, istituzioni e sistemi politici europei (XIX ciclo)
presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo
ebook realizzato da Giulia Bocci.
Stage del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere (LLCS) dell'Università degli Studi Roma Tre presso le Edizioni Sette Città
.
Indice dei contenuti
PRESENTAZIONE
INTRODUZIONE
CAPITOLO 1
CAPITOLO 2
CAPITOLO 3
CONCLUSIONI
FONTI
INDICE ANALITICO
Ringraziamenti
PRESENTAZIONE
Questo volume di Maria Chiara Bernardini ci offre la prima attenta e documentata ricostruzione della società e della classe dirigente viterbese negli anni del regime fascista, inserendosi a pieno titolo in quel filone di ricerche che hanno opportunamente orientato l’attenzione degli studiosi sulla complessa e articolata realtà del fascismo italiano nelle sue dimensioni locali, in molti casi profondamente diverse le une dalle altre. Proprio su questo delicato problema, relativo al rapporto tra storia nazionale e storia locale, soprattutto in periodo fascista, tra la pressione del partito e la realtà socio-economica provinciale, tra le parole d’ordine del regime e la difesa di ruoli di prestigio e di interessi del ceto dirigente locale, viene a determinarsi il confronto tra la continuità delle antiche posizioni di privilegio e la rottura, determinata da una nuova visione della vita pubblica, ispirata ai canoni della rivoluzione
fascista.
La ricerca dell’autrice si muove sulla base di un’ampia documentazione archivistica, che tiene conto sia delle fonti locali, conservate presso l’Archivio di Stato di Viterbo, sia nazionali, presso l’Archivio centrale dello Stato. Naturalmente la ricerca si è estesa anche alla stampa e alla pubblicistica coeva. Sulla base di queste fonti, il lavoro di Maria Chiara Bernardini si articola in tre capitoli che, muovendosi da una opportuna riflessione storiografica sui problemi della storia locale negli anni del fascismo, affronta la fase che vide l’apparire e lo svilupparsi del fascismo nella Tuscia. Una fase che conobbe aspri conflitti sociali, soprattutto nelle campagne, e sanguinosi conflitti politici, che ebbero il loro momento più acuto nel luglio 1921. Negli anni successivi alla marcia su Roma, con il consolidamento della presenza del regime nella vita locale, il fascismo viterbese cercò di estendere il controllo sulla giovane provincia che Mussolini volle creare nel 1927, sia per rispondere alle attese di una città che mal sopportava una sorta di sudditanza da Roma, sia con l’obiettivo di una più efficace possibilità di penetrazione da parte delle strutture politiche e burocratiche del regime.
Il terzo capitolo di questo volume ricostruisce una sorta di mappa della classe dirigente della Tuscia, nelle sue diverse articolazioni: dai prefetti, ai dirigenti provinciali, comunali, ai dirigenti del partito, ai rappresentanti delle forze economiche e sociali, al mondo della scuola. Si tratta di 174 esponenti di spicco della vita di Viterbo e del circondario, di cui l’autrice ripercorre le biografie ricostruendo un quadro molto ricco di notizie, che ci consentono di ripercorrere gli itinerari di studio, di carriera, di vita politica, delle élites più rappresentative del Viterbese. Un quadro che, nell’insieme, consente non solo di disegnare il volto di una classe dirigente, ma anche di cogliere il modo con cui questi uomini si confrontarono con il fenomeno fascista e in che misura ne furono condizionati o, per altro verso, lo condizionarono.
Le conclusioni a cui giunge Maria Chiara Bernardini evidenziano un clima generale di fiacchezza
, che viene a contraddistinguere gli uomini di potere della Tuscia negli anni del regime. Una fiacchezza
che appare, per molti aspetti, il riflesso di una mancata totale fascistizzazione della classe dirigente locale, in gran parte espressione ancora del vecchio ceto politico liberale, che riuscì a mantenersi ai vertici della vita locale grazie alla sua tradizione nobiliare e al suo ruolo dominante sul piano economico, legato prevalentemente alla proprietà terriera. Anche le nuove istituzioni, quali la prefettura e la provincia, dovettero ricorrere al vecchio notabilato, che in molti casi era di formazione liberale.
Come sottolinea l’autrice, «il potere locale nella Tuscia e nel suo capoluogo fu durante il ventennio concentrato nella mani di poche persone provenienti dalla classe dirigente dominante nel territorio, selezionate non tanto per la loro fede fascista quanto per loro posizione economica». Lo stesso ruolo del partito non incide, né è in grado di condizionare i poteri locali. Insomma siamo di fronte ad una provincia che «sembra apparire meno fascista
di quanto si possa immaginare».
Questo libro viene opportunamente ad aggiungersi alle numerose indagini che negli ultimi decenni hanno offerto significativi contributi alla conoscenza dei vari fascismi, che hanno segnato la complessa e articolata realtà del nostro Paese negli anni del regime. Esso consente di porre un altro tassello in una storia del fascismo italiano che non potrà non tener conto della complessità di un fenomeno condizionato dalle molte asimmetrie presenti nei diversi contesti locali, ma che esige una ricomposizione e una analisi complessiva della vita politica, amministrativa e sociale italiana di quegli anni, soprattutto alla luce dei risultati raggiunti da queste importanti ricerche sulla periferia del regime fascista.
Francesco Malgeri
INTRODUZIONE
Il 19 marzo 1929 alcuni cittadini della provincia di Viterbo inviarono al Duce una lettera che offre diversi spunti di riflessione per il presente lavoro:
Nelle nuove province difettano gli uomini per costituire le amministrazioni provinciali ordinarie, perché come nella nostra tutti gli idonei vorrebbero essere nominati a Roma e nelle città grandi. Per queste ragioni a Viterbo tutte le cariche si cumulano sul comm. Ascenzi mentre vi sono note persone che hanno rappresentato con competenza nel consiglio provinciale di Roma la nostra provincia quando era uno dei circondari di quella di Roma […].
Queste persone dovrebbero ricordarsi che il posto loro è la provincia di Viterbo e non quella di Roma, tanto più che l’ente provinciale è eminentemente regionale.
Per la difesa della nostra provincia ci siamo permessi di disturbarla.
Con profondo ossequio. Alcuni cittadini della provincia di Viterbo[1].
La provincia di Viterbo appartiene alle 17 province create dal Duce nel 1927. Il suo territorio, a partire dall’annessione al Regno d’Italia nel settembre 1870, aveva occupato una posizione di subalternità amministrativa, ridotto al rango di sottoprefettura dell’elefantiaca provincia di Roma. La lettera ci suggerisce due elementi, che per tutto il ventennio rimarranno costanti nella realtà altolaziale, attraverso la denuncia anonima allora molto frequente nei carteggi tra ministero dell’interno ed enti periferici. Da un lato, si rileva l’insoddisfazione di una parte della cittadinanza nei confronti della classe dirigente locale, costituita sempre dalle stesse persone, e della realtà stagnante che ne deriva. Dall’altro, comprendiamo il ruolo secondario e il senso di emarginazione di una piccola città di provincia, resi particolarmente forti dalla vicinanza con Roma, meta di tutti coloro che aspiravano a una carriera politica di maggior successo.
Viterbo contava, attorno agli anni Venti, circa 26 mila abitanti ed era inserita in una struttura socioeconomica prevalentemente agraria. Tali caratteristiche influenzarono profondamente l’andamento della vita cittadina dal punto di vista politico e culturale, nonché i meccanismi e le strutture del potere locale. L’approccio periferico
allo studio del regime fascista risale a poco più di vent’anni fa. Esso ha generato un fortunato filone di studi che ha contributo a movimentare ed arricchire la storia del ventennio da un punto di vista metodologico ed interpretativo, moltiplicando i punti di vista e concentrandosi su un circoscritto ambito territoriale e di conseguenza offrendo maggiore attenzione allo sviluppo della società locale[2].
La mobilità dei ceti al potere, gli interscambi e le influenze fra sfera politica e processi sociali, il livello di incisività prodotto dall’organizzazione del regime sulla sfera privata e su quella pubblica, la sua influenza sulla partecipazione
politica delle masse e sulla formazione della memoria collettiva, i rapporti di continuità con il pre e post fascismo, gli adattamenti alle diverse situazioni locali (pur in un contesto di accentuata centralizzazione), sono quindi diventate alcune delle possibili chiavi di lettura delle ricerche sui fascismi in provincia[3].
Questa indagine si inserisce in tale filone ed assume l’ambito locale come osservatorio privilegiato per mettere a fuoco le modalità organizzative del potere fascista attraverso l’analisi della fisionomia e dell’operato della classe dirigente attiva in una circoscritta area geografica[4]. Essa vuole dunque indagare e ricostruire le vicende storiche del periodo fascista in un territorio ben definito, quello della città di Viterbo e del suo circondario, a partire dall’analisi biografica dei protagonisti a livello locale degli avvenimenti politici, amministrativi, economici, sociali del periodo.
La realizzazione di tale proposito non è stata semplice, perché è un caso di storia locale quasi del tutto inesplorato. Inoltre, nonostante la disponibilità di fonti a livello centrale e periferico e quindi la possibilità ricostruire il rapporto dialettico centro/periferia, le biografie dei funzionari locali pongono una serie di problemi. Le fonti in questione appartengono infatti a diverse tipologie: spaziano dalla relazione del prefetto, al rapporto del questore, a repertori a stampa, ad articoli di giornale e così via. Inoltre per alcune categorie di funzionari (ad esempio i podestà e i prefetti o i segretari federali) offrono maggiori informazioni.
Un approccio prosopografico ha tuttavia consentito di effettuare una prima ricostruzione e di affrontare lo studio delle caratteristiche di fondo comuni alle élites politiche ed economiche locali, attraverso l’indagine collettiva delle loro vite e l’analisi comparata delle carriere[5]. La raccolta e l’incrocio di tali dati ha infine permesso di mettere in luce alcuni aspetti del meccanismo politico e della mobilità sociale. Si è cercato così apprezzare il più esattamente possibile il ruolo dei rapporti sociali e familiari, della posizione finanziaria, degli interessi e dei legami economici di classe, della formazione dei singoli individui. Inoltre si è mirato a mettere in luce come l’esperienza pubblica nel periodo antecedente al conflitto all’avvento del fascismo abbia avuto un suo peso nella collocazione nel dopoguerra e nel rapporto con il fascismo.
Quale ruolo ebbero i prefetti che si avvicendarono alla guida del territorio provinciale viterbese? Quale il loro rapporto con gli esponenti delle élites locali, e in particolare con i segretari federali? A quali principi facevano capo i criteri di designazione e le modalità di nomina di coloro che svolsero funzioni pubbliche? Per quali cause alcuni protagonisti giunsero a dimettersi dal loro ufficio? E soprattutto che valutazione dare dell’operato di questa classe dirigente? Quale tipo di consenso essa fu in grado di ottenere e che aspettative nutriva la cittadinanza nei suoi confronti? Questi i principali interrogativi che hanno fatto da motore all’indagine.
È stato sottolineato come, a proposito del ricorso a strumenti quantitativi e comparativi negli studi sulla classe dirigente, sia necessaria una loro applicazione sul piano territoriale e temporale per misurare l’intensità del mutamento:
Difficilmente una nuova classe dirigente s’inventa. Difficilmente, cioè, una classe dirigente è radicalmente nuova; essa cela spesso processi lenticolari e sommersi, sociali e culturali, di formazione di lungo raggio, affondati nelle pieghe delle relative comunità di riferimento; sovente essa è connessa da fili invisibili con le realtà politiche stesse che è chiamata a sostituire o modificare. Lo specchio della sincronicità – o anche del breve periodo – è allora deformante: fa apparire rotture laddove v’è solamente sostituzione funzionale; esaspera l’innovazione laddove essa convive invece con la tradizione. […] Nel mutare delle persone fisiche appartenenti alla cosiddetta classe dirigente, si registra anche una modificazione della composizione sociale di essa, o questa rimane sostanzialmente stabile? Si tratta, in altre parole, di un semplice avvicendamento nel personale rappresentativo di una determinata categoria o classe sociale, o si tratta effettivamente dell’avvicendamento tra classi sociali in competizione per l’egemonia?[6]
La studio della realtà locale acquista un valore se si prende in considerazione la complessità dell’articolazione territoriale nazionale, con le contraddizioni del suo sviluppo e con la varietà della rete di rapporti politici, amministrativi, economici e sociali in cui progressivamente viene articolandosi la relazione tra le società locali e lo Stato nelle sue diverse rappresentanze centrali e periferiche. Se infatti la storia politico-istituzionale del paese si connota per la sostanziale continuità degli ordinamenti, è anche vero che l’applicazione delle norme è sempre mutevole, fra regime e regime, fra periodo e periodo dello stesso regime, fra luogo e luogo nel medesimo periodo, fra caso e caso nel medesimo luogo[7].
Si è ritenuto pertanto indispensabile affrontare nel corso del lavoro la storiografia relativa al tema della classe dirigente e al rapporto tra storia nazionale e storia locale, con particolare riferimento agli studi locali sul fascismo e alle prospettive che essi hanno aperto. Inoltre, nelle conclusioni, si è proceduto a una comparazione con il contesto nazionale perché «il contributo di moltiplicazione dei punti di osservazione sul regime fascista offerto dalla storiografia locale, non può procedere disgiuntamente da uno sforzo comparativo e di ricomposizione del quadro d’insieme, che tenga conto delle direttrici fondamentali emerse nel corso delle ricerche»[8].
Infine trattandosi di indagare sugli uomini che furono protagonisti della vita politica ed economica locale, sono state approfondite le modalità dell’intervento dello stato fascista in periferia[9]. In particolare sono state analizzate le trasformazioni istituzionali delle realtà provinciali ed è stato tracciato un breve profilo generale della nuova classe dirigente[10]. In questo modo si è cercato di individuare variabili, analogie, differenze, particolarità del caso preso in esame rispetto al contesto o ai contesti nazionali.
[1] Acs, Mi, Dg-Ac, Presidi e rettorati provinciali, b. 19, fasc. Rettorato provinciale Viterbo
, lettera al Duce del 19 marzo 1929 firmata Alcuni cittadini della provincia di Viterbo
.
[2] Per una panoramica storiografica sui fascismi locali si veda: Capitolo 1, nota 10 ss.
[3] M. Lodovici, Presentazione, in id. (a cura di), Fascismi in Emilia Romagna, Cesena, Il Ponte vecchio, 1998, p. 7.
[4] Id., I fascismi in provincia: orientamenti e ipotesi di ricerca in «Memoria e ricerca», n. 1, 1993, p. 137.
[5] Riflessioni sulla prosopografia sono in L. Stone, Viaggio nella storia, Roma – Bari, Laterza, 1995. Il panorama storiografico italiano degli studi prosopografici e della produzione di repertori biografici appare limitato e frammentario. Si vedano in questo senso le riflessioni di Giudo Melis in: G. Melis, Introduzione in id. (a cura di), il Consiglio di Stato nella storia d’Italia. Le biografie dei magistati (1861-1848), Milano, Giuffrè, 2006, pp. XXIV-XXVII. Il dizionario biografico, in 2 volumi, appare in questo senso un tentativo pionieristico. La scheda tipo utilizzata per la raccolta dei dati biografici offre utili spunti di riflessione metodologici (ivi, pp. XXVIII-XXIX). Approfondimenti biografici sono anche in D. Musiedlak, Lo stato fascista e la sua classe politica 1922-1943, Bologna, il Mulino, 2003.
[6] L’osservazione è in M. Revelli, Ipotesi generali della ricerca in Piemonte in G. De Luna (a cura di), Dalla liberazione alla Repubblica: i nuovi ceti dirigenti in Piemonte, Milano, Franco Angeli-Regione Piemonte, 1987, pp. 38-39.
[7] L. Baldissara, Una sfida al buon senso
? dell’ente provinciale nella storia, in E. Fasano Guarini (a cura di), La provincia di Pisa (1865-1990), Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 21-27.
[8] M. Lodovici, I fascismi in provincia, cit., p. 138.
[9] Per un’interpretazione del totalitarismo fascista alla luce di un’analisi interna dei rapporti tra centralizzazione e radicamento locale della sua leadership si veda: S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario; Roma, Donzelli, 2000. Si segnala anche il più recente lavoro: P. Varvaro, Sul fascismo. Il pregiudizio antiliberale nella costruzione del regime totalitario, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.
[10] Per lo studio dei problemi istituzionali del regime il lavoro di A. Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965 resta il grande punto di riferimento. Per una comprensione delle trasformazioni burocratico–amministrative si veda: G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861–1993), Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 269-381. Melis si domanda quanto fu fascista la burocrazia del regime e passa in analisi tutti i tentativi di riforma dello Stato realizzati o non realizzati mettendo in luce i gli elementi di continuità col periodo liberale.
CAPITOLO 1
IL FASCISMO IN PERIFERIA. ISTITUZIONI E CLASSE DIRIGENTE
1. Il percorso storiografico
Gli studi più recenti sulle élites, le istituzioni e i poteri locali hanno conosciuto negli ultimi anni un particolare incentivo[1].
Diversi storici, analizzando i processi di formazione, i modelli culturali, la cultura civica, il sistema di valori espressi, la regionalità e il ruolo delle élites italiane, sono concordi nell’affermare che la realtà socio-politica del nostro paese si caratterizza per una eminente regionalità nel processo di formazione, circolazione e ricambio dei gruppi dirigenti[2]. Regionalità in senso storico–civile e culturale, e non geografico amministrativo. Le classi dirigenti italiane presentano una fisionomia variabile da realtà e realtà in modo molto più evidente rispetto agli altri modelli europei. Per questo e per uno studio di tali peculiarità, è necessaria un’analisi dei contesti storici e geografici nei quali le élites si muovono. Tale regionalità è la struttura storico civile più resistente al processo di unificazione del nostro paese, che ha un peso decisivo nel determinare la varietà di tradizioni e valori dei ceti superiori italiani.
A tale proposito gli studiosi insistono sulla necessità di ricostruire lo strato complesso della società locale per capire le reali dinamiche di stabilità/mutamento dei nostri gruppi élitari dal primo Ottocento al secondo conflitto mondiale.
La finalità di una storia delle élites nell’Italia contemporanea, è una prosopografia articolata in concrete dimensioni ambientali e sociali.
Per quanto riguarda la realtà laziale essa scaturisce da diverse realtà regionali. A causa della incombente presenza di Roma sono stati trascurati e messi in ombra gli studi sulla storia delle periferie[3].
Secondo Mariapia Bigaran c’è bisogno di riconsiderare il processo di formazione e integrazione nazionale, tenendo presenti l’esistenza e la persistenza di forti disomogeneità territoriali, sociali e culturali, nei modi e nei tempi della sua realizzazione[4].
Nello stesso tempo Sabino Cassese, sottolineando lo scarso sviluppo degli studi di storia locale in Italia rispetto a quelli francesi e inglesi, è dell’avviso che non sono possibili studi di storia locale se non si allarga l’indagine all’analisi di tutte le sfaccettature della realtà periferica: dalle strutture politico-amministrative alle funzioni che si svolgono in sede locale, ai rapporti col centro e a quelli con gli altri ambienti, alla società locale che condiziona e il funzionamento sia delle istituzioni che delle classi dirigenti locali[5].
Alcuni studi sui ceti dirigenti hanno sollevato problemi metodologici e nodi storiografici significativi: dal rapporto continuità/rottura nel passaggio da una classe dirigente all’altra, al suo carattere innovativo o tradizionale, dai meccanismi di selezione interna, alla composizione sociale, alla storia, ai percorsi biografici dei singoli individui, al loro concreto operato politico e amministrativo.
Giovanni De Luna, nella sua analisi sui ceti elettivi nel periodo di transizione dalla liberazione alla Repubblica, insiste sulla rottura istituzionale da un lato, e sulla continuità per quanto riguarda gli aspetti economici, sociali e produttivi[6].
Poco a poco, si affermeranno e acquisteranno valore elementi come il titolo di studio, la provenienza geografica, l’incidenza della carriera rispetto all’ereditarietà[7].
E riguardo all’interrogativo se la classe politica sia realmente rappresentativa del paese reale, aggiunge:
la classe politica locale non è una puramente e semplicemente la replica di quella nazionale; il ruolo determinante assunto nel processo d’impianto dei partiti politici dalle éliteslocali, obbliga a tenerne conto in una visione più ampia del rapporto tra istituzioni e società civile. Di qui la scelta di mantenere un riferimento privilegiato al personale delle assemblee elettive, soffermandosi però soprattutto sulle liste elettorali la cui composizione (proprio per la possibilità di identificare un personale politico più vasto) è diventata prioritaria rispetto agli eletti e ai risultati elettorali[8].
Gli studi di storia locale e in particolare la storiografia locale sul fascismo hanno ottenuto una loro dignità, rispetto alla storia nazionale solo negli ultimi vent’anni [9].
Ciò appare particolarmente evidente dall’attenzione prestata all’argomento sotto diversi aspetti, a partire dalla fine degli anni Ottanta, da riviste come Italia contemporanea
, che nel 1991 dedicò un intero numero ai fascismi locali[10], Storia contemporanea
[11], Meridiana
[12], Studi Storici
[13], Ricerche di storia politica
[14] e Memoria e ricerca
[15].
Nonostante gli studi sul fascismo a livello regionale e locale si siano negli ultimi anni moltiplicati, scarsa è stata l’attenzione dedicata al Lazio, per non parlare dell’Alto Lazio. Esistono infatti indagini capillari su aree regionali come la Lombardia[16], l’Emilia Romagna[17], la Toscana[18], sul sud Italia[19], tanto per ricordarne alcune. Significativi contributi sono stati forniti inoltre dai volumi della Storia d’Italia di Einaudi per regioni[20]. Esaminando a tal proposito il libro dedicato al Lazio, appare particolarmente evidente la scarsa attenzione dedicata all’argomento, assieme alla preponderanza dell’interesse per Roma[21].
Si tratta di apporti che sono entrati a far parte integrante del dibattito storiografico sull’argomento e restano il punto di riferimento dei lavori più recenti sul periodo come quello di Nicola Tranfaglia[22] e quello curato da Marco Palla[23], che pongono particolarmente l’accento sui mille volti del fascismo nelle diverse aree della penisola[24].
2. Storia nazionale e storia locale.
Le ricerche locali sul fascismo
Il rapporto tra storia locale e storia nazionale è controverso. Fino alla metà degli anni Settanta gli studi locali hanno occupato una posizione marginale e sono sempre stati guardati con sospetto forse per il nesso – per altro non obbligatorio o necessario - con la storia sociale, o in definitiva perché rappresentativi di una deviazione dalla via maestra tracciata dalla tradizione della storiografia tradizionale.
Secondo Nicola Gallerano, le vicende politico-istituzionali degli anni successivi hanno attenuato tali contrapposizioni mettendo in luce che le differenze sono in realtà differenze interpretative e di metodo.
L’ambito locale – ha scritto di recente Luigi Ganapini – permette […] di cogliere trasformazioni di culture e costumi, di abitudini di vita e di rapporti sociali e di rilevare viceversa le permanenze e le eredità del passato assai meglio di quanto non sia permesso di fare se ci si pone da un punto di vista generale e «nazionale»
. Ma lo stesso Ganapini ha segnalato al contempo come dall’osservatorio locale si possa correre il pericolo di non riuscire a cogliere il peso e la rilevanza dei caratteri specifici e di annegare la storia locale in un paradigma già consacrato delle storie nazionali; o viceversa [di] esasperare le caratteristiche locali in un patriottismo provinciale privo di fondamenta e assolutamente irrilevante sul piano dell’interpretazione complessiva della storia contemporanea italiana
[25].
La conclusione di Gallerano è che lo studio del locale va effettuato per abbattere le conoscenze stereotipate della storia nazionale e per moltiplicare e arricchire i diversi punti di vista[26]. In questa ottica colloca gli studi sul fascismo, che per quanto riguarda la sfera locale, si sono concentrati principalmente sul partito e sul potere locale.
Le ricerche, pur risultando talvolta numerose e ripetitive e prive di nessi comparativi, hanno rappresentato un tentativo di coniugare storia sociale e storia politica tenendo presente, nello studio del potere locale, i rapporti tra apparato centrale dello Stato e sue articolazioni periferiche e la storia delle istituzioni fasciste, in primo luogo il partito e il ceto politico fascista. Proprio nell’indagine sul funzionamento delle istituzioni fasciste e sul grado di coinvolgimento degli organizzati le ricerche locali si sono misurate meglio[27].
Sulla maturità raggiunta dalla storiografia locale sul fascismo concordano anche altri storici. L’opinione di Marco Palla è che i lavori locali sono diventati quantitativamente così numerosi che hanno addirittura fatto mutare il punto di vista di una visione univoca e nazionale del fascismo. Generalizzazioni valide e unitarie possono essere applicate solo per il centro nord, mentre gli studiosi meridionali hanno messo in luce la funzione modernizzatrice
del regime, una sorta di rovesciamento di tradizioni ed equilibri secolari. Palla mette però in luce i limiti di tale fenomeno storiografico sostenendo che gli studi locali sono sottoutilizzati perché poco conosciuti. Insiste inoltre sul fatto che il più grande difetto della storiografia locale sul fascismo è