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La Differenziata
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La Differenziata

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About this ebook

I libri di Fazia sono inconfondibili, potremmo chiamarli i “blu”, così come i racconti polizieschi sono diventati “gialli” proprio per la caratteristica del colore dominante di copertina... Un blu intenso “sporcato” da un disegnino rosso, che subito osserviamo per capire che cosa rappresenti. In questo caso, una paletta raccogli polvere. Il titolo del resto è “la Differenziata” e l’allusione alla raccolta dei rifiuti è trasparente e divertente, e anche l’ironia o l’autoironia è un’altra caratteristica che riconosciamo di Fazia. Ma diciamo che in questo volume le cose semplici finiscono qui. La Differenziata è infatti un libro bellissimo quanto complesso, la cui lettura, ancorché intrigante, richiede concentrazione e pazienza. Perché l’autore non ama e non ha mai amato le cose semplici. Che disserti di filosofia o di letteratura, che contempli la natura o si lasci cullare dal ricordo, Fazìa ha il gusto della parola ricercata, della forma complessa, del pensiero che vola da un piano all’altro e poi improvvisamente si ripiega su se stesso. Prosa o poesia è lo stesso, egli usa la penna - o nel caso specifico la tastiera del computer - come il pennello di un pittore espressionista. Non è quello che vede o che è successo che conta, e nemmeno il come viene raccontato: quello che conta è lo stato d’animo, il sentimento provato nel momento in cui scrive. Ecco perché il libro, non a caso “forse” un romanzo, è un susseguirsi di capitoli brevi o lunghi scanditi non dallo scorrere degli anni e delle stagioni, ma dal trascorrere delle ore. Pomeriggi, mattinate, notti... che siano in ordine cronologico lo supponiamo, ma non ne abbiamo la prova e non ha importanza. Perché ricordi d’infanzia, dissertazioni culturali, eventi vissuti, incontri, malattie, e ancora riflessioni sul mondo affiorano in modo discontinuo così come, immaginiamo, sono venuti in mente all’autore perché la mattina si sentiva più sereno, il pomeriggio più stanco, la sera più nervoso e così via... Un libro non facile da cominciare, ma intrigante una volta che si comincia a leggere, trovando, come spiega lo stesso autore, “... l’umido e il secco, la razionalità e il sentimento, ... tutti gli ingredienti, feriali e festivi, di una buona cucina della quotidianità intellettuale”.
LanguageItaliano
Release dateOct 13, 2014
ISBN9788884497116
La Differenziata

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    La Differenziata - Salvatore Fazìa

    a.c.)

    Introduzione

    … non è un diario, mancano gli anni, ci sono le ore, allora è un diario di giornata, un orario dell’anima, le ore hanno l’anima impressa… non ha calendario perché non ha anniversari o appuntamenti da onorare, in ciascuno dei momenti l’annualità è indifferente, ogni momento poi ha il suo gemello, rinvenibile in ogni stagione, ogni altra temporalità della vita di memorabile ha solo l’istante, ma questo fissato a caso è un passante della sensazione, un istante senza tempo, e - quando la luce, il flash, il suo effetto di scena scatta al suo clic, e l’acustica dentro batte il suo colpo di gong stigmatizzando lo scarto d’interiorità, la ferita di gioia o di dolore, il suo sbocco di sangue o l’approccio di un bacio intellettuale e d’amore - è il suo sorso di elisir che leva alto il brindisi a festeggiarne l’evento, in omaggio alla sua veggenza, nel sì e nel no. Prendono allora attenzione tutte le emergenze occasionali, quelle trovate senza saperlo, sapendole dopo, e mai al momento, dato che la memoria, la nostra, non ha memoria di fatti, e questi non hanno cronologia, ma solo fantasia di sensi… questa dottrina segreta e postuma dell’anima. Le cose della vita, i luoghi, i rapporti, i loro archi di scena, prendono spunto infatti nel punto più lontano dalla loro geografia effettuale, quando l’anima è già lontana, e il tempo e lo spazio sono altri, e non sono più quelli, allora si riducono ad una sola categoria, in una specie simile a quella già affetta d’oblio… Chi volesse rivelarne la biografia, una narrativa delle sequenze, un calcolo del prima e del dopo, del perché e del come, si troverebbe impacciato, perché nel caso in questione la spiaggia o le montagne, il nord o il sud, gli amici o i nemici, il bene e il male, si sono mescolati al loro stesso interno, e non sono più distinguibili in termini di questo e quello… il sì e il no si confondono, e non si sa più come sono andate le cose… 

    … un bambino ha sognato un triciclo, sa dove l’ha lasciato, la mattina si alza e va a prenderlo, non lo trova e incolpa la madre… allora scoppia la rissa e con essa la prima reazione tra desiderio e protesta, sogno e oblio… è forse qui la radice di questa letteratura…

    Giovedì ore 15.00

    …nei pomeriggi della domenica, stando in casa, sotto le colline, affiora spesso un ricordo: nell’infanzia, al mare, con mia madre, alla finestra, avvertivo la marea del mare gonfiarsi.

    E, della stessa marea, l’anima.

    L’analogia anima-mare riguarda l’infanzia.

    Un gonfiarsi momentaneo del volume, l’ansito che prende le cose a una certa ora, se è domenica pomeriggio e siamo soli.

    Lontani, adesso, anche in un libro, tra le pieghe di una letteratura d’analisi, dove magari ci siamo perduti un momento, è possibile sentire, a un tratto, intorno a noi crescere lo stesso volume del ricordo, che, chissà per quale misteriosa traslazione, assimiliamo al sonno o all’oblio, e allo stesso svolgimento dell’ora quando nell’infanzia appoggiavamo sul seno materno, e non per dormire, il capo incerto…

    Lunedì ore 17.20

    … una volta i bambini riflettevano sulla casa. Ne misuravano il limite, intanto che ne riconoscevano il carattere segreto e lo depositavano nella solitudine del loro destino insieme con il senso dell’origine… 

    … si lasciavano afferrare dall’ansia quando vedevano gli adulti che in tanti modi ne violavano il segreto, e, senza rendersene conto, si ponevamo delle domande alle quali si impedivano di rispondere…

    … allentavano così il tiro del futuro, e di colpo si rifugiavano tra le avarie dell’immediato. Pensavano che nulla fosse fatto per loro…

    … quando, tuttavia, si disponevamo a vivere la loro piccola geografia dei posti, che intanto avevano riconosciuto, e il primo impulso è stato quello di dominio, ciò fu per assumersi una qualche responsabilità verso il tempo, dove hanno avuto presto il modo di trasferire la favola di quello che erano e non capivano. Fu mite allora ogni riparo dalle emozioni, e la luce dei nuovi pomeriggi cominciò a svolgere la sua nota funzione di raccogliere ciò che andava alla deriva…

    Martedì alle 9.18

    … nostalgia, l’oggetto che fa segno alla vita si ripete: il mare, noi e la riva, l’aria sopra il mare, ma poi, dopo, le colline al nord, e in alto le Piccole Dolomiti con il colore delle rocce in luce d’oro, e in vertigine le valli d’aria. E, più ripetitivamente il prato, e spiovente sopra il prato il cielo. 

    Barthes li chiama incidenti, e dice: la fanciullezza è la via regia attraverso la quale conosciamo al meglio una terra. E chiude: in fondo, non c’è altra terra che quella dell’infanzia…

    e, a proposito:

    secondo lo stesso sentimento: [«Fermezza. Io non voglio evolvermi in un dato modo, non voglio passare a un altro posto che è in verità quel volere andare su un’altra stella, mi basterebbe stare vicinissimo a me, mi basterebbe considerare come un posto diverso il posto dove sto» (Kafka)]

    Mercoledì alle 8.00

    …l’io nasce che non sa parlare, poi incontra i libri e li imita, osserva il realismo di cui parlano, l’idealismo di quello che tacciono. Intanto che si mette a parlare in proprio, abita un corpo e vive le storie di giornata, dove incontra la propria geografia. E qui prova la disarticolazione delle relazioni, le piccole guerre dell’amicizia, le false paci della solitudine o i dolci guasti dell’ipocondria… la miscredenza fin dal primo gruppo di appartenenza, e acerbamente le guerre degli altri. Intanto che tiene a bada l’umanità, magari non facendo quello che deve fare, e anzi – scandalo nello scandalo - non sapendo che fare, vivendo per passatempo, riparando tra i libri, dove gli verrebbe di sostare e vivere. Scomodo è essere tirato in ballo, dover dire la sua, sostare alla cronaca, alla misura giornaliera: le notti sfumano ed è difficile il pensiero del giorno. Le notti accampano l’oscurità, la cui nerezza taglia in due le giornate. E’ allora che le forme della cronaca diventano incerte, la successione dei giorni diventa ingovernabile, la regolarità loro viene turbata dall’infinità delle notti che ne macchiano l’originaria bianchezza. E’ stata mai valutata questa catastrofe della notte, la cui catalessi intacca il giorno? Il buio che rende buie le forme della cronaca, le quali quando sono fresche di giornata sono chiare, ingenue e brillanti, ma quando sfumano nell’atmosfera patetica della sera si perdono nella stessa deriva della notte.  

    Un testo come questo vorrebbe il bianco e il nero come fattori normali della discorrenza, e invece si disorienta tra le avarie crepuscolari del rito e le incertezze dell’investimento diurno, e in tutta ipocondria. Non volendo tentare nulla che non fosse tra il difetto o l’effetto stesso dell’interruzione, quando questa, l’interruzione stessa, scende nel testo, come la notte che improvvisamente cala sul giorno. Allora le cose perdono i connotati luminosi di località e memoria per assumere quelli scuri di un altrove, nel quale vanno a finire quando principia l’imbrunire o quando il colmo della notte li raccoglie nel suo fondo, dove non restano mai come sono, ma vanno in dissolvenza, e così, alla fine, in qualche modo, anche le forme oblique e sghembe della temporalità – compromesse dalla notte - hanno la fatua criticità di sparire dalla luce, nelle condizioni lunatiche e imperfette del giorno… se è addirittura l’io che viene escluso.

    … alle 9.30

    … intanto che l’illusione della scrittura fa gioco di sé quando le sue proprie referenze sono fatte di cose e pose, parziali e momentanee, locali - voli di passo e realtà di genere, se è ambientata e c’è gente -, una scrittura che porta avanti le sue istruttorie narrative e si maschera di un realismo variamente spalmato, perfino quando è corredata di oggettistica e ne descrive le varie unità, suppellettili, umori e luci d’occasione, e essa, la scrittura, si volta verso la memoria pratica della vita e vi sosta, con il proprio passo, nel tentativo di non cedere alla propria fattura virtuale di essere solo una linguistica, di cui alla fine è composta, e di cui teme il rischio, il vuoto, l’esposizione a perdere, celandosi al di qua di ogni trasparenza che ne sveli la sensualità dei suoni o la fascinosa fisicità delle sole forme tonali. Al fine ingenuo di mimetizzarsi con la storia che racconta, ora per pudore ora a vantaggio di un interesse pratico, nel solo gioco di mostrare le carte, mettere le mani avanti, annunciando: ecco! non c’è trucco, eppure osservate, che profluvio di improvvisazioni, di materializzazioni esteriori, di inscenazioni di ogni tipo di accadimenti! paesaggi, città, cronache in bianco e nero, destini di esito diverso, e perfino descrizioni e scorci di interiorità, drammatizzazioni dell’intrico esistenziale, eccetera.  

    La gente, si dice, vuol vedere che qualcosa succede quando legge: posti, fatti, personaggi, e non pensa mai allo scrittore, ai motivi lunatici di uno che decide di scrivere e non vive come gli altri, i quali, si sa, più vedono le cose reali più sono contenti, gratificati del fatto che vi si immedesimano, vi prendono parte, si schierano, e per l’appunto quasi mai dalla parte della scrittura, specie quando la scrittura mostra coscienza di sé e non scrive d’altro, se non esponendosi al rischio ludico e erotico di un nudismo letterario ora incantatorio e seduttivo, ora missionario e ascetico. 

    Si pensa che due siano le forme dello scrivere, e dello stare al mondo: quella di esserci stando all’aperto della socialità, legittimandosi nella propria differenza, una; l’altra, quella di trovarsi una solitudine intellettuale, da cui guardare e al cui riparo indugiare o dileguare. Intanto che la vita è sempre altro, e uno può farsene collezionista, raccattando figure e forme, casi e modi, posti e storie, azioni e ragioni, pensieri, frasi, parole, toni, eccetera; oppure farsene narcisista, cinico e critico, secondo un’idea di distanza, escluso alla realtà e aperto alla surrealtà di interessi di carattere simbolico, mediatico, concettuale. E’ a questo scopo che il narcisista cinico cerca di evitare le occasioni di socialità, ritirandosi a vita segreta, nella sospensione di sé. Attento a non sconfinare alla deriva di quei testi che all’insaputa raccolgono i resti di quel che ha rifiutato o non è avvenuto: immune in mezzo alle cose, ai ricordi, elementari e bassi, momenti che vivono in forme semplici: indenne allo sguardo di facce, posizionamenti e posti, intento alle cose di casa se sfuggono. Anche se, poi, rientrando, dalla scrittura alla vita, decidendosi a farlo, un odore acre di scale riporta tutto indietro, se, nell’umore di un ricordo o di un brutto timore, il sospetto di un fantasma estraneo alla propria oscurità, il suo lucore di figura fotogenica, getta in allarme, perché, quando il fantasma appare - nella turbolenza che l’accompagna, e in preda al panico - appare sempre con la forza fotogenica che hanno le figure in regime di isolamento interiore: malvagie come prigionieri, e proprio come sono i fantasmi.  

    Insomma, se chi scrive non sa cavarsela, cerca magari una via d’uscita e s’imbosca in una narrativa a oltranza dove si trama ogni genere di malaffare, allora c’è del fallimento nell’attitudine letteraria che prendono i personaggi, quando per paura della scrittura recitano il ruolo di persone o loro simili, e all’attivo di un profitto generico del racconto. La vertenza, alla fine, porta fuori dalla scrittura l’intero investimento, e la situazione si fa molto simile a quella che hanno le persone, quando, a corto di passioni, tendono a ritrovarsi nelle forme semplici delle occasioni di strada, all’incrocio o davanti casa, e all’insaputa di se stesse a una a una poi rientrano, mal sostenendo il contraccolpo della solitudine, vagando tra i corridoi, sorprendendosi in un vano-scale, accedendo a un ripostiglio o, più semplicemente, appoggiandosi un istante all’angolo di un ingresso, di cui subiscono l’aria di nostalgia e l’attesa presso un telefono.

    Momenti del genere costituirebbero l’occasione giusta di una coscienza povera e persa, se, di fronte al testo, chi scrive o chi legge avvertisse la stretta al cuore del piccolo frangente nel quale le cose prendono il senso finale di quello che sono, e le pose evitano il gesto ottuso di una scrittura che vuole la morte dell’altra.

    Sabato ore 16.45

    … senza le parole, non è possibile pensare. Oggi, in montagna, che il cielo e la terra sembravano tesi e ravvicinati, non ho pensato nulla, se non che il cielo e la terra sembravano tesi e ravvicinati. Tutto è avvenuto - la terra e il cielo: tesi e ravvicinati – soltanto quando mi si sono presentate alla mente queste due parole ‘tesi’ e ‘ ravvicinati’. Il cielo e la terra erano realmente lì, tesi e ravvicinati, ma sono ridiventati veramente tali solo quando mi sono detto che erano ‘tesi’ e ‘ravvicinati’. 

    I dati di verità sono spesso linguisticamente da fare.

    Io non so se si riesce a dare la mobilità ambigua della giornata tramite la mobilità della scrittura, che, essendo senza appoggi, è sempre aperta in tutte le direzioni: al passato come al passaggio in atto o al futuro e come al passo che cerca dove mettere i piedi.

    Le forme della cronaca diventano interrogative per via di questa instabilità del loro posizionamento linguistico, il cui punto di vista è notoriamente precario. Un pensiero che non si dice mai, manca: mai coperto dal tetto di un dire e di un suo sapere, scoperto e nell’insaputa della sua stessa vicenda.

    La vita quotidiana non è mai alla base della storia, e la storia si espande sempre più lontana da essa. In ogni caso la vita quotidiana è vicina, la storia mai.

    Che fare del materiale scaduto, scartato?

    Lunedì ore 19.15

    … è legittimo servirsi della narrativa per raccontare una cosa che più che un fatto è un pensiero, e se un pensiero come questo che sto per raccontare contiene un filo di passione per la vita, e io che lo racconto lo vorrei raccontare con la passione di questo filo, dato che l’ho veramente vissuta in questo filo.  

    Era un pomeriggio e passavo da uno dei sottoportici che cingono la piazza, in un paese meridionale che non è bello nominare, perché è pieno di disoccupati e di sfruttati e questi farebbero meglio se pensassero ad altro che non a quello che ho visto e sto per raccontare. Il pomeriggio è stato strano, il luogo e l’ora si prestavano all’occasione come un momento di teatro di strada, con la sua piazza subito sotto il cielo, e vicinissima al mare.

    Ecco il racconto: «… uno è seduto per terra, fa il filosofo con tanto di barba, gli altri, disoccupati, gli stanno intorno ad ascoltare. Il filosofo, chissà perché, parla a questo gruppo di disoccupati dell’arte, spiega loro che l’arte è un’espressione d’essere, di modo infinito, la cui funzione è quella di spostare le cose in un ambito che non è possibile abitare, ragion per cui è sempre vuota e disabitata.

    La gente ascolta più per passatempo che per curiosità, essendo costituita in genere da disoccupati, ed è presa, non tanto dal concetto che il barbone-filosofo va esprimendo, quanto dal tono di voce, con il quale il barbone-filosofo rivela la sua verità: l’arte che non sarebbe una forma del tempo, e comunque che il suo tempo e il suo luogo sarebbero disabitati... ».

    Una metafora per disoccupati?

    Il tono dava l’idea della cosa, per cui se da una parte suggeriva il vuoto dell’arte, dall’altra sdrammatizzava questo vuoto, nel cui effetto quella gente si riconosceva, rimuginando l’idea che anche gli artisti fossero disoccupati. L’idea che un disoccupato meridionale vedesse nell’arte lo stagno vuoto del proprio pensiero, si rifletteva nel vuoto reale della sua condizione, e presto si confondeva con l’indifferenza di quella piazza, che sembrava vivere tutto il tempo a vanvera, nell’aria di un pomeriggio che aveva di suo il rischio di far sognare un pezzo di mondo che era andato fuori dalla sua umanità locale: quella scena col barbone per terra a fare il filosofo e, intorno, i disoccupati che se ne lasciavano prendere, apriva il sospetto irritante che l’arte fosse rispetto alla vita come quella stessa piazza rispetto al mondo della società, e come quella stessa brigata di gente disoccupata rispetto al proprio tempo, ricevendo non poche stimmate di delusione.

    E’ tutto.

    Assurda la conversazione tra un barbone che fa il filosofo e dei disoccupati che per un momento rifanno il sogno dell’arte: niente ne avrebbe compromesso la passione, come nessun artista ne avrebbe potuto rappresentare la delusione, se non fosse stato egli stesso un disoccupato, e, lo stesso: nessun pomeriggio ne avrebbe rappresentato meglio il vuoto, e nessun’altra piazza che non fosse quella, nel sud e in una giornata in vena di ipocondria. Non era nemmeno un caso che il filosofo fosse un barbone. Di pomeriggio, una piazza del sud, d’estate e sotto il sole, se chiama di questa gente e se discute d’arte, è perché è già tutta nel vuoto della sua stessa cattiva metafisica, scavata come una fossa nella fantasmagoria del posto che nessun realismo potrebbe colmare.

    … una sola essendo l’osservazione critica, e una sola essendo l’operazione filosofica: «bisogna tener conto del resto, di ciò che si lascia perdere, non soltanto sul contenuto narrato… » (Derrida)

    … sul tardi

    … chi vive alla giornata, in una geografia che non sa definire, poche relazioni, piccole guerre dell’amicizia, paci di solitudine e ipocondria… e progressivamente immagina guerre che non si faranno mai. L’io si osserva, si tiene a bada, facendo ogni giorno quello che può fare, se non sa cosa fare sa che può scrivere, ripara nei libri, ne invoca l’assistenza. Ma è ancora cronaca, misura giornaliera, la durata è oraria, le notti sfumano… è il giorno che è difficile. Si accampa nell’oscurità, ne ritaglia la giornata. Le forme della cronaca diventano ritagli, la storia dei giorni è ingovernabile, le notti ne macchiano la bianchezza. Non si sa mai valutare in questa incertezza la forma oraria, di per sé passiva, quando sfuma nell’atmosfera patetica della sera o si attiva e cala nella deriva…  

    ... un testo come questo, che misura l’ambiguità di una scrittura affidata alla passiva variazione delle ore, patisce l’incertezza delle ore, l’indifferenza delle oscillazioni e si disorienta tra le avarie crepuscolari del rito letterario, tra le diversità dell’investimento diurno e le rive fragili del diario. Non volendo tentare nulla che non sia vero, le cose ma anche le pose perdono i connotati della fisicità per assumere quelli incerti di una psichicità pura, si perdono nel percorso del giorno, tranne al principio dell’imbrunire quando ritornano e poi dopo, quando è il colmo della notte che li raccoglie nel fondo, dove non restano come sono, ma vanno in dissolvenza, e così le forme della giornata come quelle della scrittura hanno qualche probabilità di venire alla luce, sghembe, lunatiche e oblique…

    … è che non si sa mai come scrivere, come leggere, se si legge come si scrive, o si scrive come si legge. Non si sa mai come fare: in genere, ci si trova di fronte ad un immaginario incerto verso il quale si guarda…

    Allora si scrive come si guarda.

    La vera lettura avviene dopo, a libro chiuso…

    Mercoledì ore 9.25

    … tacendo gli anni, le ore perdono il riferimento al tempo e diventano una testimonianza incerta, se non come orme precarie di uno che se ne sta nell’anima, dove forse ha le sue ore impresse, che ne riportano le avarie del caso…  

    … non per passare il tempo, certo, chi scrive, scrive perché il tempo non passi, e, una volta avviato, in ogni punto è come se fosse in un punto sconosciuto, nell’infinito mobile e immobile di un istante…

    … aprire una scrittura è un trauma, specialmente se è una scrittura che gioca con il tempo e le cui referenze interne alludono, più che a cose, a pose parziali e momentanee, locali, a voli di passo dentro i limiti di circostanza, una realtà di genere inattivo… una scrittura che si volta indietro, e vi sosta, con il proprio passo, nel tentativo di non rinunciare all’aspirazione formale di cui è nutrita, di cui teme il rischio, celandosi…

    … il giorno dopo

    … ma la gente, quando legge, vuol vedere che qualcosa succede… posti, personaggi, accadimenti… non pensa allo scrittore, alle lune di chi decide di scrivere invece di vivere, specialmente se la scrittura mostra il gioco che fa esponendosi al rischio di un certo nudismo letterario, seduttivo e incantatorio, missionario e ascetico, in vena di redenzione.  

    Si pensa allora che due siano le prospettive letterarie di chi è al mondo: stare all’aperto della socialità, stare alla finestra intanto che la vita è altro a venire…

    Anche se, poi, decidendosi a farlo, un umore acre di occulto riporta tutto altrove, e il sospetto o un lucore di trasparenza fotogenica getta in allarme, perché, quando il fantasma appare nella solita turbolenza che l’accompagna, lo fa sempre con la forza che hanno le figure ataviche di casa e, al solito, in regime di isolamento…

    Se chi scrive - e precipita in casi del genere - non sa cavarsela, va in cerca d’una via d’uscita e s’imbosca in una narrativa dove si trama ogni genere di malaffare… costui non esce dal fallimento che prendono i fatti e i personaggi, quando, spaventati dalla scrittura, recitassero il ruolo di cose e pose comuni.

    … la cosa, alla fine, porta fuori dalla scrittura, e la situazione si fa simile a quella che dicevamo, quando, parlando delle abitudini che hanno le persone in genere, queste - a corto di passioni – una volta che si spingono verso le forme delle occasioni semplici di casa, dell’incrocio di strada o dell’angolo della propria via, all’insaputa a una a una rientrano, mal soffrendo il contraccolpo della loro timorosa inettitudine, dandosi a vagare negli andirivieni quotidiani, in preda a un vano scale, un lungo corridoio o, peggio, fermandosi un momento a un tavolino con telefono, di cui subiscono rischi e ricatti…

    Momenti del genere costituirebbero l’occasione buona per una coscienza non in grado di farcela, e chi legge avvertirebbe una stretta al cuore per via del frangente nel quale le cose hanno preso un senso più macabro di quello che in realtà minacciano, costui, allora, in preda alla mortificazione, cercherebbe il gesto magico di una scrittura che vuole la morte dell’altra…

    … il pomeriggio verso le tre e un quarto

    … un’ipotesi potrebbe essere questa. 

    Scrivere in maniera tale che chi legge – il lettore recente, quello creato dal mercato – trovi singole esche della lingua nella lingua che parla lui stesso, nei giorni normali…

    … infatti sono i giorni feriali che sono i giorni della scrittura…

    … attaccandolo all’amo letterario con gli errori che lui stesso pratica, in modo che la lettura ne intercetti i modi che proprio lui ha di parlare.

    E’ opportuno? fare i furbi a pro degli altri, adescarli dando la sensazione delle loro stesse esche? la sensazione in cui la loro lingua ordinaria sia in effetti l’investimento di scrittura dello scrittore, che lo prenda con la lingua e lo porti infine tra gli orizzonti dell’avventura editoriale, ne saggi l’ebbrezza di libreria.

    … essere forse un po’ volgari?

    Volgari di questa nuova volgarità un po’ casual, guardando le vetrine e cercando qualcosa che li includa come partecipanti?

    Chissà se questa idea assomiglia un po’ a quella di Dante, che parlando della lingua usata nella Divina Commedia, l’ha chiamata volgare.

    … Dante, per la sua lingua, pensava ai luoghi e ai posti dove si cominciava a parlare la lingua nuova, non più il latino. Pensando a una fonte nuova come quella che c’era in giro, dove circolavano le merci e le dicerie. E oggi anche i giornali o la televisione o certa recente ricchissima editoria di basso intendimento?

    Pensando al caso di un libro del tutto attuale, e appunto d’intendimento volgare e già oltre… un analogo (per contrasto del più famoso libro alla moda del Cinquecento Il cortegiano) di recente pubblicazione e già nelle chiacchiere, come Cafonal, curiale a suo modo, illustre per via dell’élite che vi fa scena e festa, innovativo, nella pubblicità dei vips, ma in pro della volgarità nuova, destinata alle vie editoriali di massa?

    … di notte all’una

    I giorni feriali – non quelli festivi - sono i giorni in cui la vita scorre da sola. Le mattine sono piene di tutte le faccende delle mattine, e i pomeriggi si danno da fare verso le conclusioni della sera. Le mattine si aprono con i problemi che hanno le cose all’odg, i tempi vanno e vengono in quello che c’è da fare; i pomeriggi hanno la luce che sale o scende secondo i tempi dell’imbrunire e hanno molte curve interne - le prime ore, le seconde ore -, essendo molto diverse tra loro per la luce e l’aria della luce, come quando curvano a salire, verso la sera, un po’ per la opacità che prendono le cose quando si concludono, un po’ per il risentimento del tempo che s’è speso… 

    I giorni feriali sono così.

    La vita prende la sua aria, che si trascina, venendo da ieri e dal ricordo di ieri, il giorno prima, e subito fa fatica, non si sa come, verso una giornata che è ancora vuota…

    … ma, poi, il mattino alle 10.00

    Ibam forte Via … 

    Curvo su cose di bassa socialità, e tuttavia su pose di un individualismo arruffato, mediocre e isterico.

    In superficie l’isteria ha un suo modo rotto e scheggiato, qualunque sia l’argomento, la fretta è di prendersi lo spazio dell’occasione, e bruciarne i tempi. In realtà, privo di relatività, quella che normalmente uno conosce e distende davanti alle sue affermazioni, non se sono perentorie, come fa, questo soggetto dall’io brutto.

    Tutto addosso alle parole, non ne ha il tempo? Ma chi ascolta vorrebbe dirgli: calmati, fa un passo indietro, intanto che quello invece lo pressa di parole, non lascia tregua al tempo.

    La situazione è ansiosa, c’è instabilità, variando continuamente argomento: parte dalla critica – pensate un po’ - a un tappo di bottiglia, secondo lui mal posto, e arriva a una teoria generale circa la formazione della cultura nazionale in Italia. Questa, a differenza di quella francese o tedesca, non sarebbe abbastanza ragionata.

    Ha la quinta elementare, vive in un paese di anime perse, praticamente un borgo. La bruttezza dell’io – il suo - sta nella sensazione che fa quando parla pressato e stretto, lui stesso, di parole, e non ha idea di ciò che se ne può pensare. Spinge di solito su un’osservazione ristretta che spara a conclusioni che sono di un’area talmente incalcolabile, che non è possibile a un certo punto chiudere: partire da un tappo di bottiglia mal posto e arrivare a sputare sentenze contro l’intera cultura nazionale, che sarebbe inefficiente perché mancherebbe di quella logica opportunamente risolutiva per via che non si fonderebbe mai su un qualche punto d’appoggio empirico…

    L’inconsistenza starebbe non tanto in una complessità dove è pressoché impossibile misurarne la molteplicità – come, nella fattispecie, tra il punto di partenza, l’osservazione sul tappo, e il lontano punto di arrivo, la discrepanza nientemeno mondiale di una cultura. Quanto in una evanescenza discorsiva priva di punti di riscontro, tale che uno è provocato a cercarli senza però essere messo in grado di ritrovarli: questa frustrazione!

    Succede che uno ci provi, intanto che l’altro ha già virato verso variabili volatili e impreviste, per cui alla fine, sospettando che lo faccia apposta, allora s’incazzi. Se ne sviluppi una rissosità segreta che si brucia a contatto con le parole, dove si soffre due volte, una volta per l’acustica pressata a restringere il tempo sulle parole, l’altra per via d’una posizione d’ascolto sempre più impaziente, irritata e precaria.

    Alla fine pensando che è stato imbrogliato, perché non è nemmeno vero che il tappo era mal posto, essendo quello invece il caso non riconosciuto di un design innovativo e geniale, né pertanto essendo vera l’idea che la cultura nazionale soffra di cattivo realismo, presa com’è all’eccellenza di un idealismo artistico che una tradizione superiore coltiva negando il piccolo realismo empirico perché povero di soluzioni e quanto all’estetica: brutto.

    E’ il realismo, un certo realismo a strombo, scaricato su particolari di nessuna importanza, che lo fa brutto, nel quale il tizio insiste e si perde, esibendosi come uno che s’è impigliato in se stesso, in quel suo tappo.

    Venerdì ore 9.32

    … curioso il caso dell’evoluzione in corso dall’io al sé, dove il sé, anziché fungere da pronome riflessivo, re-plicato e ri-piegato sull’io, come dovrebbe essere, stando alla grammatica, diventa un qui-pro-quo, extra-flessivo, s-piegato, riaperto dalle pieghe dell’io, e, alla fine in figura di duplicato, esposto all’esterno, ri-frangente contro

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