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Giuseppe Mazzini nel Risorgimento italiano. Pensiero/azione/educazione/politica
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Giuseppe Mazzini nel Risorgimento italiano. Pensiero/azione/educazione/politica

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Possiamo datare l’inizio del nostro Risorgimento al Congresso di Vienna del 1815, grande movimento di popolo che anela all’unità, alla libertà e all’indipendenza. La prima fase risorgimentale prepara l’unificazione con l’impeto dei moti insurrezionali e con la razionalità di idee e proposte di risoluzione del problema italiano: il federalismo di Carlo Cattaneo, il neoguelfismo di Vincenzo Gioberti, la scelta rivoluzionaria di Giuseppe Mazzini, la via diplomatica di Camillo Cavour. Se Cavour è l’artefice abile e paziente dell’unità d’Italia, Mazzini crede nelle capacità di riscatto del popolo e lavora per educare nei cittadini lo spirito di patria e la coscienza nazionale. La sua è una figura ricca e nobile che ci lascia in eredità un alto patrimonio di valori politici, sociali e culturali.
LanguageItaliano
Release dateJul 24, 2014
ISBN9788878535251
Giuseppe Mazzini nel Risorgimento italiano. Pensiero/azione/educazione/politica

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    Giuseppe Mazzini nel Risorgimento italiano. Pensiero/azione/educazione/politica - Giuseppe Sagramola

    BIBLIOGRAFIA

    PRESENTAZIONE

    Dopo la caduta definitiva di Napoleone a Waterloo, il 9 giugno 1815 si apre a Vienna il Congresso che ridisegna la geografia politica dell’Europa.

    Protagonista dell’assise austriaca delle potenze vincitrici è Clemente di Metternich, statista, fedele servitore e ministro degli Esteri degli Asburgo.

    Tedesco di nascita ma scarsamente legato alla tradizione imperiale germanica, formatosi alla cultura francese della rivoluzione, questo giovane discendente dell’aristocrazia della Renania è tuttavia acerrimo nemico dei princìpi dell’‘89 e il più convinto assertore del ritorno all’Ancien Régime. Così egli scrive nelle battute iniziali dell’autobiografia che ricordano il suo soggiorno universitario a Magonza, nel 1792, in un clima culturale impregnato dello spirito della Francia rivoluzionaria: Sentivo che la Rivoluzione era il nemico che io avrei dovuto combattere[1].

    Metternich è il grande regista del Congresso di Vienna al quale impone due idee-forza: la restaurazione del vecchio ordine pre-rivoluzionario e prenapoleonico e la costituzione di un sistema europeo che ha nell’impero asburgico il proprio cardine e fondamento centrale.

    Per garantire il trionfo del legittimismo, con il ritorno sul trono dei vecchi sovrani, e per impedire lo scoppio di nuove rivoluzioni, nel Congresso di Vienna nasce la Santa Alleanza (la denominazione è dovuta ai sentimenti mistici dello Zar di Russia Alessandro), con la quale i sovrani di Austria, Russia, Prussia, Francia, Spagna e dei piccoli Stati italiani stipulano tra loro questo patto: in caso di ribellione dei sudditi di un re, tutti gli altri re devono intervenire con i propri eserciti per reprimere la rivolta.

    L’impalcatura politica voluta da Metternich, restauratrice, assolutista e non attenta ai bisogni dei popoli, regge per un po’ di tempo grazie ai regimi autoritari e polizieschi che la sostengono. Il cancelliere austriaco ha una concezione piuttosto utopica dell’ordine, della pace e della felicità delle nazioni. Nonostante abbia indubbio talento politico e forte senso pragmatico, Metternich cede all’ideologia che non gli fa tenere nel giusto conto né la forza delle nuove idee di libertà e nazionalità, né quella delle nuove forme di rappresentanza e sovranità popolare[2].

    Metternich pensa di arrestare il corso delle cose e degli eventi. In una lettera del 1819, indirizzata alla contessa di Lieven, così scrive: L’uomo che voi oggi amate è una pietra di confine posta dov’è per fermare coloro che corrono all’impazzata.

    L’apparato poliziesco della Santa Alleanza degli Stati non può, però, fermare l’alleanza dei popoli che rivendicano con forza libertà e costituzioni.

    A partire dal 1820, cominciando dalla Spagna, esplodono moti insurrezionali che poi si ripetono in Francia, nel 1830, e in varie nazioni nel fatale 1848. Questo fremito rivoluzionario che attraversa l’Europa è incontenibile e, dopo un trentennio circa, manderà in frantumi l’edificio reazionario e restauratore messo in piedi dal Congresso di Vienna.

    Dai trattati viennesi del 1815 emerge un’Italia smembrata in 7 Stati: il Regno di Sardegna (Savoia), il Lombardo-Veneto (Austria), il Ducato di Modena e Reggio Emilia (Francesco IV), il Ducato di Parma e Piacenza (Maria Luisa d’Austria), il Granducato di Toscana (Ferdinando di Lorena), lo Stato Pontificio (Pio VII), il Regno delle Due Sicilie (Borboni). Tanta varietà di Stati, di governi e di prìncipi, fa somigliare la carta geo-politica dell’Italia al variopinto abito di Arlecchino, come nota ironicamente il poeta satirico Giuseppe Giusti.

    Nei patti del Congresso di Vienna, che negano l’unità morale e politica dell’Italia si possono collocare le radici storiche del nostro Risorgimento, un grande movimento politico, civile e culturale di popolo che mira alla libertà e all’unità nazionale del nostro Paese.

    Il periodo risorgimentale italiano può essere diviso in due fasi: la prima, dal 1820 circa al 1848, è il momento dei moti insurrezionali e della preparazione; la seconda fase, dal 1849 al 1861, data dell’unità nazionale, è il momento culminante delle operazioni militari e delle realizzazioni politiche e istituzionali.

    Nel primo periodo è la società segreta della Carboneria a promuovere i moti del 1820-1821, nel napoletano e nel Piemonte, e del 1830-1831, nelle Romagne e a Bologna, entrambi falliti. Contestati e ripudiati i metodi di lotta carbonari, troppo segreti, simbolici e misteriosi, chiusi e gerarchici, nasce un nuovo movimento rivoluzionario, la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini (1831), che fa appello al popolo per liberare l’Italia. Ma anche i moti promossi negli anni successivi dal movimento mazziniano (vedi il tragico epilogo del tentativo dei fratelli Bandiera nel 1844) vengono repressi e non hanno esito. L’ultimo sussulto insurrezionale di questo primo periodo è quello delle Cinque Giornate di Milano (19-23 marzo 1848). La rivolta antiaustriaca dei milanesi, pur generosa e inizialmente coronata da qualche successo, si conclude anch’essa, però, in modo negativo con il ritorno degli Austriaci.

    La seconda e decisiva fase del nostro Risorgimento viene preparata da idee e proposte politiche che possiamo riassumere in quattro correnti di pensiero: il federalismo, il neo-guelfismo, la rivoluzione, la diplomazia.

    Il federalismo è sostenuto da Carlo Cattaneo (1801-1869) secondo un programma di attuazione graduale che prevede tre momenti: inclusione della Lombardia in una federazione di Stati nell’ambito dell’impero asburgico; ottenuta l’indipendenza, federazione di Stati liberi italiani; infine, federazione dei Paesi europei: gli Stati Uniti d’Europa. Anche se lungimirante, l’idea federalista di Cattaneo non trova seguito perché la classe dirigente italiana opta per una soluzione istituzionale di Stato unitario ed accentrato, contro ogni ipotesi di decentramento che pare prestare il fianco ai rischi del frazionamento municipalistico. Le tesi federaliste cattaneane, con i princìpi del decentramento e dell’autogoverno, troveranno, nel secolo XX, accoglimento nella Costituzione repubblicana del 1948 e nella legislazione ordinaria successiva e, oggi, nelle prospettive di riforma dello Stato in senso federale.

    Dall’intreccio storico dell’Italia con il cattolicesimo, secondo Vincenzo Gioberti (1801-1852), deriva al popolo italiano un primato morale e civile che porta il sacerdote piemontese a farsi fautore di un ideale neo-guelfo che si traduca in una federazione di Stati italiani sotto la guida del papa. La proposta giobertiana non è accettata dallo stesso Pio IX e incontra molte resistenze, soprattutto quelle dei Gesuiti che, con Taparelli D’Azeglio, affermano che il pontefice non può coinvolgersi in un partito o in una particolare causa nazionale, data la natura sovranazionale della sua missione.

    Fallito il suo progetto neoguelfo quando Pio IX si ritira dalla prima guerra d’indipendenza, Gioberti formula una seconda proposta, in senso liberale, che prevede l’indipendenza nazionale sotto la guida dei Savoia.

    Giuseppe Mazzini (1805-1872) è sostenitore di una autonoma iniziativa rivoluzionaria nazionale che mira a risolvere il problema italiano di unità, libertà e indipendenza per virtù propria, nulla sperando dall’aiuto straniero, soprattutto francese. La proposta mazziniana fa leva sulla mobilitazione del popolo e si affida allo slancio insurrezionale della Giovine Italia. Ma la tesi mazziniana di una autosufficienza rivoluzionaria italiana cade via via per il fallimento dei vari moti di rivolta e poi per la drammatica disfatta italiana nella prima guerra d’indipendenza (1848-1849).

    Inizia allora, e prosegue quasi per un decennio, il lavorio politico-diplomatico di Camillo Cavour (1810-1861), il quale è convinto che la soluzione del problema italiano richieda il sostegno di una grande potenza straniera, soprattutto la Francia.

    Facendo partecipare il Piemonte alla guerra di Crimea (1854-1855) a fianco di Francia e Inghilterra, contro la Russia, Cavour può prendere parte, nel 1856, al Congresso di Parigi dove la questione italiana è portata all’attenzione europea e dove il Piemonte si guadagna il ruolo di Stato-guida della riscossa nazionale. I successivi accordi di Plombières con Napoleone III (1858) ottengono all’Italia l’alleanza difensiva della Francia, decisiva per la vittoria nella seconda guerra d’indipendenza (1859), con la riconquista e l’annessione della Lombardia al Piemonte.

    Il grande lavoro politico-diplomatico di Cavour, ispirato ai princìpi del liberalismo moderato e del giusto mezzo tra conservazione e rivoluzione, produce lo storico risultato dell’unità d’Italia (14 marzo 1861), ma non può giungere alla completa soluzione delle questioni nazionali a causa della morte prematura di Cavour (6 giugno 1861) che riesce solo ad avviare la soluzione della Questione Romana, relativa ai delicati rapporti tra lo Stato e la Chiesa con la sua nota formula: Libera Chiesa in libero Stato.

    Nel decisivo decennio cavouriano l’idea rivoluzionaria di Mazzini appare in declino, ma ciò non cancella il rilevante contributo che egli ha recato al problema nazionale, nella fase preparatoria del nostro Risorgimento, in termini di stimolo e di educazione di più generazioni allo spirito patriottico e alla coscienza nazionale.

    Mazzini, con il suo pensiero politico, ha delineato e anticipato i tratti della futura nazione italiana: una, libera, indipendente, repubblicana. Il nostro Stato e la Costituzione sono, per certi versi, figli delle idee politiche mazziniane.

    Mazzini rappresenta, nella storia d’Italia, una figura ricca e nobile che sa realizzare grandiose sintesi di pensiero e di azione, di Dio e popolo. Come autentico padre della patria, egli ci lascia una preziosa eredità che è politica, culturale, educativa, ma soprattutto morale. Il suo magistero del dovere, coerentemente vissuto in 41 anni di esilio per amore della patria, è un alto insegnamento che nobilita la vita nella misura in cui sappiamo spenderla per un ideale e per il bene comune. È questo il retaggio più nobile e suggestivo che la figura e l’opera di Giuseppe Mazzini lasciano al nostro tempo e ad ogni tempo.

    L’Autore


    [1] Cfr. C. di Metternich, Memorie, prefazione di Francesco Perfetti, introduzione di Gherardo Casini, Bonacci Editore, Roma 1991.

    [2] Cfr. V. Castronovo, Metternich fra Napoleone e il destino, La Repubblica-Cultura, 16 novembre1991.

    CAP. 1: IL FEDERALISMO DI CARLO CATTANEO

    Prima parte: Le correnti del Risorgimento Italiano

    Nella ricca e originale personalità di Carlo Cattaneo (1801-1869), intellettuale milanese, spiccano due aspetti preminenti: quello culturale e quello politico. Maggiormente fecondo e sviluppato appare il primo; più episodico e circoscritto – ancorché non privo di valore e significato - il secondo.

    Dopo aver abbandonato, a17 anni, gli studi ecclesiastici, Cattaneo inizia il suo itinerario culturale e formativo. Nel 1820 è nominato docente, prima di grammatica latina e poi di umanità, nel ginnasio comunale di Santa Marta. Frequentando la scuola privata di Gian Domenico Romagnosi, si laurea in giurisprudenza nell’università di Pavia, nel 1824. In forma quasi sempre anonima, collabora assiduamente, negli anni 1833-1838, agli Annali universali di Statistica.

    Cattaneo si forma alla scuola filosofica di Romagnosi. Del suo maestro ed amico, che lo chiama Pupilla degli occhi suoi, eredita e sviluppa un ampio concetto di cultura che non si restringe al puro ambito letterario, ma si apre a larghe dimensioni e spazia nel composito universo delle scienze: quelle sociali, soprattutto la statistica e l’economia; quelle umane, soprattutto la psicologia.

    Con concretezza e profondità di osservazione e di analisi, che fanno di lui senz’altro un iniziatore del positivismo in Italia, Cattaneo coglie il contributo che gli studi storici ed economici possono recare, in misura talvolta maggiore rispetto alle iniziative morali, alla fratellanza tra i popoli. Nell’appassionato dibattito sulla libertà agli schiavi negri d’America, sulle ragioni religiose, morali ed umanitarie addotte dai favorevoli, Cattaneo fa prevalere un criterio di opportunità economica: l’abolizione della schiavitù -afferma- è un vantaggio economico anche per i padroni degli schiavi e la fine di simile ingiustizia sociale rappresenta un traguardo elevato anche da un punto di vista morale.

    Appoggiando pienamente il liberismo coloniale di tipo inglese contro il protezionismo olandese, Cattaneo stabilisce un nesso di casualità tra un’equa politica economica e l’emancipazione spirituale della società, pur rifiutando di assolutizzare ogni determinismo economico e opponendosi alle tesi del materialismo storico marxiano che fa discendere i valori spirituali solo dalla struttura costituita dai rapporti economici e di produzione.

    Nella sua opera Psicologia delle menti associate (1859-1863), Cattaneo individua il programma e l’utilità della psicologia sociale, a livello interpersonale e storico, quale giuoco interattivo di azioni e reazioni che si instaura nei rapporti sincronici tra gli individui e diacronici tra le diverse generazioni.

    Dotato di un sapere veramente enciclopedico, conoscitore di una decina di lingue, tra antiche e moderne, Cattaneo tratta, con competenza e chiarezza divulgativa, i temi più disparati: dalle scienze alle ferrovie, dai commerci all’agricoltura. Nelle scienze penali anticipa i concetti moderni di responsabilità. Nello studio della storia analizza cause ed effetti delle varie civiltà; valuta i fattori fisici e morali degli eventi; ricerca le remote origini dei processi storici. Con grande acume concepisce la linguistica come organismo storico. Nel campo della critica letteraria adopera un metodo esatto nell’interpretare le fasi artistiche di un’opera e nel rilevarne, se necessario, le lacune storiche, estetiche ed etiche.

    Passando dalla filosofia civile, applicata alle scienze pratiche, alla filosofia nella sua accezione teoretica, Cattaneo è proteso nello sforzo di deideologizzare il pensiero, dando la prevalenza, rispetto ai temi metafisici e alle questioni astratte, all’azione concreta, al valore dei fatti piuttosto che a quello delle idee, alla dimensione storica piuttosto che critica dei problemi.

    Iniziatore della filosofia positivista in Italia -come già notato- Cattaneo esorta i giovani ai faticosi studi positivi, scrivendo che "amatori e settatori della certezza, per quanto lo consente la debole natura e il lento progresso della ragione, non cesseremo mai di richiamare i giovani ai faticosi studi positivi, per cui soli può ella arrampicarsi di certezza in certezza, con pace e con frutto. Ma questa irruzione di vanagloriosi idealisti[1], richiamandosi ogni istante a disputare su le fila primillari della scienza, non solo ci astringe

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