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Le lingue nelle facoltà di lingue. Tra ricerca e didattica
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Le lingue nelle facoltà di lingue. Tra ricerca e didattica

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Gli insegnamenti delle lingue straniere di più antica tradizione nelle Facoltà umanistiche hanno avuto riconoscimento autonomo, separato dagli insegnamenti delle rispettive letterature, solo a partire dal 1999 con la legge di riforma dell’università. Il loro status autonomo è ricco di implicazioni per il funzionamento delle Facoltà di Lingue e Letterature straniere: da un lato, infatti, si instaura un nuovo rapporto con le letterature che, tradizionalmente embricate fin dalle titolature con le lingue e gravate di un coté linguistico percepito come marginale, possono dispiegare al meglio tutto il loro potenziale critico ed estetico; dall’altro canto si offrono alle lingue, non più strette al fianco delle letterature, spazi e tempi congrui e distesi per favorire riflessioni teoriche e incrementare pratiche discorsive al più alto dei livelli previsti dal Common European Framework of Reference for Languages.
LanguageItaliano
Release dateJul 18, 2014
ISBN9788878535367
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    Le lingue nelle facoltà di lingue. Tra ricerca e didattica - a cura di Silvana Ferreri

    VITERBO

    LINGUE IN CERCA DI IDENTITÀ

    Silvana Ferreri

    Gli insegnamenti delle lingue straniere di più antica tradizione nelle Facoltà umanistiche (inglese, francese, tedesco, spagnolo e portoghese, con esclusione della slavistica e della orientalistica) hanno avuto riconoscimento autonomo, separato dagli insegnamenti delle rispettive letterature, solo a partire dal 1999 con la legge di riforma dell’università. Il loro status autonomo è ricco di implicazioni per il funzionamento delle Facoltà di Lingue e letterature straniere: da un lato, infatti, si instaura un nuovo rapporto con le letterature che, tradizionalmente embricate fin dalle titolature con le lingue e gravate di un coté linguistico percepito come marginale, possono dispiegare al meglio tutto il loro potenziale critico ed estetico; dall’altro canto si offrono alle lingue, non più strette al fianco delle letterature – maggioritarie per influenza scientifica e per tradizione accademica – spazi e tempi congrui e distesi per favorire riflessioni teoriche e incrementare pratiche discorsive al più alto dei livelli previsti dal Common European Framework for Lamguages . Per le facoltà a vocazione umanistica con specializzazione nelle lingue e letterature straniere, l’attribuzione dello status di insegnamento autonomo alle lingue è stato ed è ancora un banco di prova per verificare nel corpo accademico la capacità di gestire saggiamente la sfera di autonomia che la legge 509 attribuisce alle università. La prima prova – l’opzione tra lingua e letteratura – rende manifesta quell’ancillarità della lingua lamentata da tempo da più parti: la maggior parte dei titolari di cattedra di Lingua e letteratura opta per la letteratura e lascia scoperto l’insegnamento della lingua. Le aspettative di un sano equilibrio tra docenti e le due anime di un unico insegnamento si scontrano con una tradizione di ricerca e una pratica concorsuale che hanno privilegiato lo studio letterario a discapito di quello linguistico. Appare del tutto naturale che ogni singolo studioso scelga in linea con le sue ricerche, ma la rilevanza dei numeri manifesta con tutta evidenza le crepe di una articolazione degli studi in cui sembra lecito affermare che la componente lingua sia stata a lungo trascurata quanto meno sotto il profilo della ricerca. Inoltre, il banco di prova delle capacità di gestione dell’autonomia, pur se circoscritto ad un caso specifico, fa risaltare le difficoltà di un corpo docente a farsi carico delle necessità del sistema; chiamato a trovare soluzioni confacenti alle esigenze di una trasformazione, un nucleo consistente del mondo accademico decide seguendo la propria storia personale incurante dei nuovi bisogni di formazione così come lo era stato in precedenza della necessità di una disciplina composita, in cui la ricerca avrebbe dovuto sostenere anche la lingua e la sua didattica.

    Costruite intorno alle lingue e alle letterature, le Facoltà di Lingue trovano nell’apertura alle lingue vive il loro tratto identificativo e distintivo rispetto alle facoltà vicine per storia e tradizione, quali Lettere, antiche e moderne, Scienze della formazione, Filosofia e, in anni recenti, Scienze della comunicazione, DAMS o nuove configurazioni delineatesi in questi anni di cambiamento della struttura accademica. Le lingue, la loro struttura e le loro funzioni, la lingua en soi-même con le sue articolazioni; il linguaggio come facoltà dell’intelletto; le interconnessioni con altre forme di semiosi; le lingue e le teorie linguistiche; i legami delle lingue con i parlanti e le comunità; i rapporti esterni delle singole lingue con altre lingue; l’interdipendenza tra lingue e culture: tutto l’insieme costituisce l’identità delle facoltà di lingue. Altro ancora si potrebbe aggiungere per illuminare le innumeri sfaccettature che le lingue consentono: il mutare delle lingue nel tempo e nello spazio; la storia linguistica e culturale delle comunità con un plurilinguismo endemico, le politiche linguistiche e gli stretti vincoli con le capacità economiche e produttive di un Paese; lingue di prestigio e lingue minoritarie; lingue tra acquisizione e apprendimento, lingue e mezzi di comunicazione di massa, lingue e didattiche linguistiche. Una configurazione a stella, al cui centro vi è il funzionamento di un meccanismo potente, semplice e complesso ad un tempo, e, a raggiera, un sistema aperto di interrelazioni. Il ruolo delle lingue nel costituirsi dell’identità linguistica degli individui dà la misura dell’importanza scientifica, culturale della ricerca linguistica e dà il senso del costituirsi in comunità scientifica nelle Facoltà di Lingue per indagarne, studiarne, illuminarne l’oggetto.

    L’uso della lingua e gli studi degli usi di una lingua si configurano nelle Facoltà di Lingue come un campo aperto alle ricerche scientifiche e alle pratiche didattiche. È nell’intreccio tra conoscere una lingua, saperla usare, avere una dotazione teorica per indagarla, descriverla, circoscriverne isole di particolare complessità; è nell’architettura delle impalcature necessarie per analizzarne le produzioni linguistiche e culturali, da quelle in cui si deposita stratificandosi la cultura intellettuale più raffinata – quella letteraria, quella scientifica – fino ai più umili scambi verbali delle routines quotidiane, che si realizza il dominio di un oggetto di studio nell’alta formazione universitaria.

    Una buona attrezzatura di carattere scientifico e un sufficiente grado di autonomia linguistica richiedono almeno:

    approfondimenti dei temi classici della linguistica – fonetica e fonologia, morfologia e sintassi, semantica, pragmatica ma anche linguistica testuale – applicati alla lingua da apprendere;

    descrizioni di fatti linguistici;

    elaborazioni di dati osservativi;

    analisi di questioni linguistiche problematiche;

    riflessione metalinguistica e metaculturale

    e pratiche linguistiche sui testi.

    Gli insegnamenti delle Lingue e traduzioni si connotano come aree in cui ci sono spazi da saturare per rinsaldare il rapporto tra ricerca e didattica.

    La centralità del rapporto tra ricerca e didattica giustifica, a distanza di due cicli dall’attivazione di insegnamenti autonomi delle lingue, un convegno svoltosi all’università di Viterbo, in cui si è fatta una prima ricognizione sullo stato dell’arte, ponendo a confronto esperienze e articolazioni, interrogandosi sul tipo di rapporto istituitosi tra ricerca e didattica, misurando e valutando i vincoli posti dalla declaratoria di settore, esplorando fisionomie e rapporti tra insegnamenti nei corsi di laurea e pratiche nei centri linguistici.

    Quel che emerge dai lavori raccolti in questo volume dà il segno di un’area tuttora in pieno fermento. La declaratoria di settore che parrebbe sottrarre la traduzione letteraria dal campo di lingua e traduzione viene recepita in modi diametralmente opposti: come un’opportunità per svolgere ricerche di tipo accademico-scientifico su ogni tipo di linguaggio o registro senza limitazioni o censure (Prat Zagrebelsky), oppure come una costrizione che sottrae dagli usi di una lingua una componente significativa e ricca di implicazioni anche per confronti con usi speciali (Russo); l’interpretazione ambigua della declaratoria sembra quasi un donativo al settore letterario in memoria di un antico appannaggio. Ma non è l’unico punto di differenziazione. Il nodo più problematico riguarda le possibilità di conciliazione tra ricerca e didattica: alla dicotomia tradizionale – apprendimento della lingua versus ricerca in lingua – ancora operante attraverso il ruolo assegnato ai centri linguistici per la formazione pratica e le riflessioni metalinguistiche condotte nei corsi ufficiali si affiancano soluzioni che contemperano l’analisi teorica con il trattamento di materiali linguistici (Blanche-Benveniste, Bettoni, Voghera-Cutugno), modelli alternativi in cui si ricorre a discipline che studiano la co-costruzione di significati in tempo reale , in cui le pratiche scientifiche sono tutt’uno con l’apprendimento della lingua (Boylan), articolazioni degli studi in cui dottori di ricerca e dottorandi affiancano i professori in una didattica calibrata sulle ricerche in corso (Nystedt). Il panorama, sfaccettato e multiforme, richiede ulteriori analisi e approfondimenti commisurati con i risultati sia in termini di qualità degli apprendimento sia di esiti della ricerca.

    La questione della separazione tra lingua e letteratura sembra di fatto superata se Alberto Destro, studioso di letteratura tedesca nonché Presidente della Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Lingue di tutta Italia, dichiara che la separazione era già di fatto operante nella pratica accademica: talune lamentele sulla lacerazione introdotta in un tessuto precedentemente unitario appaiono ingiustificate e persino risibili, dato che l’unitarietà era assicurata dalla soppressione di fatto di una delle discipline scientifiche formanti l’etichetta . Destro mette in guardia da un nuovo pericolo che sintetizza magistralmente: nell’enfasi della conquistata visibilità scientifica in qualche caso gli insegnamenti linguistici tendono ad esagerare e ripetono il medesimo errore, cioè affidando l’insegnamento strumentale della lingua a personale subalterno e limitando il proprio apporto unicamente a studi metalinguistici . Ove si realizzasse un’ulteriore, imprevista divaricazione tra una didattica di servizio e una ricerca scollegata dalla pratica, si sarebbe in presenza non del fallimento della riforma ma di una debolezza strutturale ben più grave e intrinseca all’impianto delle facoltà di lingue.

    Gli insegnamenti linguistici sono chiamati a riconfigurare sul piano scientifico e sul versante didattico un insegnamento che deve contemperare la ricerca linguistica, teorica e/o applicativa, con il costituirsi di una pratica discorsiva in grado di misurarsi, ieri ma ancor più oggi, con i partner europei e con paesi extraeuropei sempre più dominanti nel panorama mondiale (De Mauro). L’esperienza svedese offre al riguardo un assetto invidiabile, poiché gli studenti raggiungono abilità comunicative e capacità di analisi teorica di alto livello: al primo anno studenti del corso di base si confrontano con testi in italiano di Ginzburg, Ammaniti, Maraini, Lodoli, Sciascia, per passare al secondo a La coscienza di Zeno di Svevo, a Elsa Morante a Pirandello per parlare delle letture di esclusivo ambito letterario. A studenti non ancora specialisti si richiedono prestazioni alte e di qualità che danno risultati eccellenti come testimoniano le partecipazioni ai dottorati e alla ricerca dei molti frequentanti (Nystedt).

    Altri due aspetti trovano specificazioni nel volume. Il primo è relativo alla funzione degli insegnamenti linguistici teorico-applicativi nella costruzione dell’apprendimento e nella formazione dei futuri docenti di lingua (Bernini, Balboni). Dai contributi si coglie per differenza la distanza tra queste articolazioni della ricerca e gli insegnamenti di lingua: non si corre il rischio di sovrapposizione, come paventa qualche collega di lingua, se ci si orienta per una didattica costruita sulla ricerca in quanto sono distanti i fondamenti epistemologici delle due aree per quanto contermini. Il secondo aspetto riguarda il rapporto da intrattenere con i centri linguistici di Ateneo. Le esperienze riportate a stampa danno il segno della divaricazione esistente e possibile tra centri che hanno svolto la loro funzione costruendola su una ricerca misurata sulle necessità di un’utenza plurivariata (Ambroso-Puglielli), e centri che, nati in anni recenti e con scarsa tradizione alle spalle, incentrano la loro essenza in un gamma di servizi per quantità e qualità in linea con il Framework europeo (Graziano). Al di là delle posizioni diversificate, le proposte provenienti dai CLA sono metodologicamente fondate e … scientificamente valide (cfr. C. Vergaro a cura di, Verso quale CLA? La ridefinizione dei ruoli dei Centri Linguistici di Ateneo nella prospettiva dei nuovi ordinamenti , Edizioni Scientifiche Italiane) ma non sempre orientate alla ridefinizione dei loro rapporti con le Facoltà di Lingue, che per istituzione non possono certo avere con le lingue lo stesso rapporto delle altre facoltà.

    Nel 1968 al Congresso della Società di Linguistica Italiana, Tullio De Mauro presentò un rapporto sullo stato degli insegnamenti delle lingue in Italia. Partito da una ricognizione del Corso di Lingue e letterature straniere dell’università di Palermo dove insegnava, egli allargò lo spettro osservativo a quasi tutti i corsi di Lingue comprendendo gli insegnamenti linguistici presenti nelle facoltà di Lettere. Il panorama non era dei migliori: la cattedra di Linguistica generale era attivata solo a Palermo, gli insegnamenti delle Lingue erano demandati a figure non apicali e il complesso della qualità dei laureati non sempre all’altezza delle aspettative. Da allora tanto è stato fatto e di buono ma c’è sempre un tempo per fare di meglio magari in tempi più rapidi.

    LE LINGUE NELL’UNIVERSITÀ: IERI E DOMANI

    Tullio De Mauro

    L’insegnamento istituzionale di lingue straniere è andato variando nel tempo in funzione del diversificarsi delle richieste emananti dallo sviluppo delle società e delle culture. Tracce ne troviamo già nel Vicino Oriente Antico, nelle tavolette con cui gli scribi della Mezzaluna Fertile mettevano in corrispondenza parole delle assai diverse antiche lingue in presenza: qualcuno doveva conoscere tale corrispondenza, che in accadico si diceva mithurtu, e qualcuno doveva impadronirsene per facilitare lo scambio di lettere e i contatti tra popoli, commercianti, sovrani, in quell’area multilingue. Il motore era allora l’esigenza di scambi, di conoscenza reciproca, mediata dalla conoscenza delle diverse lingue e tale è restato. Niente di nuovo sotto il sole, potrebbe dirsi. In certo senso è così, ma nuove perché sempre più estese e pressanti sono andate diventando le esigenze di contatto tra popoli di lingua diversa.

    Non ripercorrerò qui la storia plurisecolare, anzi millenaria di tale insegnamento, se non per ricordare da subito che esso ha incontrato non poche resistenze anche in epoche recenti e specialmente in Italia. Alcuni anni fa con Patrick Boylan abbiamo ricostruito in parte queste resistenze nostrane. Ancora un secolo fa insegnamento e apprendimento venivano considerati non necessari alla formazione delle élites colte, relegati in ordini e tipi di scuola inferiori, esclusi dai magni licei classici. Nelle università l’insegnamento propriamente linguistico è restato fino ad anni recenti affidato a personale avventizio ed entrava negli ordinamenti solo attraverso la porta dell’insegnamento delle letterature straniere. Grandi studiosi di letterature straniere consideravano con sospetto le richieste di sviluppare un livello universitario di insegnamento e apprendimento, se non altro al fine di formare adeguatamente quegli insegnanti elementari e medi di lingue straniere di cui era intanto aumentato il bisogno. Voi volete trasformare l’università in una Berlitz, in una scuola per portieri d’albergo, si sentiva dire chi chiedeva lo sviluppo di insegnamenti e apprendimenti linguistici nell’università e di livello universitario, implicanti cioè non solo la ineludibile, preziosa dimensione della buona conoscenza pratica, ma la riflessione culturale e critica connessa e, dunque e infine, una dimensione e prospettiva di ricerca scientifica sulla materia.

    Tracce di questa resistenza permangono. E sono sempre più in bizzarro contrasto con l’ormai profondo ed esteso bisogno di possesso di lingue straniere. Vorrei richiamare almeno alcune fonti di questo rinnovato bisogno.

    Una fonte importante è legata alla diminuzione del potere esclusivo degli Stati sovrani che in larga misura si presentavano ciascuno come monolingue. Non era e non è vero. Tuttavia, per quel che vero fosse, si deve osservare che quel potere è oggi contrastato da due ordini di fenomeni. Uno più evidente, su cui tornerò tra breve, è la formazione di grandi aggregati multistatuali e multinazionali. L’altro è più nascosto, ma, per gli aspetti linguistici, ancora più rilevante. Su di esso ha richiamato magistralmente l’attenzione Sabino Cassese in una serie di saggi raccolti sotto il titolo Oltre lo Stato.

    A quanti nelle facoltà umanistiche hanno ancora dubbi residui sull’opportunità di un insegnamento e apprendimento alto delle lingue e di un adeguato sviluppo della ricerca linguistica nel settore, suggerirei almeno e in particolare la lettura del saggio Tartarughe, gamberetti e procedure. Non è, come potrebbe parere dal titolo, un saggio di semantica à la Lakoff. Si tratta d’altro. Dalla Banca Mondiale a organizzazioni del commercio, dell’ambiente, di settori produttivi sono andate sviluppando delle entità sopranazionali, che nascono per l’accordo di Stati che accettino di aggregarvisi, e che hanno un largo margine di autonomia nell’emanare norme e determinare politiche nei settori più svariati, spesso agendo su chi opera nei diversi settori senza l’intermediazione degli Stati. Una norma scritta in inglese o in francese ricade sulla testa e sulle attività di chi si occupa della pesca di gamberetti, di ciò che lui, in italiano, chiama gamberetti. I lessici delle lingue, specie in materie così comuni, sono lontani dal mostrare quelle puntuali, univoche corrispondenze che erano il sogno, forse, degli antichi scribi del Vicino Oriente, e sono il sogno di chi oggi, specie tra gli informatici, spera di poter costruire una ontologia universale esplicita che metta d’accordo le idiosincrasie lessicali delle lingue del mondo. In attesa dell’ontologia universale non resta che sviluppare adeguate competenze linguistiche in lingue diverse sia a chi opera nelle entità oltre lo stato sia a chi inopinatamente subisce le conseguenze di quell’operare.

    L’altra grande fonte di nuovi bisogni di conoscenze linguistiche estesi a intere popolazioni è la formazione di aggregazioni di Stati di lingua diversa in un’unica compagine sopranazionale. In questi giorni è nata la prospettiva di una fusione tra due giganti demografici ed economici: la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica Indiana pensano di dare vita a una nuova unità, che ha già pronto il nome, Chindia o, in italiano, Cindia: due miliardi e mezzo di persone che parlano una sessantina di lingue ufficiali diverse dovranno convivere anche linguisticamente.

    Appartiene a quest’ordine di entità sopranazionali l’Unione Europea, la struttura formale alla quale dobbiamo guardare per capire che cosa dovrebbero, o potrebbero, fare le università in Europa e in Italia. L’UE prevede 20 lingue ufficiali parlate nei 25 attuali Stati. Ma già dal 1° gennaio prossimo venturo, le lingue diventeranno 21 (con l’aggiunta dell’irlandese) e, nel corso dell’anno, con l’aggiunta del bulgaro e del rumeno, saranno 23. Inoltre, aleggia sullo sfondo la ventiquattresima lingua, il turco (se l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea non verrà bloccato).

    Di fronte a questa varietà di lingue, parlo solo delle lingue di Stato, non delle altre lingue - circa trenta - ufficialmente riconosciute (ad esempio il sardo, il friulano, il neo-greco per quanto riguarda l’Italia), l’Unione Europea ha ufficialmente assunto un atteggiamento positivo legato anzitutto all’intenzione politica di promozione di quella che dal 1995 viene chiamata una learning society. Su questa strada, espliciti sono stati gli accordi di Lisbona del 2000 e, soprattutto, l’articolo 21 della Costituzione Europea (discusso in questo momento e in parte contestato in Francia).

    L’articolo 21 sancisce il diritto-dovere da parte dei cittadini, e complementarmente da parte degli Stati, di preservare le identità linguistiche nazionali e, nello stesso tempo, alimentare la conoscenza e l’acquisizione effettiva di più lingue straniere.

    Nel 2005 si è arrivati alla stesura di un Rapporto europeo di educazione e formazione che fissa, per quanto riguarda gli aspetti linguistici, degli obiettivi da raggiungere entro il 2010. Mi permetterete di ricordarli accompagnandoli con qualche commento.

    1– Migliorare la qualità della formazione dei professori di lingue.

    2– Promuovere l’apprendimento precoce di lingue. Per ora, nell’Unione Europea, solo la metà della popolazione in età scolastica impara una lingua straniera diversa dalla materna. La richiesta europea è che siano almeno due le lingue non materne insegnate nella scuola di base.

    Raccogliendo un’indicazione di un precedente Ministro della Pubblica Istruzione e dell’Università, nel 2000/2001 abbiamo varato un provvedimento che prevedeva l’avvio dell’insegnamento nella scuola di base di due lingue, di cui una fosse quella inglese (non necessariamente la prima e, soprattutto, non l’unica). Tale provvedimento è stato prontamente cassato da un altro atto preso dal governo successivo, e siamo tornati all’insegnamento nelle scuole di una sola lingua straniera, generalmente l’inglese.

    3– Sviluppare l’apprendimento CLIL, il Content Language Integrated Learning, cioè l’apprendimento di una lingua favorito dal fatto che materie di insegnamento altre (non la lingua stessa) siano insegnate in quella lingua; quindi lezioni di analisi matematica o di linguistica generale in inglese, o in francese, o in tedesco ecc. per favorire l’apprendimento di queste lingue attraverso l’apprendimento di contenuti. Nonostante un buon volume di Gisella Langé del 2000, che resocontava lo stato di queste iniziative nelle scuole medie superiori italiane dove si era già riusciti a far navigare un progetto CLIL, direi che il sistema resta sconosciuto. Non solo, ma desta perfino sospetti. Ricordo le pessime reazioni della nostra stampa quando è giunta notiza che in molte università olandesi diversi insegnamenti sono svolti in inglese. La lettura della nostra stampa è stata "il fiammingo è morto, gli olandesi

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