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L'ultimo tesoro
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Ebook397 pages6 hours

L'ultimo tesoro

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About this ebook

Cris, nel suo vagabondare si trova in un piccolo paese di montagna: Pracchia.
Tutto sembra proprio come dovrebbe essere: gente tranquilla, aria pulita, la pace assoluta.
Invece no.
L’ombra e forse solo l’illusione di un incredibile tesoro hanno fatto di quel paese e delle persone che ci vivono e ci hanno vissuto un posto da dimenticare, da lasciare, finchè sono in tempo.
Una sorta di loggia, di associazione segreta, si è costituita nel tempo per perseguire il miraggio.
Sono arrivati ai crimini più efferati, fino all’omicidio.
Nel giro di poche ore Cris si trova coinvolto nel vortice con avanti una sola via di uscita…
LanguageItaliano
Release dateNov 30, 2015
ISBN9788892524231
L'ultimo tesoro

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    L'ultimo tesoro - cristiano gaggioli

    Cristiano Gaggioli

    L'ULTIMO TESORO

    Copyright © 2014 Cristiano Gaggioli

    Edizione digitale: facilebook

    www.facilebook.it

    info@facilebook.it

    ISBN: 978-8892524231

    Nessuna parte di questo ebook può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l'autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti.

    L'autore

    Cristiano Gaggioli è nato a Pistoia, vive a Montale (PT) e lavora come impiegato.

    A dire il vero ha trascorso i suoi primi trentasei anni di vita a Pracchia, piccolo, piccolissimo, paese montano sul confine tra la Toscana e l'Emilia Romagna.

    Quando è lì, nei suoi territori, a stretto contatto con il verde delle sue montagne, con la trasparenza delle acque dei suoi fiumi, con l'aria pungente delle sue valli, scrive.

    Ha pubblicato il suo primo romanzo, L'Ultimo Tesoro, nel mese di Ottobre del 2009.

    Ha pubblicato nel mese di gennaio 2012 la prima raccolta di 13 racconti, più due inediti. dal titolo Istantanee di caccia: racconti, aneddoti, frammenti e avventure di vita venatoria.

    Nel 2013 ha pubblicato, con la casa editrice Factory di Montale, il suo secondo lavoro importante: il romanzo Cacciatori di Dote.

    Vorrei dedicare questo mio lavoro a mio figlio Massimiliano che con la sua venuta mi ha dato quel coraggio e quella voglia di fare che forse negli anni addietro avevo soltanto perso e a mia moglie Marzia che è la controparte assoluta di me.

    L'ultimo tesoro

    Eravamo rimasti soltanto in tre in quel locale, io, il vecchio e il barista. La discussione di quella sera volgeva sul tema: la ricchezza. Nessuno di noi avrebbe pensato alle conseguenze di quello che ci saremmo scambiati nei nostri discorsi tra ubriachi.

    Forse oggi darei una nuova svolta a quella serata sapendo il guaio in cui mi andavo a cacciare, avrei forse lasciato perdere, mi sarei allontanato.

    Forse solo arreso.

    Il vecchio era quasi addormentato sul bancone del bar, mentre farfugliava, pensando forse di parlare con i suoi fantasmi, balbettando diceva: «Voi non mi credete, ma proprio qui tra le nostre valli giace il più grande tesoro che l’uomo ha mai potuto sognare».

    Io e il barista, un po’ per stanchezza un po’ per voglia di casa, letto e riposo lasciammo quelle parole lì, campate in aria; non indagammo allora di quello che il pazzo, così alcuni lo chiamavano, in un momento di forte lucidità, riferiva forse per la prima volta proprio a noi. Quello che diceva non calzava minimamente con la logica alcolica del discorso. Non saprei proprio perché in quella occasione emerse il suo segreto. Ripensai per molto tempo alla causa di tanto ardire, ma ancora oggi non ne trovo alcuna situazione logica.

    Nel suo volto non si leggeva mai, neanche quando il vino era riuscito a prendere il sopravvento, la follia. Né tanto meno potevo pensare che quel vaneggiare fosse una mania di grandezza o qualcosa di inconscio mirato a mettersi in mostra verso gli altri.

    Fatto sta che finimmo di bere i nostri drink ciancicando qualche brindisi alle donne e alla fortuna e poi andammo a letto.

    Quella notte feci talmente tanti sogni che, il mattino seguente, ebbi appena il coraggio e la forza di appuntare qualcosa su un quaderno vecchio di anni, con le pagine ingiallite dal tempo e dalla volontà di lasciarlo lì dove si trovava da sempre: nel ripiano sotto il comodino. Era lì da anni. Chissà chi lo avesse lasciato.

    Non so cosa scrissi sui quei fogli ingialliti dal tempo e dalle mani umide di centinaia di persone che probabilmente le avevano invano sfogliate. Per me erano un simbolo, un’apertura verso un nuovo universo totalmente bianco. Insomma, erano solo da creare, con i simboli e i colori che soltanto io volevo dare e soprattutto vedere.

    Pensai alla mia vita, alle possibilità, al denaro e alla sorte che avevo avuto. Era già da diversi anni che giravo il mondo alla ricerca dell’incanto: il momento o forse solo l’attimo che scatena la grande emozione. È però, natura dell’uomo, l’attrazione verso qualcosa che non hai, che non hai raggiunto, così la mia ricerca dell’incanto si era trasformata, a mia conscia insaputa, nell’inseguimento dell’incanto successivo.

    Nulla di ciò che riuscivo a provare era importante più di quello che avrei trovato dopo. Riuscivo però a percepire che era solo una mera questione di tempo. La struggente attesa di giungere in prossimità del traguardo e la assoluta volontà di vedere oltre quello, la strada per arrivare e quella successiva. Non importava quale essa fosse e l’importanza che in quel momento ricoprisse. Tutto quello che volevo era la costruzione mentale del percorso mirata ad arrivarci.

    Mentre scrivevo di un viaggiatore che nei suoi mille vagabondaggi trovava una valle nuova, un luogo lontano dai rumori del mondo, ricordai appena, o forse ebbi solo una sensazione, un passaggio, di quello che il vecchio la sera prima ci aveva così semplicemente detto, ma non appena trascritto tale sensazione, mi chiesi: Ma chi era in realtà quel vecchio, il sogno che si confonde con la realtà o soltanto un pazzo ubriaco che nulla ha che vedere con me, la mia vita, e la realtà del mondo che ci circonda?. La domanda mi rimbalzò da un orecchio all’altro per tutta la mattina, ma non ebbi né la volontà né la voglia per alzarmi da quel letto che, in quel momento, vedevo come unica realtà del momento: la mia stanchezza. Il resto non era nulla.

    Che cosa provavo nella solitudine di quel letto in un minuscolo albergo di un piccolissimo paese? Non era certamente il mio incanto e in quel momento non vedevo neppure in quello stato la via verso una nuova meta. Mi sbagliavo, ahimè se mi sbagliavo.

    Prima di mezzogiorno decisi che probabilmente era giunta l’ora per concedersi una colazione decorosa e curativa per la sbornia della sera precedente.

    Mi alzai e dalla camera dell’albergo, l’unico del paese, che avevo affittato a tempo indefinito, mi affacciai alla finestra per vedere di giorno quel piccolo paese di montagna. Con la luce del sole sembrava meno cupo e triste di quando ero arrivato la sera prima.

    Sentendo bussare alla porta, non certo con poco imbarazzo, visto che ero completamente nudo, dissi: «Sono in bagno; potete ripassare più tardi?».

    Per tutta risposta sentii una breve risata sommessa e solo dopo avere fatto il giro completo della stanza ed essermi assolutamente accertato che in quella camera non c’era il bagno, compresi decisamente.

    Era giugno e il clima era già abbastanza mite così decisi per un paio di jeans e una maglietta a maniche corte Lacoste, scarpe da barca e via. Scesi nella hall – se così si può chiamare – e chiesi al tutto fare dell’albergo dove potevo mangiare qualcosa di tipico.

    In tutta risposta l’individuo mi disse: «Non credo che in questo paese troverà qualcosa di tipico da mangiare: qui tutto fa schifo, compresa la gente».

    «Mi pare una bella visione della vita la sua» dissi distrattamente al tizio dietro il banco.

    Lui mi guardò e poi forse, rendendosi conto che in fondo ero solo un cliente e riuscendo a capire che ero uno di quelli che gli procurava il lavoro, disse: «Mi scusi, non intendevo essere scortese. Nella piazzetta principale di questo paese ci sono un paio di locali dove servono ottime colazioni».

    Uscito dall’albergo, già molto contrariato dall’atteggiamento di quel tizio, lo trovai lì. Non saprei dire se lui mi stesse aspettando o fu solo una coincidenza, ma sta di fatto che lui era lì. Il vecchio sotto il sole aveva un aspetto decisamente più sano di come avevo potuto giudicare la sera precedente. Era seduto su una panchina di legno, sotto un ippocastano più vecchio di me e di lui insieme, con il suo sigaro in bocca e la tesa del cappello che gli faceva ombra agli occhi. Sciatto nel vestire, ma non trascurato o trasandato. Si notava che probabilmente era una persona sola; immaginai che potesse vivere in una casa vecchia e spoglia, con le pareti ingiallite dal tempo e dal fumo del focolare. I suoi abiti erano vecchi e consumati, ma non sporchi. Magari i bottoni della giacca erano attaccati con del filo diverso uno dall’altro. Pensai che quell’uomo guardasse solo all’utilità delle cose. Chissà che cosa lo aveva portato ad avere una concezione della vita e del mondo così stravagante e al tempo stesso così tangibile. In un mondo dove fin da piccoli si è abituati all’agio e soprattutto alle apparenze delle cose, sembrava che quel vecchio fosse l’ultimo residuato di una generazione di uomini umili.

    Il lavoro, la casa, la famiglia, il pane, la terra apparivano per loro come le uniche cose degne di attenzione.

    Uscii da quei miei pensieri quando mi parlò.

    Nel vedermi fermo sulla porta del mio alloggio, sembrò non riconoscermi, ma mi sbagliavo; appena gli passai vicino mi chiese: «Ehi straniero, come ti va la giornata oggi?» e poi, prima che io potessi rispondergli continuò. «Quante fandonie che si dicono la sera al bar, specialmente se si è pieni di quei miscugli che Alfonso ci prepara».

    Gli sorrisi e dissi: «Mi chiamo Cristiano, ma tutti mi chiamano semplicemente Cris».

    Vedevo in lui il ritratto della gente di casa mia. Quel tono quasi beffardo di dire le cose. L’esperienza di una vita al servizio della nostra generazione e noi, noi non l’accettavamo. Tutto l’aiuto offerto da chi è vissuto più di noi non va assolutamente accettato. Che spreco. Quanto dolore in loro al nostro rifiuto. Domani saremo a offrire il nostro e già sentiamo una punta di dolore al pensiero che non sarà accettato. Però oggi energicamente rifiutiamo.

    «A quali fandonie ti stavi riferendo?» gli dissi, tornando ancora dai miei pensieri.

    Lui fece finta di non sentire quello che gli chiedevo e mi disse: «Il mio nome è Andrea, ma tutti in paese mi chiamano il vecchio o il pazzo vedi un po’ tu».

    «E allora vecchio, mi sapresti indicare un posto dove posso mangiare qualcosa di buono in questo paese?».

    Lui, grattandosi un po’ la barba incolta di qualche giorno, mi disse soltanto: «Vedi Cris, non è importante sapere dove mangeremo oggi, ma è invece indispensabile sapere quello che abbiamo mangiato ieri, è la storia. Solo quella è importante. Senza la storia né io, né tu, nessuno saprebbe perché oggi viene dopo ieri, perché il sole sorge e poi tramonta, perché la mia barba è bianca ed era nera. Mi hai capito?».

    «Non sono proprio sicuro di avere afferrato il concetto» risposi «comunque sia io ora ho fame, perché non mi indichi qualche posto decente e magari non mi fai compagnia, visto che è ora di pranzo?».

    Lui, dopo un breve istante di riflessione, mi congedò, o io capii così, dicendo: «La compagnia è quell’istante della nostra vita dove noi dobbiamo scendere a dei compromessi, è quel tempo in cui io sono con te e tu con me, è lo stare insieme perché è giusto e doveroso che lo sia, è l’angoscia dell’uomo che crede di vivere ma non è».

    Mi lasciò così, in quel quadretto: la piazza, le panchine, la gente che va e che viene, il sole; da solo, mentre seguivo il suo passo lieve e stanco che si allontanava in uno di quei vicoli fatti di sassi e porte, scale e archi.

    Lo vedevo andare via nel sole con quei pantaloni vecchi di anni, lavati e lavati chissà quante volte e soprattutto chissà da chi.

    Quel sapore antico delle cose, ecco cosa rappresentava.

    Sinceramente non capii che cosa intendesse dire con il suo discorso. A senso provai a immaginare che non amasse la compagnia, comunque non ci pensai più di tanto, in fondo era soltanto un ubriacone che avevo conosciuto per caso una sera in un bar.

    Cercai un posto dove poter mangiare qualcosa da solo. Lo trovai con tutta quella difficoltà che riscontriamo quando andiamo in un paese diverso, forse ostile, ma con il sole, tanto sole.

    Il locale era quasi vuoto, soltanto i volti mi fecero capire dove veramente ero. Le rughe del vecchio erano niente in confronto ai solchi che ognuno di quegli uomini aveva in volto. La stanchezza dei loro sorrisi e al tempo stesso grugniti, mi fece quasi trasalire: ma in che strano posto mi trovavo?

    La fame ebbe il sopravvento, così mi avvicinai al bancone del locale cercando di attirare l’attenzione sul tizio che stava dall’altra parte. Dopo alcuni colpi di tosse e qualche gorgoglio il tizio mi chiese: «Che cos’è amico, sei allergico a questo posto?».

    In tutta risposta gli dissi: «No, anzi, vorrei poter mangiare qualcosa di fresco» e aggiunsi «… in piena tranquillità».

    Il tizio che prima aveva avuto un atteggiamento così particolare, uscì dal proprio bancone e avvicinandomi, forse in tono di scusa mi porse la mano dicendomi: «Mi chiamo Bruno, non fare caso alla nostra accoglienza, ma sai, qui non si vede nessuno per giorni, così anche uno straniero di passaggio, ci fa un po’ specie».

    Sinceramente non sapevo cosa rispondere, così, nella più totale diplomazia, riuscii soltanto a ribattere: «Vorrei soltanto mangiare qualcosa».

    Bruno rappresentava quello che nell’immaginario collettivo è l’oste di un bar. Uomo sulla cinquantina, barba incolta di giorni, pantaloni di stoffa scura, bretelle e maglietta a maniche corte bianca un po’ inzaccherata da schizzi di vino o altro. Capelli scuri con qualche venatura bianca e poi l’immancabile brillantina che dà a prima vista quella sensazione di unto. Lo stecchino da denti sempre in bocca e la smorfia impostata del rude.

    Vi fu un breve silenzio, poi ci accordammo per una colazione, sebbene l’ora ci consigliasse qualcosa di più, a base di frutta fresca e yogurt con qualche fetta di pane tostato e della marmellata che mi assicurò prodotta dalla nonna di chissà quale famiglia del paese.

    Una volta seduto a un tavolo posto in angolo del locale, ebbi modo di osservare più attentamente il locale stesso e la gente che c’era. Devo dire che il bar è un po’ come una malattia; la gente che ci vive di continuo è tanto più contagiata quanto più fissa la sua dimora vicina al banco.

    In quel locale fatto di tavolini per il gioco delle carte e sedie di formica acquistate d’occasione, una diversa dall’altra e malate anche loro di un’età ormai tarda, c’era la schiera dei malati. Uomini e donne, giovani e anziani, poveri e ricchi.

    Erano tutti lì. Ognuno con i suoi fantasmi.

    Ognuno con la sua storia da raccontare e da dimenticare in quei giorni dove l’oblio della sbornia è sempre più lungo e la lucidità sempre più corta. In alcuni di loro però c’era uno stato di apatia, sembravano rassegnati. Il loro mondo alla fine si riduceva tutto lì. Non c’erano famiglie da rispettare o figli e nipoti da amare. C’era soltanto l’unico e al tempo stesso beffardo bicchiere. Lo stesso che in realtà li manipolava e li soggiogava rendendoli a loro insaputa schiavi e reclusi dentro una prigione senza guardiani e senza sbarre: la loro mente.

    Bruno arrivò con la mia colazione e colse subito, nella mia espressione, l’interrogativo che mi ponevo: perché.

    Sorrise e disse: «Hanno finito tutto, perfino la voglia di vivere. Hanno cercato una serenità troppo terrena, troppo materiale: e non l’hanno trovata».

    Posò il vassoio sul tavolo e tornò dietro il suo banco a sciacquettare qualche bicchiere. Anche lui doveva fare parte di quel contesto. Probabilmente il suo oblio non era ancora suscitato da una causa vera e propria e forse era solo condizionato dalla sua posizione, fatto sta che anche lui, sotto il banco, teneva una bottiglia personale.

    Mangiai in silenzio così come sembrava essere abitudine nel locale, poi pagai e uscii di nuovo per vagabondare nelle vie e viuzze che il piccolo paese mi riservava.

    Era di mercoledì e nel paese c’era il mercato rionale.

    Vedevo nella piazza, l’unica piazza di quel paese dimenticato da Dio, mille colori e decine di bancarelle addobbate come se fosse Natale. Per due giorni alla settimana quel posto cambiava immagine: era diverso. I colori, la gente delle borgate vicine, le merci dei mercanti sembravano dipingere su uno sfondo grigio un arcobaleno tanto bello quanto effimero.

    Immettermi in quel flusso di gente e colori fu come vivere una di quelle emozioni che non puoi dimenticare. Il vocio dei venditori, la gente che mi passava accanto, il mormorio delle madri che acquistavano di tutto e al miglior prezzo, i bighelloni come me che si nutrivano di quella linfa e giravano e giravano per quell’enorme bazar all’aperto, in cerca di chissà che cosa.

    Non potrò mai dimenticare il trambusto dei bambini che correvano felici in quella piazza. Paragonai, forse solo per similitudine, la loro spensieratezza alla mia follia: solo in un paese di sconosciuti.

    Perché ero li?

    Perché non uscivo da quel vicolo e abbandonavo tutto? Sì, ma poi che cosa avrei dovuto abbandonare.

    Solo una sensazione mi teneva lì.

    Mentre i miei pensieri vagavano in una direzione che solo oggi posso comprendere mi ritrovai al solito punto di partenza: la piccola piazza della locanda dove avevo conosciuto il vecchio.

    E lui era lì.

    Sembrava aspettarmi. Seduto su una poltrona vecchia come la sua età, era lì; inconsciamente, sapevo fin dall’inizio che c’era.

    Mi oscurai il sole con la mano sugli occhi poi con un sorriso dissi: «Ehi vecchio, ancora non ho capito se sono io che ti seguo o se tu sai dove farti trovare».

    Non disse nulla per pochi attimi che sembravano un’eternità, e io, pensando di averlo offeso, mi voltai per andare, ma poi, con un senso di sollievo, mi sentii rispondere: «Io non posso dirti oggi perché io sia davvero qui, ma è al contempo vero che tu non potrai dire a me perché tu ci sia; ciò che è davvero importante è che noi oggi siamo attratti in questo posto. Non pensare alle cause, ma solo al perché». Ancora una volta mi colpì con i suoi strampalati aforismi e di nuovo non capii nulla di quello che con i suoi discorsi, probabilmente machiavellici, voleva dire. In compenso ebbi la netta sensazione di capire perché lo chiamavano il pazzo. Feci una grossa risata a quell’ennesimo discorso incomprensibile e salutandolo con la mano me ne andai. Però ebbi come la sensazione che in quel preciso momento stesse misurando il mio grado di affidabilità prima di aprirsi e parlare. Pensai che anche lui qualcosa di importante ce l’avesse da dire.

    Bighellonai per tutto il resto della giornata nei posti più nascosti di quel paese, godendo il sole e la tranquillità; non avrei mai creduto di riscoprire in ogni angolo e in ogni aia le cose semplici della vita: la massaia che stende il suo bucato, il pensionato che insegue i battiti del tempo, il bottegaio che sfoggia tutta la sua merce, e così via.

    È davvero strano, ci sono luoghi dove la frenesia della vita è tutto e ce ne sono altri dove il peso del lento passare del tempo è opprimente. Ognuno di noi finisce con fare qualsiasi cosa pur di arrivare a sera. È l’eterna differenza tra vivere ed esistere. Da una parte l’uomo è convinto di dominare il tempo, di cavalcarlo; dall’altra l’uomo ha preso coscienza che lui e gli altri esseri viventi ne sono dominati.

    Nel mio vagabondare arrivai, in ogni direzione, ai confini del paese.

    Quell’agglomerato di case era protetto, se così vogliamo dire, da boschi di castagni misti a faggi e cerri, e io andai. Mi incamminai verso la cima di un boschetto. Appena entrato nelle prime fronde trovai un piccolo sentiero, che all’apparenza sembrava insignificante, ma in realtà era molto battuto, non solo dal piede umano, ma anche da muli o cavalli. Non sembrava una zona di passaggio e presumevo che non vi fossero pascoli più in alto. Non potevano essere animali di un maneggio né tanto meno allo stato brado: un altro mistero che si aggiungeva ai tanti che avevo trovato in quella zona.

    Io ero e tuttora sono un uomo abituato a vivere parte del mio tempo nei boschi, perché mi piace scoprire la natura, perché lo stare in silenzio in quelle zone lontano dal caos del mondo mi rende tranquillo e sereno. Per questo motivo ho imparato a conoscere il silenzio del bosco. In realtà è un silenzio che non è, perché fatto di mille suoni armoniosamente uniti da madre natura. Quindi questa melodia diventa per chi la conosce il silenzio del bosco.

    Qualsiasi rumore o suono che interrompe questo dolce arpeggio non è parte integrante del bosco. È quindi facile sentire se qualcuno si avvicina. Un ramo che si spezza, la calata pesante di un passo poco attento, lo strusciare degli indumenti sintetici producono suoni che vanno a rompere questa dolce melodia.

    Dopo pochi minuti trovai due piccole piazze una sopra l’altra a una distanza di circa 50 metri. In un primo momento pensai che fossero le piazze carbonaie dove molti decenni prima intere famiglie ci passavano la loro vita producendo dal legno fresco il carbone. Non era così perché quei luoghi non avevano nulla a che vedere con la produzione del carbone. Il colore della terra non era scuro, quasi antracite, come ne avevo viste in altri luoghi. La terra era terra, variegava da un nocciola chiaro fino al marrone testa di moro. Mentre ero ricurvo ad analizzare nel palmo della mia mano quella terra, sentii un rumore nuovo, qualcosa di molto lieve ma decisamente fuori nota con il silenzio del bosco.

    Mi misi al riparo sotto un grosso cesto di faggio e restai immobile. Aspettai qualche minuto e lo sentii ancora. Ora ero davvero sicuro: qualcuno mi stava seguendo. Riuscii solo a vedere la sagoma della persona che mi seguiva tra le fronde che si muovevano sospinte da un leggero vento di scirocco. Anche lui, nell’attimo in cui non percepì più i miei movimenti, girò su se stesso e si allontanò velocemente o così mi parve. Non era un uomo di bosco e questo lo capii dal rumore dei suoi passi mentre si allontanava, perché non faceva caso a dove metteva i piedi; in molte occasioni sentii chiaramente lo spezzarsi di ramoscelli sotto il peso della persona.

    Attesi ancora qualche minuto poi ritornai nella piazza e la cosa che mi balenò subito all’occhio fu un pezzo di legno che, seppure fosse già vecchio di anni, era troppo perfetto per essere un ramo spezzato o qualcosa di simile. Lo presi subito in mano e capii che poteva essere un manico di piccone o di pala. Quella piazza sembrava essere un cerchio quasi perfetto. Solo l’uomo e con molta attenzione ai particolari poteva averla prodotta.

    Il centro della piazza era evidenziato da una grossa pietra di forma triangolare. Nel corso del tempo la vegetazione del sottobosco l’aveva inglobata e sembrava parte integrante dei quel sistema. Pensai che probabilmente fosse un punto di incontro di alcuni sentieri ormai abbandonati.

    L’uomo che in precedenza mi aveva seguito tentò di ritornare su i suoi passi. Lo avvertii subito, così decisi di tornare in paese facendo un baccano sufficiente a rimetterlo in fuga.

    In un primo momento pensai che fosse una coincidenza il fatto di essere seguito, anche perché non c’era motivo e mi imposi di credere che fosse soltanto un cercatore di funghi.

    Il sole era calato da poco quando incontrai, nell’intreccio di strade e selciati, una piazza; era davvero una piccola piazza con il lastricato come pavimento, tre panchine, quattro piante e due edifici vicini. Uno, come a dirlo, era il palazzo comunale, o meglio quello che ancora ne restava, viste le precarie condizioni in cui si trovava; l’altro, invece, era una minuscola biblioteca, aperta solo tre giorni la settimana.

    Nel vedere quel bel quadretto, ripensai a quello che mi era accaduto e soprattutto a quello che mi stava proprio in quel momento accadendo. Tutto sommato non volli credere all’idea che qualcuno mi stesse osservando e per giunta seguendo. Con una lucida riflessione andavo sempre verso un punto cieco e oscuro: la ragione.

    Infatti non ne vedevo alcuna per un comportamento come quello; non trovai nella mie mosse passate qualcosa che potesse avermi fatto cadere in fallo.

    Cinicamente pensai che in fondo non conoscevo e forse non avrei mai conosciuto nessuno in quel paese.

    E allora perché tanti misteri?

    Perché alcune persone mi osservavano di lontano e mi seguivano?

    Domande a cui solo adesso posso dare delle risposte certe.

    Solo adesso.

    Allora finivo col sorridere della mia nuova situazione: attore non protagonista in un film di spionaggio, forse solo umile comparsa.

    La cosa poteva però complicarsi se gli altri mi vedevano attore protagonista di un qualcosa che ancora mi sfuggiva.

    La fortuna, o soltanto la coincidenza con il giorno di mercato, volle farmi trovare la biblioteca aperta. Entrai quasi per gioco, cercando soltanto qualcosa per ammazzare il tempo nei giorni futuri: non fu davvero così. La biblioteca in fondo si riduceva a una piccola stanza che a prima vista poteva essere adibita per l’ufficio dell’addetto alla cura dei libri e una più lunga dove erano disposti, in file parallele, i libri. Nonostante tutto sembrava ben fornita.

    Il bibliotecario era un uomo piuttosto anziano, con la maggior parte dei capelli bianchi, abito gessato grigio, panciotto e camicia bianca. Senza parlare mi rifilò in mano un modulo da riempire e una penna indicandomi il piccolo banco adiacente al suo. Sembrava che anche lui mi conoscesse già.

    Dal suo atteggiamento pareva che non avesse voglia di parlare, né tanto meno di conoscere persone nuove. A dire il vero pareva che io fossi il primo della lista che non voleva assolutamente vedere.

    Ero amareggiato da quei comportamenti che tra l’altro mi lasciavano senza parole. Nella perplessità del momento, rimasi con quelle cose in mano a guardarlo e lui apparentemente seccato mi disse: «Se vuole prendere qualche libro o consultare qualcosa, deve obbligatoriamente compilare quel modulo».

    Dopo avere messo a fuoco tutto mi decisi e nel ringraziarlo dissi: «Sono interessato alla storia di questo paese. Vorrei che mi consigliasse qualcosa di interessante da leggere».

    Non potrei giurare quello che compresi come sua risposta comunque mi sembrò di capire: «Ecco un altro cercatore di fortuna!».

    Naturalmente non capii al momento quella sua affermazione, che, per quanto mi riguardava, non poteva che essere fuori luogo, comunque, facendo finta di niente, mi indirizzai verso lo scaffale, dove dall’etichetta posta in testa, si leggeva storia delle nostre origini.

    Che indice strano pensai, non appena lessi quanto scritto, comunque cominciai a sfogliare il primo volume che mi capitò in mano. Le poche cose che appresi su quel paese riguardavano la seconda guerra mondiale, perché era la zona dove passava la linea gotica ed era stato un posto di grandi combattimenti tra alleati e tedeschi. Tutto sommato senza un apparente motivo. Non poteva certo essere un centro strategico, anche perché era un paese incassato in una valle; non era l’unica via di collegamento tra centro e nord; non vi erano aziende di rilevanza; insomma, tutto faceva pensare a qualcosa di diverso, ma cosa?

    Dopo tre giorni di ricerche per comprendere l’interesse delle forze armate per quel paese, ancora non avevo trovato nulla che potesse darmene una spiegazione. Ormai ero diventato un assiduo frequentatore della biblioteca, al punto tale che avevo perfino fatto alcuni importanti progressi con Beniamino, il bibliotecario. Fu lui a dire, dopo la solita conversazione di sempre: «Ogni libro che è presente in questa biblioteca è formato di parole, ma è altrettanto vero che se tu leggessi lo stesso libro per dieci volte di seguito, potresti dare dieci interpretazioni diverse».

    Sul momento non dissi nulla, ma la mia riflessione si concentrò sulla teoria che non tutto quello che si vede, e soprattutto si legge, è oro colato. Così cominciai a dubitare di qualsiasi cosa. Mi sembrava persino che i sorrisi della gente che incontravo nelle viuzze del paese fossero diversi. Nulla era sicuramente vero e al tempo stesso nulla era decisamente falso. Non avevo scelta, dovevo parlare con il vecchio.

    A dire il vero era l’unica soluzione che avevo trovato per poter sciogliere questa matassa. Nulla mi dava più soddisfazione. Finivo col trovare mille e mille interpretazione in tutto quello che facevo e soprattutto vedevo. Si stava delineando in me una mole che, se non avessi posto subito rimedio, mi avrebbe certamente portato nell’oblio di quelle persone che avevo trovato per caso sedute in quel bar.

    Era forse questo l’unico e madornale sbaglio di tutti?

    Li immaginavo girare e girare intorno per finire poi col naufragare in una via concentrica sempre più lontano dal punto di arrivo.

    Finii col frequentare tutte le locande e i bar del paese, ma del vecchio nessuna traccia. Colto dalla disperazione andai in comune, ma anche lì nessuno seppe dare una risposta adeguata alle mie domande. Una impiegata sulla quarantina, con già i segni della vita nel volto mi disse: «Credo di conoscere la persona che sta cercando, ma è già così tanto tempo che non la vedo, che nella mia testa lo immagino morto chissà in quale anfratto di terra».

    Io che cercavo di comprendere i motivi di tanta difficoltà, nel rintracciare una persona in un paese di trecento anime, finii col chiedermi se quel vecchio lo avessi visto davvero e gli avessi anche parlato, o fosse solo il sintomo delle mie congetture mirate alla ricerca di qualcosa che non c’è. È strano quando si pensa di sapere e poi ci si rende conto che non sappiamo, oppure quando si pensa di avere visto e poi non si vede.

    Comunque tutta questa difficoltà e forse anche eccessiva riservatezza, mi apparve strana e poco sincera.

    La signora con cui stavo parlando, era una donna dai lineamenti mediterranei, non troppo alta, con occhi chiari e labbra spesse; decisi che nonostante tutto era una bella donna, e comunque quella matita decisa sugli occhi la faceva predatrice anziché preda. Mi chiese qualcosa mentre stavo decidendo che tipo di donna fosse, ma non la sentii neppure, così, apparentemente scocciata, mi chiese due volte: «Ma è sicuro che la persona che mi ha descritto fosse proprio in questo paese? Non avrà fatto confusione con qualche altro posto o qualche altra persona?».

    Non appena resuscitai dal torpore dei miei pensieri, le riconfermai: «Signora, sono assolutamente certo di quello che le dico e poi potrei presentarle alcune decine di testimoni che mi hanno visto parlare con il vecchio».

    In una sorta di cipiglio, lei mi rispose con determinazione:

    «Signore la prego, anche io sono sicura di quello che dico». Mi scusai ripetutamente di quella mia interpretazione infantile della persona che mi trovavo davanti e ingenuamente le proposi di cenare insieme quella sera stessa per rimediare a quell’atteggiamento sgarbato; naturalmente offrivo io.

    Lo feci così, senza riflettere e senza neppure pensare alle conseguenze che quel mio atteggiamento, in contro

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