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È solo un fulmine
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È solo un fulmine

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About this ebook

C’è qualcosa di oscuro che sta diffondendo il panico tra gli uomini della malavita e stupore tra gli inquirenti. Com’è possibile che gli assassini muoiano inspiegabilmente proprio nel momento di entrare in azione, che un giornalista ateo invochi giustizia divina e che un monaco faccia di tutto per non fare avverare una profezia che lui stesso custodisce gelosamente e che si tramanda da secoli? Che c'entra un boss della malavita con un frate templare morto settecento anni fa? Come può una caffetteria essere al centro della storia e il caffè essere il legame che unisce i protagonisti? Può essere che sia tutta colpa di un fulmine. Il protagonista del romanzo è un giornalista di cronaca nera locale che ha fatto del suo mestiere una missione. Col dilagare del malaffare in città, l’attività di denuncia e d’inchiesta, pubblicata sulla sua pagina, finisce per attirare l’attenzione dei capi criminali che emettono una sentenza di morte nei suoi confronti. Il contesto geografico in cui gli attori si muovono è il villaggio globale; un luogo indefinito per lasciare la libertà al lettore di immaginarlo e ricostruirlo. Qui le Istituzioni si rivelano incapaci di rispondere alla richiesta di giustizia. I cittadini stessi hanno smesso di chiederla piegandosi al volere criminale. E così la città si mostra ai lettori attraverso il buio della notte e il grigiore delle fredde e piovose giornate invernali di fine gennaio. Esiste solo un’oasi di luce e apparentemente di pace: una caffetteria, dove il protagonista si rifugia per trovare sollievo dopo le ore passate sulle strade bagnate e buie accanto ai corpi ammazzati. Quantunque il valore di giustizia si possa tenere soffocato, basta un evento naturale, piuttosto insolito, per scambiare l’avvenimento in un segno divino. Sarà vero? I fatti che accadono nelle due notti successive sembrano dare ragione a chi lo crede. Finalmente il sogno di giustizia inseguito da una vita sembra avverarsi poiché vittima degli strani eventi, che per due notti si manifestano in città, è proprio la criminalità. Questo crea sconcerto e confusione tra i capi delle famiglie malavitose ma anche il desiderio di venire a capo del mistero per sottometterlo al proprio volere. Sia i capi criminali sia il giornalista e il suo amico carabiniere si mettono sulle tracce dei segni e degli indizi. Questi li conducono a inseguire un mistero che si perde nel Medioevo, scoperto e custodito dai cavalieri templari. Per scoprirlo, si rivivono le avventure di un monaco guerriero, il custode del segreto ora sepolto proprio in una tomba cittadina al centro dell’avvenimento insolito del primo giorno. Si scopre che ancora oggi un monaco potrebbe essere il custode del segreto, lo stesso che fa di tutto per disinnescare la profezia attivata inconsapevolmente proprio dal giornalista. La chiara dicotomia fra il bene e il male pervade tutto il romanzo e si manifesta nel sarcasmo che avvolge i nomi degli attori del male, del loro linguaggio e delle loro azioni.
LanguageItaliano
PublisherGaetano Tuoro
Release dateNov 28, 2015
ISBN9788892523043
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    Book preview

    È solo un fulmine - Gaetano Tuoro

    Ringraziamenti

    Introduzione

    Quante volte di fronte alle ingiustizie che soffocano la nostra società, abbiamo sentito il desiderio di invocare la giustizia divina? E se finalmente si dovesse palesare, siamo sicuri che il giudizio di Dio si abbatterebbe solo su quelli che noi riteniamo essere i cattivi? Ho immaginato che questo momento arrivi all’improvviso in una città sottomessa alla legge criminale e all’illegalità dove tuttavia non mancano persone che lottano per la giustizia.

    Il protagonista del romanzo è un giornalista di cronaca nera locale che ha fatto del suo mestiere una missione tanto da rinunciare alla propria vita personale; l’ha vista svanire lentamente nel corso degli anni per dedicarsi completamente alla nobile causa, rimanendo però imprigionato nel suo lavoro quando ha capito che l’obiettivo finale, quello di vedere la città liberata dal cappio criminale, si allontanava sempre di più. Col dilagare del malaffare in città, l’attività di denuncia e d’inchiesta, pubblicata sulla sua pagina, finisce per attirare l’attenzione dei capi criminali che emettono una sentenza di morte nei suoi confronti.

    Il contesto geografico in cui gli attori agiscono, si muovono e vivono è il villaggio globale; un luogo indefinito per lasciare la libertà al lettore di immaginarlo e ricostruirlo. Qui le Istituzioni si rivelano incapaci di rispondere alla richiesta di giustizia. I cittadini stessi hanno smesso di chiederla piegandosi al volere criminale. E così la città si mostra ai lettori attraverso il buio della notte e il grigiore delle fredde e piovose giornate invernali di fine gennaio.

    Esiste solo un’oasi di luce e apparentemente di pace: una caffetteria, dove il protagonista si rifugia per trovare sollievo dopo le ore passate sulle strade bagnate e buie accanto a corpi ammazzati. La caffetteria diventa anche il posto ideale dove scrivere i suoi articoli. Essa rappresenta il luogo attorno al quale gira tutta la storia, una costante che accompagna il racconto dall’inizio alla fine. Il caffè, pertanto, acquista un significato particolare, un rito che accomuna gli attori principali del romanzo, ma anche una discriminante: ognuno, infatti, ha un modo diverso di consumarlo e, talvolta, di prepararlo.

    Quantunque il valore di giustizia si possa tenere soffocato, basta un evento naturale, piuttosto insolito, per scambiare l’avvenimento in un segno divino. Sarà vero? I fatti che accadono nelle due notti successive sembrano dare ragione a chi lo crede; persino il protagonista del romanzo, miracolosamente sfuggito a un agguato, viene scosso nelle proprie convinzioni filosofiche a tal punto da inneggiare lui stesso, da ateo, alla giustizia divina e celebrarla nella sua pagina del giornale. Finalmente il sogno di giustizia inseguito da una vita sembra avverarsi poiché vittima degli strani eventi, che per due notti si manifestano in città, è proprio la criminalità. Questo crea sconcerto e confusione tra i capi delle famiglie malavitose ma anche il desiderio di venire a capo del mistero per sottometterlo al proprio volere. Sia i capi criminali sia il giornalista e il suo amico carabiniere si mettono sulle tracce dei segni e degli indizi. Questi li conducono a inseguire un mistero che si perde nel Medioevo, scoperto e custodito dai cavalieri Templari. Per scoprirlo, si rivivono le avventure di un monaco guerriero, il custode del segreto ora sepolto proprio in una tomba cittadina al centro dell’avvenimento insolito del primo giorno. Si scopre che ancora oggi un monaco potrebbe essere il custode del segreto, lo stesso che fa di tutto per disinnescare la profezia attivata inconsapevolmente proprio dal giornalista.

    Il protagonista del romanzo è confuso: perché mai non lasciare che la giustizia divina si compia? Non è quello che noi tutti invochiamo davanti alle ingiustizie impunite, ai soprusi, alle prepotenze e all’illegalità? Il monaco è costretto a condividere il segreto con il giornalista per convincerlo a cambiare atteggiamento. Quest’ultimo, conosciuto la verità, si vede costretto, per il bene della città, a collaborare con il monaco.

    La chiara dicotomia fra il bene e il male pervade tutto il romanzo e si manifesta nel sarcasmo che avvolge i nomi degli attori del male, nel sarcasmo del loro linguaggio e delle loro azioni; di contro la serietà, sobrietà e rettitudine dei protagonisti del bene.

    Al Tazzè da Rino

    «Un caffè, Rino». Poteva anche non dirlo. Sono anni ormai che Amilcare De Filippis entra ogni santo giorno di buon mattino nella caffetteria Tazzè di via del Corso sempre con queste tre parole in bocca e sempre alla stessa ora, o quasi. Come oggi, del resto: una giornata di fine gennaio, fredda, umida e a tratti uggiosa. Se non fosse per quel grosso tappo di bottiglia di una nota birra attaccato alla parete dietro al bancone su cui si muovono le lancette che segnano esattamente le cinque e trenta, si ha l’impressione di essere in piena notte. Tazzè è l’unica caffetteria della città che apre così presto. Entra quasi all’indietro il De Filippis, spingendo la pesante porta a vetro con la spalla sinistra e tirando l’ultimo tiro al sigaro per poi lasciarlo, ancora fumante, appoggiato al posacenere esterno al locale. Entrando si porta dietro, e volutamente, ancora l’odore acre del fumo; quel un caffè, Rino detto appena con un piede dentro la caffetteria, è carico dell’ultima boccata che poco prima gli aveva riempito la bocca e che adesso è libera di espandersi all’interno del locale. Lo fa per prolungare il piacere del suo Toscano, per sentirne l’odore e la presenza anche ora che non lo ha più fra le dita; ma soprattutto lo fa per far persistere nella bocca quell’essenza di tabacco bruciato pronta ad accogliere, in un abbraccio ideale, l’aroma del caffè amaro che lui sapientemente sorseggia e trattiene per un istante nella bocca prima di mandarlo giù. Rino, il barista, continua a sciacquare tazze e piattini e risponde anche lui come ha sempre fatto da anni: «Buongiorno, dottò». Non si guardano nemmeno; ormai ognuno si aspetta dall’altro gesti e comportamenti ripetuti e consueti che vogliono inconsciamente manifestare la normalità, la routine di una vita che scorre sempre uguale e tranquilla in cui i protagonisti sembrano volersi rifugiare in quest’angolo di quiete; non tanto per santificare la bellezza della realtà quotidiana, quanto per sfuggire al mondo che, appena fuori della caffetteria, sa essere violento, costantemente in agguato e a comando scatena la sua furia omicida. Per il dottor De Filippis stesso quel caffè, del resto, non rappresenta l’inizio della giornata bensì la fine di una nottata che anche questa volta è stata generosa con lui. Dovrebbe essere felice, e fino a qualche tempo fa lo era. Il suo, non è un mestiere che s’insegna a scuola. Fiuto, ragazzo, fiuto! Quante volte glielo aveva ripetuto il cavalier Mariotti, il suo capo redattore. Eccome se ne aveva il giovane Amilcare. Gli è toccato comunque incominciare dalla gavetta, dalla strada; s’inizia così in questo mestiere. Amilcare, ti farai le ossa con la cronaca nera locale, questo vuol dire che lavorerai di notte; in questa città la notte non ha mai deluso i tuoi colleghi, sarà magnanima anche con te, vedrai; sarà la tua maestra, frequentala e imparerai il mestiere. Precipitati sul posto, sii il primo, il più veloce. Forse il tuo soggetto è ferito, e se moribondo… meglio! Perché se sta per morire, ha voglia di raccontare, di confessarsi, di rivelare segreti… annota tutto! Poi guardati attorno: passanti, fornai, spazzini… fermali! A caldo tutti vogliono parlare, tutti desiderano raccontare la propria versione, essere protagonisti. Bada a non trascurare automobilisti di passaggio: hanno sempre il vizio di rallentare e buttare l’occhio; prendi il numero di targa per rintracciarli e parlarci l’indomani. Nulla va lasciato al caso. E ricordati: dieci minuti dopo sulla scena e non saprai nulla! Sarebbe come non esserci mai stato. È proprio su queste semplici regole che De Filippis ha costruito la sua carriera di giornalista di cronaca nera notturna. Sì, notturna; tutte vere le parole dell’allora capo redattore; è durante la notte che gli assassini entrano in azione; è nella notte che si zittisce per sempre chi grida giustizia di giorno; è nella notte che si regolano i conti quando l’intera città si copre di nero e il buio protegge e si allea con la mano omicida; la notte, capace di abbuiare la città anche di giorno, di sottometterla agli affari del male, maledetti affari che durante il giorno si vestono per bene e si mascherano di normalità. Sono i fatti della notte a decidere e a condizionare per sempre il corso della vita cittadina. È per questo che dopo il tramonto, la città passa sotto il dominio delle due più potenti organizzazioni criminali continuamente in lotta per il controllo del territorio: i "Circolisti" di Tanino ’o Scurnacchiato e il Cartello che raccoglie le famiglie malavitose dei Ciaccafierro e dei fratelli Di Ledda, i tre fratelli soprannominati da ’o Barone i tre Porcellini perché bassi, tarchiati e ingordi. A capo del Cartello, organizzazione dedita principalmente allo spaccio di droga, usura e riciclaggio e con rapporti internazionali con i cartelli di droga d’oltreoceano, c’è John detto ’a Minaccia della famiglia Ciaccafierro. Ha preso il posto di suo zio ’o Barone, da lui stesso fatto eliminare, così si vocifera, e il cui cadavere non è mai stato trovato. Fino a un anno fa, John conduceva i suoi loschi affari negli Stati Uniti per poi scappare in Italia quando l’FBI gli stava con il fiato sul collo dopo avergli fatto saltare tutte le coperture.

    De Filippis, dalla notte, da quella maledetta gavetta che dura da circa una ventina d’anni, non né è più uscito, neanche quando ha avuto l’opportunità di farlo e di sedere dietro una scrivania in redazione. Avrebbe potuto smettere, farsi una vita normale, una nuova famiglia dopo il fallimento del primo matrimonio. Cosa si può pretendere da un uomo che invece di andare a letto prende il suo soprabito ed esce? "È il mio lavoro! Quante volte lo aveva detto. E invece non era vero; quello che era il suo lavoro era diventato una missione, un impegno con se stesso, con la città, con i suoi lettori, con la società. Smetterò quando finalmente nella mia città non ci saranno più morti ammazzati". Sono state le ultime parole dette alla sua ex mentre lei nemmeno più lo ascoltava intenta com’era a insaccare i suoi effetti personali in una valigia ormai stracolma che a fatica avrebbe chiuso e trasportato. Era lei che lo stava lasciando definitivamente; ma era stato lui, in verità, a portarla a quella decisione. Era lui che aveva scelto e preferito la notte alla moglie e doveva assolutamente essere lui a scrivere l’ultimo capitolo di un dramma che ogni notte, come in ogni atto, reclama la sua vittima; quel giorno deve arrivare, il De Filippis ne è convinto e per nulla al mondo vuole perdersi quell’appuntamento. Vuole essere lui, dalla sua pagina, ad annunciare la liberazione della città dal cappio criminale.

    Dopo anni da quell’addio, il dottor De Filippis è ancora qui a contare gli assassinii che la notte puntualmente gli offre, a essere il primo sulla scena per ricostruire i fatti e le dinamiche dell’accaduto, a collegare il malcapitato al clan criminale per soddisfare la curiosità dei suoi lettori e far felice il suo giornale che puntualmente gli lascia una pagina in bianco sicuro che il De Filippis la riempirà. E sulla scena di morte, il De Filippis, ci rimane anche dopo che il cadavere è stato portato via e i netturbini hanno fatto sparire ogni segno dell’accaduto, pronti a riconsegnare la città alla vita apparentemente normale del mattino. Ci rimane per fare la solita chiacchierata con Altieri, il maresciallo dei Carabinieri che, come lui, si trova sempre più spesso calamitato sul luogo del delitto anche quando non è di servizio o il caso non è suo. E anche lui con il vizio del sigaro sempre fra le dita e alle spalle una ex. È andata così anche questa notte; gli ultimi a lasciare via dell’Annunziata, il luogo dell’agguato, sono stati loro due. «Che cosa ti avevo detto? Giggino ’o Tatuato oppure Ciccio ’o Mmpiccione. Questa notte è toccato a Giggino». Le parole del maresciallo hanno confermato la scommessa della notte prima fatta sul cadavere di Peppe Macchione; quest’ultimo a sua volta, secondo il maresciallo, era stato freddato da mano amica, un sacrificio necessario, ordito proprio dal capoclan dei Ciaccafierro per indebolire i Di Ledda all’interno del proprio clan accusando dell’omicidio i Circolisti, cui appartenevano sia Giggino ’o Tatuato sia Ciccio ’o Mmpiccione. Un’ipotesi alquanto ardita se non fosse stato per un indizio celato sul corpo di Macchione che sarebbe potuto passare inosservato agli occhi di investigatori anche esperti: un pendente; una prova che la vittima è riuscita a strappare al suo assassino e che teneva ben stretto nella mano. Una prova che accusa il clan stesso di Macchione, il Cartello, da dove è partito sia l’ordine di ammazzarlo, sia l’ordine di vendicarlo, condannando a morte Giggino.

    Dopo quasi venti anni dediti alla cronaca nera, De Filippis conosce tutto delle famiglie malavitose: parentele, fiancheggiatori, affiliati, infiltrati nella politica e nelle amministrazioni, relazioni esterne, affari; conosce tutti quelli che costituiscono la manovalanza e che, di solito, nell’inutile tentativo di raggiungere posizioni di vertice nel clan criminale, sono sulle strade per ammazzare o per farsi ammazzare. È la prova della loro sottomissione al sistema ma la verità è che non contano niente e sono sacrificati in nome dell’appartenenza e del controllo del territorio. Proprio come Giggino e centinaia di altri ragazzi come lui. Vite che non hanno contato niente in vita, anime che continueranno a vagare nel nulla dopo la morte. Nemmeno il diavolo aprirà loro le porte dell’inferno nel ripudio di chi ha scelto di percorrere la strada della violenza con indifferenza, senza convinzione, senza identità.

    Anche nella notte appena trascorsa, Altieri e De Filippis erano là, attorno al corpo ormai esanime di ’o Tatuato. Rimanevano lì a tirare i loro sigari e a scrivere la sceneggiatura del prossimo omicidio, a dare il nome all’attore principale e persino a indovinare la location del prossimo fatto di sangue. Non è questa la prima volta, ormai hanno preso l’abitudine da quando hanno incominciato a indovinare le mosse della malavita una dopo l’altra. Dei perfetti sceneggiatori, si direbbe, e Giggino è stato un ottimo attore che non ha deluso nella puntata andata in onda nella notte appena trascorsa. E lo sceneggiato continua.

    «Dottò, vi servo il caffè al banco o vi trattenete al tavolo?» Spesso il De Filippis si siede a un piccolo tavolino rotondo, attaccato alla parete sinistra del locale, lì dove il muro fa una sella creando un confortevole angolino appartato. Ne approfitta per riordinare gli appunti presi e buttare giù il pezzo sul quaderno adesso che ha ben vivo il ricordo di ogni particolare del fatto notturno e convenuto sull’analisi

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