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Racconti di viaggi di geografie di storie e di cose
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Racconti di viaggi di geografie di storie e di cose
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Racconti di viaggi di geografie di storie e di cose

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Una serie di racconti che sono viaggi del pensiero attraverso geografie, storie, dimensioni sfumate e tempi di altre età. Il tono surreale, l’ironia e l’intreccio, combinati in una scrittura abile e cristallina, diventano in essi il pretesto per un richiamo alla riflessione sulle realtà della vita.

Tuttavia, nelle trame di questi racconti prevale pure la simbologia di certe immagini che solo apparentemente sono criptiche e misteriose perché, invece, sono il costante filo conduttore che guida al senso ultimo delle irriducibili concretezze del quotidiano.
LanguageItaliano
Release dateDec 19, 2015
ISBN9788892530935
Racconti di viaggi di geografie di storie e di cose

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    Racconti di viaggi di geografie di storie e di cose - Vittorio Russo

    Vittorio Russo

    Racconti di viaggi

    di geografie di storie

    e di cose

    STREET LIB

    © 2016

    V.Russo – Racconti di viaggio

    di geografie di storie e di cose

    II Edizione e.book

    ISBN 9788892530935

    Dedicato a Dànao

    che non sa leggere

    parole fatte di scrittura

    ma pensieri fatti di parole

    Indice

    La Peste la Lebbra e l’Ignoranza

    Cento anni di lontananza

    Il cane Fritz von Grossweislich

    Il Martire e il Pellegrino

    Ozzio

    Un altro pianeta

    Cose dell’altro mondo

    A titolo postumo

    A Timbuctu

    Sulle ali del mito

    La sapienza del ciliegio

    La festa del fuoco a Cascano

    Kumari Devi, la dea vivente

    Il Lago Rosa

    Il Tempio d’oro a Varanasi

    Trasimeno: Il massacro

    La Peste, la Lebbra e l’Ignoranza

    Una volta la Signora Peste incontrò la Signora Lebbra. Passeggiando si scambiavano opinioni sulla fragilità del genere umano e discettavano su chi di loro due avrebbe fatto più vittime.

    «Io ho esperienza sa?» sosteneva altezzosa e gonfia di orgoglio la Signora Peste turandosi il naso al proprio lezzo. «Ha idea di quante vittime ho fatto io da quando esiste il genere umano?»

    «Perché io no?» le rispondeva la Signora Lebbra coprendosi il volto sbiancato con una garza arrossata. «Lei è vecchia ormai. Non fa più paura. Lei è solo una minaccia. Guardi me invece, in diverse aree del mondo la gente mi teme ancora, ora come quattromila anni fa, quando sono nata...»

    «Buone, state buone!» intervenne in quella la Signorina Ignoranza che aveva il dono dell'ubiquità e si trovava naturalmente anche da quelle parti. «Io sono di gran lunga più capace di voi di far vittime. Non mi si nota, perché sono nascosta dietro gli occhiali della pseudo sapienza. Io non faccio rumore, io uccido lentamente, annerisco le coscienze, avvilisco le curiosità di conoscenza. Insomma, io semplicemente incenerisco i cervelli.» Affermò aggiustandosi gli occhiali senza vetri, sulla sella del naso. «Voi non vedete quante vittime io faccio da sempre rispetto a voi che siete ormai debellate quasi completamente. Voi non ci crederete, io ammazzo senza rumore, senza fetore, senza sbiancare la pelle. Perché la mia è la voce dei cimiteri: il silenzio. Molti di quelli che voi credete vivi sono morti da tempo, sono similvivi, hanno una similpelle, un similcorpo, tutto è simile e nulla è reale. Insomma morti dentro, tanto morti che non sanno nemmeno di non saperlo.»

    E allungò il passo la Signorina Ignoranza per fare altre vittime nel prossimo Villaggio, lasciando a bocca aperta per il proprio fetore la Signora Peste e senza ulteriore colore la Signora Peste...

    Cento anni di lontananza

    Quando lasciai il mio villaggio, cento anni fa, avevo il cuore colmo di tristezze antiche. Tristezze che sapevano di miseria, di stantio, di acque torbide del mio fiume bevute per sete e per delizia, di calure brucianti, di trilli di raganelle imprendibili nelle siepi di mirti e di more polverose.

    Il villaggio era di poche famiglie, pochi i vivi, non più dei morti nel cimitero, che era anche il confine geografico del villaggio.

    Cento anni fa. Ed era tutto intatto. Cento anni fa quando per andare al paese più vicino, a venti chilometri, si diceva: Domani parto e ci si salutava con l’abbraccio degli addii definitivi. Intatta era allora tutta la cultura di un piccolo popolo fatta di nobili miserie, di usi, di tradizioni, di un folclore incorrotto e di memorie da rattoppare con la fantasia mancando il segno scritto che le rendesse perpetue. Le sorti della comunità appartenevano esse pure a questa cultura, gelosamente, governate non con sapienza di libri ma di buon senso.

    Crebbi fin quando l’anima mia ventenne gridò di smania e arse orgogliosa di scacciare fantasmi di abitudini odiate. Mi stimolava ai sogni arditi dell’età un cuore fresco di palpiti e bruciante di tutte le cose ritenute non fatte dai padri e da fare. Non avevo negli occhi che oceani sconfinati e gli orizzonti della terra da conquistare tutta e, nel cervello, il tarlo di tutte le curiosità. Via, partire senza bagagli. Nel cuore, tuttavia, era sigillato il retaggio di quel mondo intatto: il fiume di acque tempestose d’inverno, bionde di fango come oro, che chiamavamo O’ Sciummo, l’austero edificio di pietre róse dal vento che era per tutti pomposamente O’ Castiello, con quelle mura sghembe, proprio lì dove ero nato, le emozioni inespresse nei volti vecchi della gente vestita di abiti lustri, le scarpe di cuoio ammorbidite con lardo rancido, il dolore delle donne, nere del lutto perpetuo della morte di Cristo e di quelli di casa, anche quelli più remoti, con i volti istoriati da croci di rughe già a trent’anni, le urla dei giochi infantili di un’ingenuità sconcertante, dell’odore dei ceri nella chiesa decorosamente bianca gremita il venerdì santo, alle tre ore di agonia, le cento lastre di basalto della strada principale lucide di sole in estate e fumanti in inverno di escrementi di mandrie di bufale che le percorrevano zoccolando come in corteo, la celebrazione pagana dei Mesi personificati a Carnevale, il bando delle notizie importanti gridato a gran voce da Jacuccio, le bacchettate di educazione spartana somministrate con spietata abitudine del Maestro Bartolo, precettore di una scuola pubblica per tutte le età, dalle vocali a Hegel...

    Così, morto nei suoi due millenni di solitudine ma vivo di sentimenti, di vita, di freschezza, di una gravitas latina dove non c’era spazio per il superfluo, si fissava in me indelebilmente la natura delle mie radici. Sapevo che tutto avrei sacramentalmente conservato intatto di quel poverissimo passato, onesto di semplicità e mio in perpetuo.

    E partii abbandonando alla solitudine di cento anni il mio villaggio.

    Appresi a dire in altri idiomi e a enunciare con abilità e mente educata al sapere superfluo e a coprire di polvere le umili radici per stolto imbarazzo. Appresi ad abituarmi all’indispensabilità del superfluo, quando non ero stato avvezzo nemmeno all’essenziale.

    Cento anni dopo sono tornato. Io che credevo di rinverdire le gesta di Alessandro, io che avrei dovuto frantumare l’esercito di Dario a Gaugamela, ritorno Cincinnato tra le pietre antiche di casa. Umilmente. In silenzio. Come conviene a chi ritrova se stesso, E ho ritrovato vecchi i volti che lasciai già vecchi da giovani, bianchi di età come quelli dei senatori di Roma esposti all’offesa di Brenno. E accanto a questi volti altri ne ho visto, altri, sconosciuti, d’altro colore, di profilo diverso e di diverso accento. E mi ha sommerso il vociare, mi hanno sommerso sguardi indagatori. Del paese antico nessuna traccia.

    Tutto profanato. Hanno fatto della mia casa una spelonca di ladri, gridò Cristo. Il villaggio ora si chiama città, pomposamente, ma è come un fiore vizzo senza più tracce di quella linfa che era la sua autenticità suprema. Tutto sommerso dall’incalzare del nuovo. Un’invasione di povertà diversa, fatta di plastica, di eleganza saccente, di voci corrotte, Odo suoni di altre geografie in comunione d’interessi a casa mia.

    Avevo lasciato il mio villaggio nel silenzio della sua solitudine ma intatto nella sua serenità. L’ho ritrovato, guasto, privo dell’autenticità che ne faceva un’isola di nobile dignità. Chi ha retto le sorti della mia gente nel tempo, non è colpevole per non aver fatto, ma lo è per aver disfatto, per aver confuso, per aver inquinato, per aver dilapidato il patrimonio di memorie e di consuetudini senza curare l’adattamento per osmosi al nuovo che invadeva il villaggio. Ora a casa mia si parla yoruba, armeno, hausa, uzbeko, ora sono chiamato a coniugare la mia latitudine con altre: australi, tropicali, iperboree. Ma questo non è lo scempio. Come Giusti, credo in popoli che apparentemente avversi, sono affratellati insieme. E credo una ricchezza l’apporto dell’altrui cultura. Nessuno però potrà mai convincermi del vantaggio di cancellare la mia. Cento anni fa era tutto intatto, ora è tutto corroso. Non ho più radici perché le hanno recise quelli che hanno imposto con la loro presenza anche la loro regola. I nuovi Proci che hanno invaso il mio spazio e ne hanno fatto rovine e razzia. Altrove si cova il destino del mio popolo e io a guardare senza fiato.

    Non verrà l’ora del riscatto. Non ci sarà un tempo per abbassare ponti levatoi sul passato per recuperare un’antica identità. Ahimè, il tempo non si ripete per cicli perfetti: quel passato, austero, sfuma inesorabilmente in una foschia onirica che si sfracella come un’onda immane contro uno scoglio per diventare polvere d’acqua e di ricordi.

    Il cane Fritz von Grossweislich

    Storia di un cane che si credeva un uomo

    Il cane Fritz von Grossweislich, meglio noto come Fritz von, non era un cane: era un essere umano. In altre parole, era un cane in quanto a specie, ma della specie, che aveva contraffatto in maniera tremenda con il suo forsennato desiderio di essere altro, egli non aveva conservato che l’involucro soltanto.

    La follia imitativa che l’aveva pervaso fin da bambino, vale a dire da cucciolo, aveva guastato in maniera irreversibile la caninità della specie, ossia: bracco tedesco dell’Anhalt, di nobile ascendenza nel ramo paterno, ma di meno illustre prosapia nella linea materna.

    Così, crescendo e imitando, aveva finito per conservare dei canidi solo la forma esteriore, essa pure, peraltro, adulterata da moti e posture cui non era adatta. Ma se la forma, come semplice apparenza, poteva bastare alla curiosità dell’uomo che di apparenze sa contentarsi, essa non convinceva affatto i cani, quelli veri, che con Fritz von venivano sporadicamente a contatto. Essi lo evitavano senza manifestazioni di ostilità, non per le diversità apparentemente inapprezzabili e nemmeno per indifferenza - perché i cani non sanno mai essere indifferenti - ma solo perché egli era altra cosa che cane: un genere sconosciuto grossolanamente mimetizzato nella spoglia canina. È noto che non si prende per il bavero un cane, quando si tratta del suo autorevole olfatto e del suo infallibile istinto. Il giudizio su quel travestito da parte dei consimili era perciò definitivo e irrevocabile. Purtroppo, a Fritz von non era riservata nemmeno la spregevole condanna della noncuranza: per gli altri cani egli semplicemente non esisteva in qualità di cane. In parole povere, egli era un’astrattezza vivente: un condannato senz’appello. Questo tuttavia non rappresentò affatto una limitazione per lui, perché, anzi, preso com’era dal suo incessante sforzo di imitazione della specie umana, dei suoi simili non si curava affatto. E se attraverso tutti i suoi sforzi, egli non pervenne a eguagliare il modello, fu solo per gli angusti limiti della morfologia e della fisiologia animale entro cui, spietatamente, l’aveva costretto natura.

    All’età di due anni, dopo essersi ammalato di rosolia e di morbillo invece che di cimurro, come s’addice ai cani autentici, dopo aver patito, fra mille altre persecuzioni, anche i graffi furiosi di schizofrenici gatti, Fritz von non era ormai più cane da tempo. In virtù di misteriosi poteri e sacrifici praticamente incredibili, molti dei suoi straordinari esercizi imitativi erano stati gratificati. A esempio riusciva a masticare i cibi, regolarmente e abbastanza a lungo, invece d’inghiottirli come fanno tutti i cani. Cosa ancora più strana, stravolgendo un ordine normalmente immutabile, aveva smesso l’odore di cane. E non era tutto. Perduto il proprio odore aveva ulteriormente inquinato la propria natura smarrendo anche l’olfatto. Ora, che senso può avere mai un cane, un bracco tedesco dell’Anhalt per giunta, che può dirsi tale solo in virtù dell’olfatto, se proprio l’olfatto perde? Ma Fritz von, erroneamente nato cane, sopravvisse egregiamente anche a questa perdita fondamentale. Se talora annusava i cibi, non era per carpire aromi particolari che il palato avrebbe gradito, ma solo per un bisogno istintivo e incancellabile.

    Fu grazie a queste limitazioni, perseguite con crudele costanza, che riuscì presto a cibarsi di tutto, liberamente e senza inconvenienti. Privilegiava (per imitazione logicamente) tutto quello che maggiormente apprezzano le papille gustative umane. Preferiva lenticchie, ceci e fagioli perché di questi legumi si faceva largo uso in casa. Mostrava poi una predilezione straordinaria per i frutti di mare che fingeva, sempre per imitazione, di preferire crudi, appena spruzzati con qualche goccia di limone. Li succhiava direttamente dalle valve, senza suoni sgradevoli, quasi con eleganza, oserei dire. Come tutti in casa, era golosissimo di verdure (ma vedremo che non era affatto vegetariano); mangiava insalatiere intere di lattuga, con aglio e cipolla, ma non gli piacevano meno radicchio e cicoria. Con la frutta poi era addirittura intemperante, se si può dire così. Non sapeva resistere alle fragole e ai fichi brogiotti e, malgrado io sia convintissimo che non fosse in grado di distinguere una banana da un cardo se non per la forma, finse in più circostanze di apprezzare esageratamente perfino il discutibile sapore dei manghi e degli ananas. Si abituò presto anche al vino asprino che preferiva al rosso, per vergognosa piaggeria nei confronti dei gusti della maggioranza di quelli di casa. Non seppe, infine, fare più a meno nemmeno di una digestiva tazzina di caffè da quando, per celia, gliene fu offerta una senza sapere che razza di segreta gioia gli si procurava a compenso della sua attesa paziente.

    Presto si capì che il cibo glielo si doveva presentare in maniera degna, vale a dire apparecchiandogli decorosamente la piccola tavola, fatta apposta per lui. Si sapeva quanto apprezzasse l’ordine e la precisione che univa a un innato senso dell’eleganza. Niente conche metalliche, dunque, ma regolari piatti - distingueva perfettamente quelli di porcellana, che evidentemente preferiva, a quelli di terraglia e di plastica - e vaschette grandi (per l’acqua) e piccole (per il vino). In quanto alle posate, pur non facendone uso per i limiti dei suoi arti, esse erano tutte inutilmente indispensabili. Lo stesso si può dire del tovagliolo che doveva essere costantemente immacolato e del quale si serviva regolarmente, prima di bere e a fine pranzo. È il caso di precisare che se la tavola non era apparecchiata secondo le sue attese, con correttissimo sdegno si asteneva dal consumare i pasti. Preciso pure che il suo non era puntiglio. Quando era contrariato, Fritz von s’allontanava altezzoso, con la nobiltà propria di chi sa condannare senza enfatizzare ma per ottenere la soddisfazione che compete a chi sa rinunciare. Era questo il suo modo di fare consueto e sempre reagiva con discreto distacco, come sono incapaci di fare, non dico i cani, ma gli stessi umani.

    Fuori degli orari stabiliti non toccava cibo. Dopo il caffè, che sorbiva con sottile piacere, certo, più per educazione che per gustarne un improbabile aroma, Fritz von sedeva (ero per dire, comodamente) nella sua poltrona, incrociava le braccia, ovvero le zampe, e si appisolava reclinando il capo da un lato. Russava in maniera tenue, quasi con discrezione, per non disturbare. Ma di certo, talvolta, disturbava se stesso. Il suo udito, infatti, era così sensibile da raccogliere persino quel suo impercettibile rumore fisiologico, per cui si destava, indagava in giro come chi teme un rimprovero, e verificato che nulla era accaduto, si riaddormentava nella stessa posizione composta, placido come un perfetto gentiluomo di campagna.

    È certo che Fritz von non si amava per come era fatto. Aveva in abominio la coda più d’ogni altra parte pur riprovevole, a suo vedere, del suo corpo. Tuttavia aveva gran cura della sua persona e se, talvolta, digrignava i denti davanti allo specchio - del quale fin troppo narcisisticamente faceva uso - era per controllarne compiaciuto il candore, piuttosto che per altri motivi.

    Soleva sistemarsi il collare, che indossava alla stregua di una cravatta, sollecitando con petulanza che gli fosse cambiato di frequente, perché il nuovo, per colore e forma, meglio si attagliasse agli abiti ideali dei quali si credeva vestito. Amava le cravatte di colore discreto e prive di borchie, cosa questa che lascia ben capire quali fossero i suoi colori preferiti e quanto sobria in fondo fosse la sua eleganza. È chiaro perciò, che in contrasto con la fisiologia canina, non mancava a Fritz von una visione cromatica completa. Presumo che si supponesse vestito di abiti dalle tinte temperate, ma questo non significa che disdegnasse i rossi caldi, gli azzurri metallici o i viola aggressivi. Non sono poche le testimonianze in questo senso. Di preferenza però gradiva i colori pastello, quelli di cui la natura si veste in primavera, esattamente come il tenerissimo colore ocra della sua poltrona prediletta. Aveva pure una schietta simpatia per i colori intatti dei tramonti, come dimostra la preferenza che accordava a certi tappeti di morbidissimo arancione, sui quali si appisolava nelle ore di silenzio serale.

    Fritz von era assolutamente corretto nei modi e contenuto nella gestualità. Tossiva e sbadigliava di rado, ma quando gli capitava, portava sempre una zampa distratta alla bocca, sì, al muso. Questo moto era ormai così abituale che anche nel sonno si copriva meccanicamente le labbra a mascherare un accenno di sbadiglio.

    I suoni dei quali era capace smisero per tempo di essere, sia pure lontanamente, paragonabili a quelli che di norma rientrano nella fonetica dei cani. Abbaiare, ringhiare, ululare, latrare, guaire, uggiolare, gagnolare, schiattare, ustolare, guattire eccetera, erano espressioni vocali che aveva sempre

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