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Interazioni - Visioni chiastiche di possibili vissuti
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Interazioni - Visioni chiastiche di possibili vissuti
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Interazioni - Visioni chiastiche di possibili vissuti

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Può un film essere di per sé “filosofico”? Il film filosofico è di quelli noiosi, incomprensibili, pesanti, “seri”? Che requisiti deve avere un film per meritare una interpretazione di stampo filosofico? L’interesse filosofico su un film ne accresce il valore artistico?
Domande di questo genere troverebbero migliore collocazione in un saggio speculativo sul cinema, ma “Breve come un secolo”, ovvero il cinema come strumento didattico, non intende perseguire la strada, ormai anche obsoleta, della ricerca di nessi teoretici tra cinema e filosofia, che, peraltro, ha già dato frutti importanti e godibili nelle riflessioni di acuti quanto celebri pensatori. Dopo La riflessione pro-VOCATA, il collettivo di “Breve come un secolo” continua la sua sfida, proponendo di parlare di filosofia attraverso un improbabile cinema filosofico, del quale si coglie innanzitutto la capacità di riverberazione di teorizzazioni per immagini. Con la prefazione di Umberto Curi, Interazioni – Visioni chiastiche di possibili vissuti offre al lettore l’opportunità di affrontare con marcato taglio filosofico argomenti che vanno dalla post-modernità all’empatia, dalla spersonalizzazione dell’individuo al dualismo on-line / off-line, dalla tecnica disumanizzante al postumanesimo, attraverso l’analisi di film più o meno celebri.
Scrive Curi: «Per l’acume delle analisi, l’originalità delle proposte interpretative, la solidità dell’impianto concettuale, è un piccolo gioiello, per il quale è giusto auspicare ulteriori sviluppi futuri.»
LanguageItaliano
Release dateJan 20, 2016
ISBN9788892547384
Interazioni - Visioni chiastiche di possibili vissuti

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    Interazioni - Visioni chiastiche di possibili vissuti - Mennato Tedino

    nomi

    Prefazione

    di Umberto Curi

    Questo libro è stato per me una sorpresa. Credo che potrà esserlo anche per i lettori che vorranno accostarsi a questo testo senza pregiudizi, per coloro che siano disposti a non avventurarsi in valutazioni precipitose, ma preferiranno piuttosto confrontarsi con apertura intellettuale con le ipotesi e i problemi emergenti dalle pagine che seguono. Ciò che mi ha – molto felicemente – sorpreso è stata anzitutto la capacità degli Autori di evitare i rischi che sempre incombono su pubblicazioni che, in modi diversi, affrontino il nodo del rapporto fra cinema e filosofia. Ne enumero alcuni, in ordine sparso. La diffusa, quanto erronea, convinzione che per trattare un tema del genere sia indispensabile citare almeno una decina di volte il dittico di Gilles Deleuze sull’immagine-tempo e l’immagine-movimento. L’idea, non meno peregrina, che, per meritare di essere considerato filosofico (qualunque cosa possa poi voler dire), un film debba essere serio, a cui è connessa la non meno fuorviante idea che tale presunta serietà sia direttamente proporzionale al tasso di noia sprigionato dalla pellicola. La disposizione ad attribuire al cinema un ruolo ancillare, rispetto alla filosofia, nel senso che compito delle opere cinematografiche debba essere quello di illustrare alcuni temi filosofici, traducendo in immagini il pensiero. O, infine, la non meno aberrante idea secondo la quale l’approccio filosofico al cinema debba ridursi in una sorta di translitterazione, dal linguaggio cinematografico a quello filosofico.

    Se ci si riferisce alla scarsa, e non sempre qualificata, produzione saggistica italiana degli ultimi vent’anni, l’essere riusciti ad evitare questi rischi – tutti più o meno presenti in altri testi apparentemente analoghi – è già un primo e fondamentale titolo di merito per gli Autori di questo libro. I quali invece dichiarano con grande nettezza, fin dall’Introduzione, quale sia l’opzione di metodo nella quale si riconoscono: non vogliamo usare il cinema in funzione esplicativa, per chiarire, cioè, questioni di filosofia riducendo i film a banali esempi; né, viceversa, utilizzare categorie filosofiche nell’esegesi del testo filmico. Nostra intenzione è quella di esplorare quel territorio, ancora in parte vergine, in cui la filosofia nasce in forma di immagini e la narrazione cinematografica è già argomentazione filosofica. In tutta obbiettività, non saprei descrivere meglio quello che a me pare il lavoro più significativo che oggi si possa svolgere per conferire concretezza ad un progetto di ricerca sul rapporto fra cinema e filosofia – o, meglio ancora – sul rapporto fra i film e la filosofia.

    Ci addentriamo qui in un terreno estremamente scivoloso, sul quale è facile smarrire un orientamento che, viceversa, va tenuto fermo con molta chiarezza. Le biblioteche sono piene di trattazioni puramente metodologiche, di libri che discettano astrattamente sui rapporti fra i due ambiti, come se cinema e filosofia costituissero due domini chiusi e autosufficienti, due potenze che possano essere poste in relazione attraverso iniziative diplomatiche. Per oltre mezzo secolo, dagli inizi del Novecento, si è discusso dello statuto del cinema, ci si è interrogati sulle anomalie di una Musa non agevolmente riconducibile nel novero delle arti tradizionali, si è indugiato nel sottolineare la natura per così dire anfibia dell’opera cinematografica, prodotto dell’industria culturale, e in quanto tale assoggettata alle regole della produzione capitalistica, ma insieme anche libera espressione della creatività artistica.

    Ben consapevole di andare controcorrente, esprimendo un’opinione generalmente non condivisa, non esito a dichiarare la mia sazietà nei confronti di questa letteratura. Credo che tutto ciò che di sensato e utile si potesse dire, ponendo in termini generali la questione del rapporto fra cinema e filosofia, sia stato detto. Non avverto l’urgenza o la necessità di ulteriori integrazioni. Ciò che invece tuttora latita, e non solo dal punto di vista quantitativo, è il passare dalle enunciazioni astratte di metodo alla pratica, dalle parole che dicono il nesso cinema-filosofia alle parole capaci di evidenziare quali forme specifiche e determinate, diverse per ogni film, questo rapporto possa essere declinato.

    È precisamente questa la modalità con la quale i colleghi autori di questo libro hanno lavorato. Affondando direttamente in alcune opere cinematografiche senza scontati preamboli metodologici, dimostrando davvero con grande incisività la capacità di valorizzare in senso filosofico quel pensiero per immagini che è il cinema. Il percorso seguito in questo testo a me pare davvero esemplare: per l’acume delle analisi, l’originalità delle proposte interpretative, la solidità dell’impianto concettuale. Un piccolo gioiello, per il quale è giusto auspicare ulteriori sviluppi futuri.

    Padova, gennaio 2016

    Premessa

    Perché cinema e filosofia?

    Si racconta che il filosofo Talete, profondo conoscitore della natura e attento osservatore degli astri, mentre studiava le stelle guardando in alto cadde in un pozzo. Una graziosa servetta originaria della Tracia, tanto intelligente quanto sfacciata, non perse occasione per deriderlo dicendogli che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo ma era incapace di vedere quelle gli stavano davanti, tra i piedi. A riferirlo è Platone nel dialogo Teeteto (174 a-174 c). Ora, quella stessa ironia, continua Platone, è riservata a chi passa il tempo a filosofare; i filosofi, infatti, provocano il riso non solo delle schiave di Tracia ma anche del resto della gente.

    L’episodio ha fissato per sempre l’immagine del filosofo che, perso nei suoi pensieri con la testa tra le nuvole, non ha dimestichezza con la vita pratica ma vive completamente immerso nei suoi ragionamenti e nelle sue teorie. «Non fare il filosofo!» è, in effetti, il modo più efficace e sbrigativo per dire «smettila di proporre soluzioni campate in aria e confrontati con la vita reale». Per il senso comune filosofia significa «parlare in teoria».

    Teoria in greco antico si dice theorìa (θεωρία) e theoréo (θεωρέω) significa esaminare, osservare, contemplare, passare in rassegna. In senso strettamente filosofico significa anche giudicare, investigare, paragonare. Questo termine ci riporta prepotentemente all’atto del vedere in quanto formato da thèa (θέα) traducibile con contemplazione, spettacolo, vista e orào (ὁράω) che significa vedere. Ma thèa è non soltanto il guardare, l’osservare, il contemplare, ma lo stesso oggetto del vedere e quindi lo spettacolo, la rappresentazione. Come fonema è all’origine di una serie di parole il cui significato è legato alla visione: teatro, ad esempio, è, appunto, thèatron (θέατρον), lo spettacolo è thèama (θέαμα), guardare uno spettacolo, assistere ad uno spettacolo è theàomai (θεάομαι), coloro i quali assistono sono detti appunto theòmenoi (θεώμενοι), lo spettatore è theatès (θεατής). A ciò si aggiunga che theorèo, thèatron, theàomai, thèama hanno la stessa radice etimologica di thàuma (θαῦμα) che Aristotele indica come ciò davanti a cui la filosofia sorge. Thàuma è la visione, meglio ancora, la meraviglia, il portento, quasi un miracolo, tanto che thaumàzo (θαυμάζω) significa mi meraviglio, mi stupisco, provo ammirazione.

    Come si sa meraviglia non restituisce perfettamente il greco thàuma; questa traduzione è parzialmente inappropriata e sicuramente scivolosa. Sarebbe più corretto parlare di angosciato stupore, stordimento, dinanzi al divenire della vita e, quindi, di fronte alla morte e al dolore. Bisogna sempre avere presente questa polisemia ogni volta che si ha da fare con la parola thàuma ed essere consapevoli che in italiano non esiste un termine unico che possa consegnarci la sua complessità semantica; thàuma è, allo stesso tempo, visione, cosa meravigliosa, stupore angosciato.

    Se si considera, inoltre, che vedere è anche idèin (ἰδεῖν) – da cui idèa (ἰδέα) – e èidon (εἶδον, aoristo di ὁράω), cui è legato anche il latino video nella comune derivazione dal morfema indoeuropeo *wid, appare abbastanza chiaro come i ferri del mestiere del pensiero filosofico, teorie e idee, siano radicati nell’arcaica apprensione del mondo che si inscena nell’atto del vedere.

    Ma se è vero, dunque, che teoria, teoresi, teoretico, così come idea, sono termini che esprimono il senso stesso del filosofare; che theorìa e theorèo sono della stessa famiglia di thèatron e theàomai, che idèin e video hanno un antenato comune in *wid, appare chiaro come il filosofare sia costitutivamente impastato nell’originario vedere. Così, quando si dice che il cinema è un laboratorio capace di re-interpretare, ri-costruire, ri-produrre il reale, l’aspetto visivo si lega e si confonde con l’aspetto teoretico offrendo una pregnanza ai confini dell’ineffabile. Teoria, teatro, meraviglia non solo non prescindono dal vedere ma, al contrario, è il vedere stesso che, in un certo senso, li sostanzia. Discutere di filosofia attraverso le immagini, perciò, risulta essere non un modo nuovo di penetrare gli enigmi del pensiero quanto un ritorno alla modalità originaria del pensare.

    Non basta, però, agire semplicemente all’interno del rapporto tra filosofia e immagine. Bisogna sapere che ogni immagine, come tale, nasconde in sé pericolosi tranelli e fuorvianti orizzonti ermeneutici. Perciò è opportuno, crediamo, operare una distinzione tra immagine fotografica e immagine cinematografica, tra la fissazione statica della rappresentazione e la sua performatività e metamorficità dinamica. Ciò che la fotografia fa, nonostante la cosa possa apparire bizzarra, non è cogliere obiettivamente, asetticamente, il mondo intorno a noi inchiodandolo ad una verità esplicita ed incontestabile; al contrario, essa non afferra proprio il modo più proprio in cui quel mondo ci si offre quotidianamente: il mutamento inafferrabile. La fotografia rende fisso ciò che, per sua natura, si rifiuta di fissarsi consegnandosi ad un’immobile ed innaturale astoricità. Bloccando per sempre quel flusso che chiamiamo vita in un momento assoluto essa lo mostra per ciò che non è e non può mai essere: una statua o un quadro, un dipinto o una scultura. Quel flusso, al contrario, si dona e si rende disponibile nel farsi della danza e nel dipanarsi del racconto sul palcoscenico di un teatro.

    Le limitazioni espressive e rappresentative della fotografia hanno come corrispettivo, in filosofia, la camicia di forza rappresentata dall’uso del concetto e dal ricorso all’idea. Se infatti, per un verso, essi costituirono agli esordi della riflessione una importantissima conquista con cui tentare di dominare il terrore angosciato di fronte al minaccioso divenire e bandire, così, il velenoso lògos (λόγος) eracliteo, dall’altro essi tradivano proprio quel pensiero aurorale, immediato e genuino benché non elementare. A partire da una lettura dell’opera platonica dimentica delle dottrine non scritte del filosofo ateniese, l’abuso di quella prospettiva metafisica che rinnegava la vivente dimensione fisica produsse un clamoroso fallimento e così pensare per concetti, ancora oggi, impedisce di cogliere la dinamicità della vita dell’Esser-ci e del suo mondo. La dimensione esistenziale, che non si presenta mai nella pesante staticità dell’idea e che non è mai ferma nel permanente e tronfio stare del concetto, è ignorata e, infine, persa esattamente come una fotografia che nel cogliere l’attimo ha perso per sempre la cosa più preziosa di quello stesso attimo, la sua inafferrabilità, che proprio nella prigionia dell’immagine fissa è negata. L’esistenza è immersa in un divenire sempre emotivamente segnato e storicamente condizionato. Tentare di comprendere il multiforme e sempre diveniente ex-sistere del Da-sein utilizzando l’immobilità del concetto è come volere comprendere un film analizzandolo fotogramma per fotogramma.

    In questo senso il cinema offre possibilità insospettate per raccontare la filosofia e soprattutto per farlo differentemente.  Un pensare fluido che assomiglia allo scorrere delle immagini cinematografiche.

    Vale la pena ricordare che nella pòlis ateniese del V secolo il teatro era, sotto certi aspetti, l’essenza della società del tempo; era vita, era politica, era civiltà, era insegnamento morale, era avvedimento. Complice, poi, una circolazione libraria pressoché inesistente, la rappresentazione teatrale era l’unico, apprezzato, atteso momento di visione/riflessione intorno alla realtà etica, politica, religiosa della comunità, in quella vivace dialettica sociale e politica che identificava il singolo con la collettività. Anche nel secolo successivo, pur su uno sfondo diverso, inequivocabilmente decadente, in un’Atene profondamente trasformata, attori tronfi, gestualità esasperata, uno sguardo malinconico ai grandi del passato, quali erano stati Eschilo, Sofocle, Euripide, un pubblico più viziato e alla ricerca dell’effetto, un teatro dunque maggiormente indirizzato all’intrattenimento e all’evasione che alla riflessione, anche nel IV secolo il teatro, cioè la rappresentazione, resta momento centrale della vita culturale della città. E se ci trasferiamo dall’Atene classica per prendere alloggio in un più prosaico presente, quale significativa differenza possiamo indicare tra l’immagine caricaturale di un Socrate o quella mostruosamente negativa di un Cleone che Aristofane ci restituisce ne Le Nuvole e ne I Cavalieri e quella di un inquietante Berlusconi presentata ne Il Caimano di Moretti?

    Sia chiaro, non vogliamo usare il cinema in funzione esplicativa, per chiarire, cioè, questioni di filosofia riducendo i film a banali esempi; né, viceversa, utilizzare categorie filosofiche nell’esegesi del testo filmico. Nostra intenzione è quella di esplorare quel territorio, ancora in parte vergine, in cui la filosofia nasce in forma di immagini e la narrazione cinematografica è già argomentazione filosofica. Spirito di questo libro è penetrare in quelle zone in cui pensiero e visione non si incontrano, né si uniscono o si sovrappongono, ma si fondono, si identificano, sono una cosa sola. Identità degli indiscernibili, indiscernibilità degli identici.

    Perché cinema e filosofia a scuola?

    La nostra generazione aveva tra le proprie esigenze comunicative la lettura e la scrittura, al fine di disciplinare e consolidare il mezzo di cui si disponeva già, la parola, che si era appresa dalla nascita: a questo bisogno la scuola arrivava forte della presenza di chi con le regole della lettura e della scrittura aveva totale dimestichezza, al punto da poterle trasmettere agli studenti. Col tempo, poi, attraverso la lettura e la scrittura si perfezionava talmente l’uso della parola, da ritenere che potesse permettere lo sviluppo di qualcosa che non si impara acquisendo le regole della comunicazione, ma soltanto con una riflessione accurata promossa da una guida accorta ed autorevole che non ti dà risposte, ma ti insegna a porti domande: sto parlando del senso critico. Nella scuola contemporanea, fatta di tecnologia digitale, di flipped classroom, di tutorial e smart teacher, di saperi trasversali e competenze operative sembra proprio che il sapere critico sia ormai cosa d’altri tempi. I ragazzi hanno la rete per cercare le informazioni, ma sono imprigionati in un sapere autistico, fatto degli stessi contenuti dai quali vorrebbero essere svincolati, per risultare operativi come la società di oggi li vuole a tutti i costi; ragazzi formati con il puntuale ricorso al web, irrimediabilmente vincolati ad esso potranno domani semplicemente riferire informazioni apprese navigando in rete, nella convinzione che gli uditori non vi avrebbero mai avuto accesso senza il loro aiuto, impiegando quello che Lacan definirebbe «linguaggio senza parole». E noi, intanto, cadiamo nel tranello di chi sta mettendo in discussione il nostro sapere, considerato ormai antiquato, troppo contenutistico, per lasciare spazio alla scuola del fare, alla scuola delle competenze, che indirizzano i ragazzi verso più sicure soluzioni di problemi, atrofizzando, però, la naturale inclinazione a porsi i problemi.

    Mi vengono in mente le considerazioni di Maurizio Tiriticco, fine pedagogista che ha il merito di osservare la realtà con l’acume di chi vuole prevenirne i danni, e il demerito di confondere la necessità con l’urgenza: in una sua conferenza Tiriticco osservava che le motivazioni di una riforma sono sempre da ricercarsi nell’utile dello Stato. Se questo è vero, per capire a pieno il senso di una riforma dell’Istruzione è necessario chiedersi di che tipo di uomini lo Stato abbia bisogno, formati per ricoprire quale ruolo… Così si spiega il perché della scuola di regime, pensata per distinguere in maniera marcata la futura classe dirigente da quella lavoratrice, e si spiega anche il tentativo di attribuire alla scuola contemporanea una logica aziendale, inaugurato da un altro ventennio, ma mai abbandonato, neppure a ventennio concluso. Ma se oggi la scuola si preoccupa in maniera così smodata del saper fare degli studenti, piuttosto che del saper pensare, magari perché gli studenti finlandesi sanno fare molto di più, pur dedicando meno tempo allo studio rispetto agli italiani, se la scuola tende ad esaltare il sapere acritico, preoccupata com’è di rendere gli alunni sempre più performanti, dotati di conoscenze reticolari (grazie alla genialata secondo cui si apprende per reticoli cognitivi, che esprimono la struttura sinaptica del sistema nervoso…?...) sempre più orizzontali, rinunciando al sapere verticale, se la scuola è pensata dallo Stato in questa direzione, che tipo di personale tenderebbe a creare…?

    E mentre il sistema langue, mentre gli insegnanti si demotivano, convinti ormai che l’impiego funzionale delle loro conoscenze sia una sorta di vilipendio della disciplina da loro insegnata, si pone sempre più la delicata questione dell’insegnamento, che, come faceva notare Heidegger, «è molto più difficile dell’apprendimento […] perché insegnare significa: far imparare. Chi propriamente insegna non fa imparare null’altro che questo imparare». La citazione è ripresa da Massimo Recalcati, nel suo L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi, Torino 2014), in cui si insiste in modo particolare sullo stile della lezione: per lui è un processo di umanizzazione dei contenuti, che si tendono a trasmettere senza sottolinearne l’utilità, ma solo la bellezza. Va da sé che il requisito preliminare per apprezzare la bellezza di un contenuto è che questo diverta: solo se si prova il piacere di trattare quell’argomento, chi ascolta potrà avvertirlo vivo, vibrante, appassionante, coinvolgente, come se ci si trovasse di fronte ad un’opera d’arte…

    E l’insegnamento non è molto dissimile dall’espressione artistica, valutando che la pedagogia contemporanea tende a sottolineare l’esistenza di tecniche di insegnamento utili a far ottenere i risultati di apprendimento migliori. D’altro canto arte e τέχνη mi sembra abbiano una familiarità non soltanto etimologica… Ma per quanto una tecnica sia raffinata, essa non potrà mai permettere a chi ne fa uso di raggiungere i risultati sperati se non si trasmette, accanto all’importanza dei contenuti, l’entusiasmo di trattare proprio quei contenuti. A ben vedere, il piacere di sapere è quello che avrebbe dovuto motivare a monte il mestiere del docente: non si può pretendere di insegnare qualcosa che non si ama smisuratamente, al punto da considerare piacevole il fatto che altri sappiano la medesima cosa, e la imparino sfruttando la passione di chi cerca di trasmettere quel contenuto. L’insegnamento parte da qui: dalla smania di pretendere di lasciare un segno nel proprio interlocutore, attraverso la conoscenza di qualcosa che appassiona in maniera smodata.

    Ora, si presuppone che chi ha scelto il mestiere dell’insegnante sia appassionato della propria disciplina, al punto da cercare di coinvolgere altri nella sua stessa passione. Come fare? Noi che trattiamo della vita un aspetto solo in apparenza campato in aria, vale a dire il pensiero di essa, ci siamo convinti del fatto che la riflessione sulla realtà attraverso la sua stessa riproduzione potesse risultare più stimolante per gli studenti: il cinema come strumento per personalizzare le lezioni. All’inizio sentivamo lo stimolo in maniera disordinata, selvaggia, ma affinando la tecnica ed approfondendo gli studi, ci siamo imbattuti in vere scuole di pensiero, che tendono ad impiegare il cinema come mezzo di trasmissione di contenuti filosofici. Da Thomas Wartenberg a Umberto Curi, da Julio Cabrera a Stanley Cavell, passando per Gilles Deleuze e Andrè Bazin ci si imbatte in un universo di pensatori autorevoli, per smettere finalmente di chiedersi se il cinema sia una forma d’arte o no. Ma se lo è, perché non si studia a scuola tra le altre discipline curricolari? E non è neppure necessario scomodare i classici del cinema, per capire quanto anche un brutto film possa promuovere riflessioni se non filosofiche senz’altro sociologiche, antropologiche, culturali: è il caso di film relativamente recenti come L’ultimo bacio di Gabriele Muccino, o Dallas Buyers Club, di Jean-Marc Vallée, o il recentissimo Interstellar, di Christopher Nolan, che pur non essendo capolavori, anzi collocandosi tra astuto commercio e mero esercizio di stile, riescono ad animare discussioni proficue su disparati argomenti di vario interesse.

    L’architettura di un lavoro cinematografico richiede una progettazione laboriosa, una pianificazione minuziosissima, ed un ricorso a tecniche ed espedienti che permettano di imprimere sulla pellicola «l’impronta digitale del mondo», come avrebbe detto Andrè Bazin. Dunque «il cinema pensa», per citare ancora Curi, il cinema è retto da una ragion logopatica.

    Le considerazioni filosofiche che il cinema suscita sono infinite, eppure persistono perplessità, quando non si trasformano in tenaci resistenze, sul trattare la filosofia ricorrendo al materiale che la contemporaneità mette a disposizione. E non alludo alla tecnologia, di cui il Ministero dell’Istruzione ha fornito tutte le scuole: malgrado non siano proprio un esempio di disinvoltura, sono numerosissimi i docenti di filosofia che usano sistematicamente la LIM, che permettono agli allievi di fare ricerche sulla rete, che impiegano e realizzano slide e ipertesti… ma il materiale di studio è sempre attinto ai libri, persuasi del fatto che la verità sia perentoriamente riportata nelle righe della cultura del passato, addirittura unicamente in una lingua che custodisce la verità… quella che non si parla più da secoli, quella del mondo classico… Ma non usiamo forse il termine classico per indicare anche un romanzo del 1800? E non si impiega la parola classico anche per connotare un’opera cinematografica del 1936…? Forse, al pari della parola originale, anche il termine classico ha oggi un significato esteso, obbligatoriamente esteso, flessibile come la stessa cultura dovrebbe essere. Allora mi chiedo perché la musica sì, la letteratura sì, la poesia sì nelle scuole e il cinema no? In fondo il cinema è lo strumento di cui dispone la contemporaneità per raccontare, nello stesso modo in cui la penna e il foglio costituivano un tempo gli unici espedienti per poter fare esattamente la stessa cosa. E come per la scrittura è possibile distinguere tra informazione e comunicazione, anche per il cinema, a suo modo una forma di linguaggio che, in quanto tale, merita di essere impiegato previa conoscenza delle sue regole, le destinazioni del messaggio sono pressoché infinite, sebbene in qualche modo riconducibili alla fredda informazione ed alla più coinvolgente comunicazione.

    È cambiato il sistema, ma non certo le intenzioni. Anche gli espedienti retorici sono sorprendentemente affini: una sineddoche nella scrittura diventa una inquadratura in dettaglio nella ripresa filmica; una cesura in poesia si trasforma in uno stacco, un paragrafo diventa una dissolvenza, una cumulatio si converte in un montaggio ritmico, un flashback in una virata cromatica… In più, come per la scrittura è possibile distinguere tra pattume e perle, tra produzioni di pregio e riproduzioni dozzinali, così nel cinema va distinta l’opera d’arte dal puro commercio o dal mero intrattenimento. È come dire che Dante Alighieri sta a Federico Fellini come Rustico di Filippi sta a Pasquale Festa Campanile, salvo, poi, il Quentin Tarantino di turno, che ha la pretesa di elevare ad opera d’arte quanto di peggio il cinema abbia prodotto in un decennio di pellicola…

    Ma intanto a scuola si studiano solo gli originali: tutto ciò che è seriale non merita attenzioni, perché, come sosteneva Walter Benjamin, il cinema, la fotografia, ma già la stampa a caratteri mobili, insomma i nuovi strumenti a servizio della riproduzione e diffusione di una creazione costringono a tenersi distanti dalla tradizionale accezione del termine originale e permettono alle masse di accedere più facilmente alla fruizione dell’opera d’arte attraverso la copia, la tiratura. Forse non ci si è soffermati adeguatamente sul termine originale: Pietro Montani nota che l’originalità è spesso fraintesa, considerata nella maggior parte dei casi sinonimo di bizzarria, estrosità, trascurando che originale è semplicemente ciò che dà origine ad ulteriori riflessioni, che genera pensiero. Gli studi sul cinema di Montani inducono a non considerare il cinema come filosofia, ma una forma d’arte che in qualche modo ne facilita la scaturigine, favorendo la riflessione, l’innesco di una attività di pensiero sistematico. In questo senso il cinema è Provocazione, e in quanto tale va assunto come prezioso strumento didattico: pro-vocare significa chiamare fuori, significa chiedere che si faccia presente, e a scuola trovare occasioni per pro-vocare riflessioni, e non semplicemente per rimpinzare gli alunni di informazioni talvolta sterili e obsolete, credo sia l’impegno di cui ogni docente dovrebbe farsi carico.

    Gaetano Panella

    Mennato Tedino

    Quest’opera non avrebbe visto la luce senza un grande numero di preziose collaborazioni e contributi di valore. Per questo desideriamo ringraziare tutti gli amici e i colleghi del Liceo Scientifico «Rummo», in particolare la D.S. Teresa Marchese – per il sostegno dato a questa pubblicazione – e il Dipartimento di Filosofia che ha ospitato la rassegna cinematografica «Interazioni». Siamo grati agli autori dei saggi per la cura e l’attenzione che hanno riposto nei lavori qui pubblicati; senza i loro scritti questo testo non esisterebbe. Infine, un ringraziamento particolarmente sentito va ad Umberto Curi per le belle parole e gli auguri con i quali ha voluto accompagnare questo libro.

    Ironia, dis-locazione, citazioni, e-vocazioni

    di Mennato Tedino

    Il postmoderno secondo i Coen.

    O Brother, Where Art Thou?, di Joel ed Ethan Coen,

    USA, novembre 2000.

    Mennato Tedino insegna filosofia nei licei. Il suo campo di ricerca spazia dallo studio dei rapporti tra pensiero astratto, musica, cinema e arti figurative fino alla filosofia ermenuetica con particolare attenzione all’esperienza dell’eredità nietzscheana come declinata nel XX secolo attraverso il contributo di Heidegger, Gadamer e Vattimo. Sui rapporti tra film e filosofia ha recentemente pubblicato Cinesofemi. In dialogo con due film su tempo ed edipo (2014) e Declinazioni del postmoderno. Citazionismo e dissacrazione in "O Brother, Where Art Thou?" (2015). Con Gaetano Panella ha curato il volume La riflessione pro-Vocata. Sei saggi su cinema e filosofia (2014). È in corso di pubblicazione un suo testo sulle recenti tendenze della filosofia italiana dal titolo Trasparenze. Un confronto tra pensiero debole e New Realism. Vive a Foglianise (BN).

    Il saggio seguente riprende, con alcune modifiche, la parte finale del libro Declinazioni del postmoderno. Citazionismo e dissacrazione in O Brother, Where Art Thou?, Narcissus, Catania 2015, al quale si rimanda per un’analisi maggiormente approfondita del film dei fratelli Coen oggetto di questo lavoro, per uno studio comparato dei personaggi coeniani e di quelli omerici (trattandosi di una libera trasposizione dell’Odissea) e per una trattazione adeguata della colonna sonora della pellicola che costituisce un potente strumento evocativo cui ricorrono i

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