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Jack e Jill (Tradotto): Una storia di paese
Jack e Jill (Tradotto): Una storia di paese
Jack e Jill (Tradotto): Una storia di paese
Ebook390 pages13 hours

Jack e Jill (Tradotto): Una storia di paese

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About this ebook

In un freddo pomeriggio invernale, la quiete di Harmony Village viene interrotta dalla rovinosa caduta in slittino di Jack e Jill. L’imprudenza di un attimo si ripercuoterà sulla vita dei due giovani e dei loro amici che, nell’anno a seguire, impareranno a comprendere la bellezza e l’utilità dei piccoli doveri, ma anche le gioie e i dolori che fanno parte dell’esistenza di ognuno.
LanguageItaliano
Release dateJan 21, 2016
ISBN9788892547698
Jack e Jill (Tradotto): Una storia di paese
Author

Louisa May Alcott

Louisa May Alcott was born in Pennsylvania in 1832, the second of four daughters of the philosopher Bronson Alcott. She was educated at home and went on to become a schoolteacher in Boston. Her first book Flower Fables was published when she was twenty-two, but she interrupted her career as a writer to nurse soldiers at a Washington hospital during the civil war. Her most enduring book, Little Women, was published in 1868 and was an instant success. Other books include Little Men and Jo's Boys. Louisa May Alcott died in 1888 at the age of 56.

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    Jack e Jill (Tradotto) - Louisa May Alcott

    I

    La sciagura

    «PISTA!» era il grido generale in un luminoso pomeriggio di dicembre, quando tutti i ragazzi e le ragazze di Harmony Village erano in giro, a godere della prima nevicata abbondante della stagione. Salivano e scendevano per tre lunghi declivi quanto più velocemente consentitogli da gambe e slittini. Un pendio più dolce conduceva al prato, dove si radunavano i più piccini; un altro attraversava lo stagno ghiacciato, dove i pattinatori sfrecciavano di qui e di là come insetti acquatici; e un terzo, dalla cima della collina, terminava bruscamente contro uno steccato, che limitava l’alta scarpata che dava sulla strada. Appoggiato o seduto accanto a questo steccato, v’era un gruppo di ragazzi e di ragazze che riprendeva fiato dopo una corsa entusiasmate e, intanto, si divertiva a criticare gli altri compagni, ancora immersi nel più delizioso degli sport all’aria aperta.

    «Ecco Frank Minot. Guardate che aria seria! Sembra un giudice» gridò uno, quando un ragazzone di sedici anni filò via, con la bocca curva ed uno scintillio risoluto degli occhi, fissi sulla meta ancora lontana, quasi che fosse una questione di vita o di morte.

    «Ed ecco Molly Loo

    ed il piccolo Boo!»

    cantò un altro; e dal pendio venne giù una ragazza con i capelli al vento, portando con sé un bambino talmente grassoccio, che le gambette corte sporgevano da ambo i lati dello slittino e il viso paffuto spuntava da dietro le spalle di lei come una luna piena.

    «Ecco Gus Burton. Non se la cava affatto male, vero?» e il ragazzo che scendeva a tutta velocità era un tale spilungone, che sembrava quasi che i suoi calcagni fossero ancora in cima alla collina, quando la sua testa era già in fondo!

    «Urrà per Ed Devlin!» e un’acclamazione generale accolse un ragazzo dall’aria dolce, con la risata sulle labbra, un bel colorito sulle guance scure ed una parola gentile per ogni ragazza che incrociava.

    «Laura e Lotty preferiscono andare sul sicuro e scendere dalla pista che termina nel prato. Molly Loo è l’unica ragazza che ha il coraggio di provare quella lunga che attraversa lo stagno. Io non la farei per nulla al mondo; il ghiaccio non può ancora essere sufficientemente solido, anche se fa già abbastanza freddo da avere il naso congelato», disse una timida donzella, che sedeva abbracciando un palo ed urlando ogni volta che un ragazzo scuoteva dispettosamente lo steccato.

    «No, non è l’unica. Ecco Jack e Jill che vengono giù come il vento».

    «Fate largo

    per l’allegro Jack²!»

    cantarono i ragazzi, che avevano canzoncine e soprannomi quasi per tutti.

    Dall’alto scendeva una gaia slitta rossa, portando con sé un ragazzo che pareva tutto sorriso ed allegria, tanto erano bianchi i suoi denti, dorati i capelli, e solare e felice il suo aspetto. Dietro a lui stava aggrappata una ragazza che sembrava una piccola zingara, con gli occhi ed i capelli neri, le guance rosse come il berretto che indossava e il volto acceso dal divertimento; con una mano sventolava la sciarpa azzurra di Jack come se fosse una bandiera, mentre con l’altra si teneva.

    «Jill segue Jack ovunque e lui la lascia fare. È talmente buono, non sa dire di no».

    «Ad una ragazza» aggiunse maliziosamente uno dei ragazzi che, poco prima, si era visto rifiutare (gentilmente) la slitta rossa, perché la voleva Jill.

    «È il più caro ragazzo del mondo, perché non si arrabbia mai», disse la timida fanciulla, ricordando le tante volte in cui Jack l’aveva difesa dai pericoli che infestavano la via per andare a scuola, ossia dalle mucche, dai cani e dai ragazzi che le facevano le boccacce e la chiamavano «fifona».

    «Non ha il coraggio di arrabbiarsi con Jill: lei gli caverebbe un occhio, se lo facesse», ringhiò Joe Flint, ancora scottato dal rimbrotto che Jill gli aveva fatto per aver derubato i bambini del pendio più dolce solo perché gli andava.

    «Non lo farebbe mai! È tanto gentile! Tu non devi disprezzarla perché è povera. È molto più brillante di te, altrimenti sono sarebbe sempre la prima della tua classe, Joe» replicarono le ragazze, parteggiando per l’amica con un’unanimità che provava quanto fosse ben voluta.

    Joe tacque, arricciando sdegnato il naso nella misura consentitagli dal suo stato di semicongelamento, e Merry Grant introdusse un argomento d’interesse generale, domandando di punto in bianco:

    «Chi viene alla festa stasera?».

    «Tutti! Frank ha invitato tutti quanti, ci divertiremo un sacco. Lo facciamo sempre a casa dei Minot» esclamò Sue, la timida paurosa.

    «Jack ha detto che ci saranno barili di melassa, perciò ci saranno abbastanza dolci da saziare tutti e da poterne portare anche qualcuno a casa. Loro sì, che sanno come fare le cose in grande» e l’oratore si leccò i baffi, come se stesse già pregustando la festa in serbo per lui.

    «Vale la pena avere una madre come la signora Minot» disse Molly Loo, risalendo con Boo sullo slittino. Lei sapeva bene cosa significasse avere bisogno di una madre, perché non ne aveva una, e cercava di prendersi cura del fratellino con amore materno e pazienza.

    «È dolce proprio come dovrebbe essere una madre» dichiarò Merry, entusiasta.

    «Soprattutto quando ci invita per ingozzarci di dolci», disse Joe, cercando di essere amabile, per timore di essere escluso dalla festa.

    Al che tutti risero e si mossero allegramente per un’ultima discesa, mentre il sole tramontava e il vento tagliente si accaniva su mani e piedi al pari dei nasi.

    Uno dopo l’altro, scesero lungo i vari pendii ― il serio Frank, l’alto Gus, il galante Ed, la svolazzante Molly, le graziose Laura e Lotty, il burbero Joe, la dolce Merry con alle spalle Sue che urlava selvaggiamente, l’allegro Jack e la zingara Jill, sempre insieme ―, tutti traboccanti dell’innocente giovialità portata dal salubre esercizio. La gente che passava nella strada sottostante alzava lo sguardo e sorrideva involontariamente all’indirizzo di quei giovani dalle guance arrossate, che riempivano l’aria gelida con le loro risate cristalline, mentre discendevano nei modi più impensabili. Ora il divertimento era al suo apice, e gli osservatori più anziani provarono un guizzo di piacere nel guardarli, tornando con la mente alla propria gioventù.

    «Jack, portami giù dal quel pendio. Joe ha detto che non avrei avuto il coraggio di scendere di là, perciò devo farlo» comandò Jill, quando si fermarono per riprendere fiato dopo la faticosa risalita in cima alla collina. Naturalmente, Jill non era il suo vero nome; le era stato dato per via della sua amicizia con Jack, che così tanto ammirava lo spirito e l’allegria di Janey Pecq.

    «Preferirei di no. Il percorso è piuttosto irregolare e termina bruscamente. Non è bello neanche la metà di questo. Sali, faremo una bella discesa passando per lo stagno» e Jack girò Fulmine con un’abile mossa e un fare accattivante che avrebbero persuaso chiunque, ma non l’ostinata Jill.

    «Bello, ma non intendo sentirmi dire che ‘non ho il coraggio’ da nessun ragazzo al mondo. Se hai paura, andrò da sola». E, prima ch’egli potesse dire qualcosa, gli aveva strappato la corda di mano, era salita sulla slitta e si era lanciata, in fretta e furia, giù per il pendio più pericoloso della collina.

    Non andò molto lontano, comunque: essendo partita senza pensare, non guidò il proprio destriero con la dovuta cura, così lo slittino rosso atterrò su un cumulo di neve a metà della discesa, dove ella rimase, ridendo, finché Jack non la raggiunse.

    «Se sei proprio decisa a farlo, allora sarò io a portarti giù, va bene? Non ho paura; con gli altri siamo scesi da questa parte dozzine di volte, ma abbiamo smesso perché il pendio è troppo ripido e termina male» disse, mantenendo il suo fare gentile, sebbene il sentirsi dare del codardo l’avesse un po’ ferito, perché Jack aveva il coraggio di un giovane leone, e del miglior tipo: il coraggio di fare la cosa giusta.

    «Lo so, ma devo fare questa discesa almeno un paio di volte, o stasera Joe mi darà il tormento e mi rovinerà tutto il divertimento», rispose Jill, ripulendo la gonna e strofinandosi le mani blu, bagnate ed infreddolite dalla neve.

    «Prendi, indossa questi. Tanto io non li uso mai. Se ti vanno, tienili pure; li porto solo per accontentare mia madre». E Jack tirò fuori un paio di guanti rossi, col fare di chi è solito donare le proprie cose.

    «Sono adorabilmente caldi, e mi vanno bene. Devono essere troppo piccoli per le tue zampe; per Natale te ne farò un paio nuovo a maglia, e mi assicurerò anche che tu li metta» disse Jill, infilando i guanti con un cenno di ringraziamento, e concludendo il discorso battendo gli stivali di gomma sulla neve, per far intendere che avrebbe messo in pratica la sua minaccia.

    Jack rise, e risalirono fino al punto in cui le tre piste si dividevano.

    «Dunque, quale discesa vuoi fare?» domandò il ragazzo, e nei suoi onesti occhi azzurri vi era uno di quegli sguardi d’ammonizione con cui spesso riusciva inconsapevolmente a frenare i capricci di Jill a dispetto della sua volontà.

    «Quella!» e il guanto rosso indicò fermamente l’insidioso percorso appena tentato.

    «Sei sicura?».

    «Sì!».

    «Sali, allora, e tieniti ben stretta».

    Jack non sorrideva più ora; attese senza dire una parola che Jill prendesse posto sullo slittino, poi sedette davanti a lei e si lanciarono in quel breve viaggio, senza respiro, che terminava dritto nel cumolo di neve accosto alla staccionata.

    «Non mi pare che sia poi così pericoloso. Torniamo in cima e rifacciamolo. Joe ci sta guardando e voglio fargli vedere che non abbiamo paura di niente» disse Jill, lanciando uno sguardo di sfida ad un ragazzo che, in lontananza, si era fermato a guardare la loro discesa.

    «È un vero e proprio salto nel buio, ma se è quello che vuoi» rispose Jack, mentre risalivano faticosamente.

    «Sì, è quello che voglio. Voi ragazzi pensate che alle ragazze piacciano le discese facili, quelle noiose e senza pericoli, come se noi non potessimo essere coraggiose e forti quanto voi. Dammi tre salti nel buio e poi ci fermeremo. La mia caduta non conta, perciò accontentami ancora due volte e poi sarò soddisfatta».

    Mentre così diceva, prese posto e guardò in su con un viso talmente roseo ed implorante, che Jack cedette all’istante. Così, si lanciarono nuovamente, sollevando una nuvola di neve quando frenarono elegantemente ad un passo dalla recinzione.

    «Semplicemente splendido! Ora l’ultimo giro!» esclamò Jill, esaltata dalle acclamazioni di un gruppo d’amici che passava lì vicino.

    Fiero delle proprie capacità, Jack s’incamminò verso la cima della collina con andatura marziale, deciso a fare dell’ultima discesa l’evento del pomeriggio, mentre Jill saltellava dietro di lui con una leggiadria tale da far pensare che i grossi stivali che portava ai piedi fossero quelli delle sette leghe, parlando della festa della sera e domandandosi se ci sarebbero state o no anche le noci.

    L’argomento finì per assorbirli a tal punto, che presero alla leggera quello che stavano facendo. Quando partirono, infatti, stavano ancora parlando così vivacemente, che Jill dimenticò di tenersi come si deve e Jack di guidare con la dovuta attenzione. Peccato per la festa, che non ci sarebbe stata. Peccato per il povero Fulmine, lanciato alla cieca verso il suo ultimo viaggio! Oh, peccato per Jack e Jill, che avevano scelto consapevolmente la strada sbagliata e che non avrebbero avuto altro divertimento per il resto dell’inverno! Nessuno capì come successe, ma, anziché fermarsi sul cumulo di neve o prima della recinzione, si schiantarono contro la staccionata e saltarono rovinosamente oltre la ripida scarpata: ragazzi, slittino, staccionata, terra e neve precipitarono a catafascio sulla strada. Si udirono due grida e poi nulla.

    «Sapevo che sarebbe finita così!» e, dal suo posto d’osservazione, Joe cominciò ad agitare le braccia, gridando: «Un incidente! C’è stato un incidente! Correte! Correte!» gracchiando come un corvo su un campo di battaglia dopo uno scontro. Si precipitarono tutti, pronti a ridere o a piangere, a seconda del caso. Trovarono Jack seduto, che si guardava intorno, stordito; aveva un brutto taglio alla fronte, che sanguinava al punto da preoccupare i ragazzi e da spaventare a morte le ragazze.

    «Si è ammazzato! Si è ammazzato!» gemette Sue, nascondendo il viso tra le mani e cominciando a piangere.

    «No, non mi sono ammazzato. Starò bene tra un attimo, quando avrò ripreso fiato. Dov’è Jill?» domandò Jack, senza alcuna incertezza, sebbene fosse ancora troppo stordito per vedere nitidamente.

    La folla intorno a lui si aprì e vide che la sua compagna di sventura giaceva immobile nella neve, senza un briciolo di colore in viso, sbattendo le palpebre, anch’essa stordita. Ma non si vedevano ferite, e quando qualcuno chiese se era morta, rispose come trasognata:

    «No, non credo. Jack è ferito?».

    «Si è rotto la testa» gracchiò Joe, facendosi da parte, così ch’ella potesse vedere l’eroe caduto, che cercava invano di sembrare calmo e sorridente, con un rivolo di sangue che gli scendeva lungo la guancia e un bernoccolo sulla fronte.

    Jill chiuse gli occhi e, respingendo le ragazze, disse con un fil di voce:

    «Non preoccupatevi per me. Badate a lui».

    «Non ce n’è bisogno! Sto bene!» e Jack cercò di alzarsi per far vedere che volare giù per una scarpata era una sciocchezza per lui; ma, appena provò a muovere la gamba sinistra, lanciò un grido di dolore, e sarebbe caduto se Gus non l’avesse preso e adagiato a terra delicatamente.

    «Che cosa c’è, vecchio mio?» gli domandò Frank, inginocchiandosi al suo fianco, davvero allarmato adesso, perché le ferite sembravano andare oltre ai meri bernoccoli, che erano normale amministrazione tra i giocatori di baseball e, pertanto, affatto degni di nota.

    «Non mi sono fatto niente alla testa, ma credo di essermi rotto una gamba. Non spaventare mamma» e Jack strinse il braccio di Frank, fissando quel volto ansioso chino su di lui; perché, sebbene il maggiore tiranneggiasse il più giovane, i due fratelli si volevano un gran bene.

    «Sollevagli la testa, Frank, così che possa legargli intorno il mio fazzoletto per fermare l’emorragia» disse con voce calma Ed Devlin, mentre deponeva una manciata di neve fresca sulla ferita. Il volto di Jack s’illuminò nel voltarsi a ringraziare quel ragazzone che non era mai sgarbato con i più piccoli.

    «Sarà meglio portarlo subito a casa» suggerì Gus, che stava in piedi a guardare, con le sorelline Laura e Lotty che si stringevano a lui.

    «Bisogna trasportare anche Jill, perché credo che si sia rotta la spina dorsale. Non riesce a muoversi neanche un po’» annunciò Molly Loo, con una buffa aria di trionfo, come soddisfatta che la sua inferma fosse quella nelle condizioni peggiori, poiché la ferita di Jack faceva molta scena, e Molly aveva un debole per il tragico.

    Questo allegro annuncio fu accolto da un lamento di Susan e dagli ululati di Boo, che si era guadagnato quel soprannome per la facilità con cui, in ogni occasione, riusciva a esibirsi in tetri ruggiti senza versare una sola lacrima, smettendo poi con la stessa rapidità con cui aveva cominciato.

    «Oh, sono così dispiaciuto! È tutta colpa mia, non avrei dovuto lasciarglielo fare!» disse Jack, in preda all’angoscia.

    «È mia la colpa. Se anche mi fossi rotta tutte le ossa, mi starebbe bene. Non aiutatemi. Nessuno! Sono cattiva e merito di restare qui e morire per la fame e per il freddo!» esclamò Jill, assegnandosi ogni possibile punizione suggeritale dal rimorso, alimentato dal dolore fisico e morale.

    «Ti aiuteremo, invece. Penseremo alla questione della colpa in un altro momento» mormorò Merry, dandole un bacio; lei adorava la vivace Jill e non poteva concepire che potesse fare qualcosa di sbagliato.

    «Arrivano delle slitte. Giusto in tempo. Gli vado incontro e chiedo a qualcuno di aiutarci». E, liberatosi dalla stretta delle sorelle, Gus si allontanò a grande velocità, provando che le sue lunghe gambe sorreggevano una testa giudiziosa, oltre che un cuore d’oro.

    Non appena la prima slitta si avvicinò, una sensazione di sollievo pervase l’agitato gruppo, perché era guidata dal signor Grant, un fattore imponente, dall’aspetto benevolo, che esaminò la scena con la comprensione di un uomo e di un padre.

    «Avete avuto un piccolo incidente, eh? Beh, questo è un punto dove è abbastanza facile fare un bel capitombolo. È successo anche a me una volta. E mi sono rotto il naso» disse, dando un colpetto a quella massiccia prominenza, con una risata che mostrò come cinquant’anni spesi lavorando nei campi non avessero spento il fanciullo che era in lui. «Ebbene, vediamo che cosa abbiamo qui, e anche in fretta, perché è tardi e voi tutti dovreste essere già a casa» aggiunse, deponendo la frusta, spingendo indietro il berretto e annuendo all’indirizzo dei feriti con un sorriso rassicurante.

    «Per favore, prima Jill, signore» disse Ed, il gentil cavaliere delle fanciulle, stendendo il suo cappotto nella slitta, con più premura di quella di Raleigh³ quando distese il proprio mantello di velluto affinché la regina potesse camminarci sopra.

    «Va bene. Stai calma, mia cara, e cercherò di farti meno male possibile».

    Per quanto il signor Grant la sollevasse con cura, Jill avrebbe voluto gridare, tanta era la pena, invece, serrò le labbra e resistette strenuamente, come un piccolo coraggioso indiano; tutti i compagni la guardavano ed ella era orgogliosa di poter dimostrare che una ragazza poteva sopportare il dolore come un ragazzo.

    Tuttavia, appena fu adagiata nella slitta, affondò il visto nel cappotto, per nascondere le lacrime che le salivano agli occhi. Quando Jack fu sistemato al suo fianco, aveva già stipato una buona riserva di acqua salata nella tasca del cappotto di Ed.

    Poi il mesto corteo s’avviò; il signor Grant guidando i buoi, le ragazze circondando la slitta con gli infortunati, ed i ragazzi che seguivano poco più dietro, a mo’ di guardia d’onore. Sulla collina, ormai desolata, rimaneva solo Joe, fermo lì dove la staccionata aveva ceduto e dove i resti di Fulmine giacevano, a segnare il punto in cui si era verificata la grande sciagura.

    ¹ L’autrice si rifà ad una filastrocca della tradiziona inglese, Jack e Jill, che risale alla fine del 1700. Il testo originale recita: « Jack and Jill / Went up the hill, / To fetch a pail of water; / Jack fell down / And broke his crown, / And Jill came tumbling after».

    ² In inglese Jolly-Jack, che significa «perdere tempo, bighellonare».

    ³ Sir Walter Raleigh (1552-1618): favorito della regina Elisabetta I d’Inghilterra, s’impegnò alacremente per l’espansione coloniale inglese, organizzando spedizioni sia in Sud America, sia in Nord America, dove scoprì la Virginia (1584), nel Nord Carolina. Si racconta che Raleigh abbia disteso il suo mantello su una pozzanghera per far sì che la regina Elisabetta non si bagnasse i piedi. A tale aneddoto, s’ispira il racconto La storia di Sir Walter Raleigh (1906) di Margaret Duncan Kelly.

    Capitolo II

    I due penitenti

    Jack e Jill non raccontarono mai molto della notte che seguì i festeggiamenti della prima uscita in slittino della stagione, e questo perché fu la più triste e la più dura delle loro giovani vite.

    Jack soffriva maggiormente nel corpo. Mettere a posto la gamba rotta fu un’operazione davvero dolorosa, che strappò al ragazzo le urla più strazianti, lasciando profondamente prostrato anche Frank, che si era offerto d’aiutare. La ferita alla testa doleva terribilmente, e il povero ragazzo aveva lividi in tutto il corpo, giacché la sua caduta era stata peggiore. Tuttavia, il dottor Whiting trattava il caso con tranquillità e disquisiva di gambe rotte con una tale leggerezza, che Jack finì per chiedergli ingenuamente se sarebbe stato in piedi nel giro di una settimana.

    «Beh, no. In genere, sono necessari ventuno giorni perché le ossa si saldino, e quelle dei giovani lo fanno anche piuttosto in fretta» rispose il dottore, con un’ultima occhiata alla fasciatura, che faceva sentire Jack come un povero pollo infiocchettato per lo spiedo.

    «Ventuno giorni! Tre intere settimane a letto! Io questo non lo chiamerei ‘piuttosto in fretta’!» gemette lo sgomento paziente, la cui esperienza come malato era stata alquanto limitata.

    «È una faccenda che richiede quaranta giorni, giovanotto, perciò conviene che tu ti metta in testa d’affrontarla come un eroe. Faremo del nostro meglio. La prossima volta, pensaci due volte prima di lanciarti e bada alle tue ossa. Buona notte, ti sentirai meglio domattina. Non muoverti, mi raccomando». E l’indaffarato dottore andò via per dare un’altra occhiata a Jill, alla quale era stato ordinato di rimanere a letto e di riposare fintanto che egli non si fosse occupato dell’altro caso.

    Chiunque avrebbe pensato che la condizione di Jack fosse di gran lunga la peggiore, ma il dottore sembrava guardare con più preoccupazione al trauma alla schiena di Jill che non alle fratture composte del ragazzo; e la povera ragazzina passò un brutto quarto d’ora, mentre egli cercava di valutare la gravità del danno.

    «Fatela stare tranquilla, e il tempo ci darà una misura del guaio» fu tutto ciò che ella riuscì a sentire. Ma se avesse saputo che l’uomo aveva confidato alla signora Pecq che temeva serie conseguenze, ella non si sarebbe più chiesta la ragione di quelle lacrime che scendevano dal viso della madre mentre le massaggiava le membra intorpidite e le sistemava i cuscini teneramente.

    Jill soffriva maggiormente nello spirito; solo di tanto in tanto, un’improvvisa fitta di dolore le ricordava del suo corpo; ma la sua piccola anima colma di rimorso non trovava pace al pensiero di Jack, e la sua fervida immaginazione aveva fatto sì che le contusioni e le fratture dell’amico assumessero le tinte più macabre.

    «Oh, non essere buona con me, mammina. Sono io che l’ho spinto a scendere di lì, ed ora sta terribilmente male, e potrebbe morire. Ed è tutta colpa mia. Dovreste odiarmi tutti» singhiozzò la povera Jill, quando una vicina ebbe lasciata la stanza, dopo essere passata a raccontare minuziosamente di come Jack avesse gridato in modo straziante durante la steccatura della gamba, e di come Frank fosse stato visto, più bianco di un lenzuolo, con la testa sotto la pompa del pozzo d’acqua, con Gus che pompava come se la casa stesse andando a fuoco, nel tentativo di far riprendere l’amico.

    «Shhh, bambina mia, cerca di dormire. Bevi un sorso del buon vino che ha mandato la signora Minot, perché sei gelata, e mi si spezza il cuore a vedere la mia Janey in questo stato».

    «Non riesco a dormire. Non capisco come la madre di Jack possa mandarmi qualcosa quando le ho quasi ucciso il figlio. Voglio essere gelata, soffrire e patire le cose più orrende. Oh, semmai dovessi riuscire ad alzarmi da questo letto, sarò la ragazza migliore del mondo. Vedrai!» e Jill annuì con una tale decisione che le lacrime caddero sul cuscino come un acquazzone.

    «Allora faresti meglio a cominciare ad esserlo fin da ora, perché temo che non potrai lasciare questo letto per molto tempo, bambina mia» sospirò la madre, incapace di nascondere la preoccupazione che le gravava sul cuore.

    «Mi sono fatta molto male, mamma?».

    «Temo di sì, piccola mia».

    «Ne sono contenta. Mi merito di stare peggio di Jack, e spero che sia così. Sopporterò tutto e comincerò subito ad essere buona. Canta, mammina, e cercherò di dormire per farti piacere».

    Jill chiuse gli occhi con un’improvvisa ed inusuale mitezza e, prima che la madre avesse intonato poche strofe di una vecchia ballata, la testa corvina giaceva immobile sul cuscino, e la pentita Jill si era addormentata con un guanto rosso in mano.

    La signora Pecq era nata in Inghilterra; alla morte del marito, un franco-canadese, aveva lasciato Montreal ed era venuta a vivere nel piccolo cottage a fianco della grande casa della signora Minot, separati solo da una siepe di tuia. Era una donna malinconica e riservata, che aveva visto giorni migliori, ma dei quali non parlava mai; si guadagnava da vivere cucendo, assistendo i malati, lavorando in fabbrica, o facendo qualsiasi altra cosa le capitasse, ansiosa di assicurare un’istruzione alla sua bambina. Ora, mentre sedeva accanto al letto, quell’auspicio le pareva venire meno, perché, probabilmente, la piccola sarebbe stata costretta in quella stanzetta per molti mesi a venire, e l’unica gioia della vita della donna era vedere il nome di Janey Pecq scritto in cima alle belle pagelle che la bambina portava a casa con orgoglio e tante aspettative.

    «Supererà tutto, se Dio vorrà, e la vedrò diventare grande, e il caro cuore che vive laggiù non permetterà che le manchi qualcosa» si disse la povera donna. E volse lo sguardo nell’oscurità, dove un lungo raggio di luce si protendeva da quell’abitazione calda ed accogliente verso il suo cottage, come la bontà di spirito che li aveva fatti diventare amici e vicini.

    Nel frattempo, anche l’altra madre sedeva accanto al letto del figlio; anch’essa preoccupata, ma più speranzosa, perché la signora Minot affrontava le difficoltà con dolcezza e comprensione, ed i suoi ragazzi stavano imparando da lei come trovare il lato positivo in quelle nuvole che spuntavano anche nei cieli più limpidi.

    Jack giaceva ancora completamente sveglio, con le guance in fiamme, fitte lancinanti alla testa e forti dolori alla gamba rotta. La tisana calmante che aveva preso non aveva ancora fatto effetto, ed il ragazzo cercava d’ingannare il tempo porgendo l’orecchio al via vai al piano di sotto. Lievi scampanellate alla porta d’ingresso e misteriosi colpetti a quella sul retro, andavano avanti da tutta la sera; perché il resoconto sull’incidente era andato ingigantendosi sorprendentemente nel suo peregrinare, e alle otto era convinzione generale che Jack si fosse rotto entrambe le gambe, fratturato il cranio, e fosse in punto di morte, mentre Jill si era slogata una spalla ed era piena di lividi blu da capo a piedi. Nessuna meraviglia che amici e vicini, preoccupati da quello stato di cose, bussassero continuamente alla soglia delle due case per offrire aiuto e sostegno.

    Frank, dopo aver legato il campanello d’ingresso ed appeso un cartello alla finestra, sul quale si leggeva "Bussate alla porta sul retro", aveva preso posto in salotto, confortato dal suo amico Gus, mentre Ed suonava il piano con dolcezza, sperando di aiutare Jack ad addormentarsi. E, in effetti, era riuscito a calmarlo, perché esisteva una dolce amicizia tra quel giovanotto alto ed il tredicenne. Ed faceva parte dei grandi, ma aveva sempre una parola gentile per i ragazzi più piccoli; e l’affettuoso Jack, che non si vergognava mai di mostrare il suo attaccamento, veniva spesso visto con un braccio sulle spalle di Ed, mentre sedevano insieme nell’accogliente salotto rosso, dove tutti ragazzi erano benvenuti e Frank era il re.

    «Va un po’ meglio, tesoro mio?» domandò la signora Minot, chinandosi sul cuscino dove la testa bionda ora giaceva in silenzio.

    «Non molto. Ascoltare la musica mi distrae dal dolore. Il caro vecchio Ed sta suonando tutti i pezzi che mi piacciono di più, è molto buono da parte sua. Deve essere piuttosto dispiaciuto per me».

    «Lo sono tutti. Frank non riesce a parlarne. Gus non è neanche voluto tornare a casa per cenare, troppo ansioso di fare qualcosa per noi. Joe ha riportato a casa i pezzi della tua povera slitta; ha detto che non voleva che andassero persi e a te, forse, sarebbe piaciuto tenerli per ricordare la tua caduta».

    Jack provò a ridere, ma il risultato fu un fallimento, anche se riuscì a dire, allegramente:

    «È stato buono da parte di Joe. Non ho voluto prestargli Fulmine per paura che me lo rovinasse. Non avrebbe potuto fare più danni di quelli che ho fatto io, vero? Non credo di aver bisogno di quei pezzi per ricordarmi della caduta. Vorrei solo che ci avessi visti, mamma! Dev’essere stato un capitombolo splendido, degno di essere visto».

    «No, grazie; non voglio neanche provare ad immaginare il mio prezioso bambino a gambe per aria, giù da quella spaventosa collina. Niente più scherzi per un po’, Jacky» e la signora Minot parve tutto sommato sollevata di avere il suo avventuroso pulcino al sicuro sotto la sua ala materna.

    «Niente più corse fino a gennaio. Che sciocco sono stato! Scendere a rotta di collo è sempre pericoloso, ma è lì che sta il divertimento. Ohimè!».

    Jack stese le braccia e aggrottò le sopracciglia, ma non disse una sola parola circa il cocciuto passeggero che lo aveva fatto finire nei guai; era troppo gentiluomo per fare la spia su una ragazza, anche se gli costava fatica tenere la bocca chiusa, perché ci teneva alla buona opinione che la madre aveva di lui, e avrebbe voluto spiegarle le ragioni di quell’imprudenza. Tuttavia, la madre sapeva già tutto, poiché pure Jill era stata portata in casa rivelando il suo ruolo nell’incidente, e pur nell’ansia per il proprio figliolo, la signora Minot aveva capito cos’era successo senza bisogno di spiegazioni. Perciò, affinché smettesse di preoccuparsi, gli disse con dolcezza:

    «Un divertimento sciocco, come puoi

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