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I signori delle ombre
I signori delle ombre
I signori delle ombre
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I signori delle ombre

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About this ebook

Questa storia non è come le altre. 
Perché è la storia (vera e nascosta) della più potente arma di distrAzione di massa, ovvero della manipolazione di milioni di persone per asservirle o annientarle negli anni della Guerra Fredda.
Introdotta anche in Italia negli Anni Settanta, ha fatto migliaia di morti e distrutto ancor più famiglie. Tutte vittime ignare del più scellerato progetto di controllo sociale mai attuato.
E purtroppo, personaggi a parte (per evitare querele), è una storia vera.
Leggerla cambierà radicalmente la vostra prospettiva sugli ultimi quaranta anni della storia italiana.
LanguageItaliano
PublisherJacopo Nesti
Release dateJan 10, 2016
ISBN9788892541092
I signori delle ombre

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    I signori delle ombre - Jacopo Nesti

    Jacopo Nesti

    I signori delle ombre

    ©Jacopo Nesti

    I signori delle ombre

    2016

    Foto di copertina di Licínio Florêncio

    Per vedere altre immagini:

    http://instagram.com/licinio_florencio/

    UUID: a16742b8-542d-11e7-a1f5-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Ringraziamenti

    Questo libro è nato nel silenzio di un lavoro solitario. Solo una volta terminato è stato condiviso da pochi lettori fidati. Perciò i miei ringraziamenti vanno principalmente a loro. A Eugenia Picchi che per prima ha voluto affrontare l’impervia lettura di una prima bozza, offrendomi preziose critiche e spunti, importantissimi per migliorare la stesura finale. Il suo entusiasmo nei confronti della storia è stato di grande aiuto e il suo giudizio un grande orgoglio. Più o meno le stesse parole valgono per Anna Maria Guideri, la cui grande lucidità intellettuale è un punto di riferimento costante, di cui ho abusato anche in questa circostanza. Spero di aver ben interpretato la sua lezione di misura. Un lettore speciale, grande divoratore notturno di libri, è mio padre, al quale non potevo certo negare queste pagine, che ha fagocitato come di consueto. Il suo responso non poteva che essere... critico; ma mi sarei preoccupato del contrario, come ha sottolineato anche mia madre, la quale invece, da scrittrice di fiabe, è sempre stata aperta sostenitrice di questa avventura durata anni.

    Una piccola storia bella è anche la vicenda della foto di copertina, che ho scovato – grazie a Internet – in Portogallo. Il suo autore, il fotografo Licínio Florêncio – mai conosciuto prima e contattato tramite Facebook –, non ha avuto alcun problema a concedermene l’uso, con un gesto di grande generosità che mi ricorda quanto possa essere grande la bontà delle persone. Grazie Licínio.

    Infine il ringraziamento più grande – e non poteva essere altrimenti – va alla mia famiglia e in particolare a mia moglie Daniela. Perché scrivere un libro come questo richiede moltissimo tempo, anni, di studio, di lettura, di scrittura. Tutto tempo sottratto alla vita familiare che nessuno potrà mai più restituirci. Sopportarlo fino ad accettarlo non è facile. Perciò se è vero che questo libro l’ho scritto da solo è ancor più vero che il suo sacrificio l’abbiamo pagato in due.

    Per questa semplice ragione lo dedico a lei.

    Questo libro è un’opera di fantasia. Appoggia però su vicende realmente accadute e documentate.

    Di conseguenza molti personaggi e fatti narrati hanno avuto un’esistenza storica, ma il loro impiego in queste pagine serve unicamente a offrire maggior vividezza al racconto. Pertanto qualsiasi cosa li riguardi in questa narrazione (pensieri, dialoghi, azioni e fatti) è da intendere esclusivamente come frutto delle suggestioni dell’autore e come tale deve essere considerata dal lettore.

    Per quanto riguarda invece i personaggi di fantasia, qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive e defunte, è assolutamente casuale.

    Jacopo Nesti

    I signori delle ombre

    - Romanzo nero -

    La verità è nella storia, ma la storia non è la verità.

    Nicolás Gómez Dávila

    Noi siamo polvere e ombra.

    Orazio

    Prologo

    Per un attimo si chiese se il navigatore dell'auto l'avesse tradita.

    Abbandonata in una notte d'inverno, a circa seicento chilometri da casa.

    Nel nulla.

    Si guardò attorno e a malapena riuscì a scorgere in lontananza la corona di colline che orlava di nero l'orizzonte. Davanti a sé solo una strada sterrata che sembrava sorgesse nei suoi fari allo xeno.

    Fermò il suv e rimase a fissare quella luce. Quasi volesse inghiottirla per ricacciare indietro le ombre che sentiva crescere dentro.

    Non adesso, si ripeté più volte nel tentativo di frenar la testa, che aveva preso a vorticare.

    Invano.

    «Scheiße!» imprecò allora battendo il palmo sul volante, come si batte un pugno sul tavolo a ripristinare l'ordine.

    E scese dalla macchina per prendere una boccata d'aria, stringendosi dentro il lungo piumino per proteggersi dal freddo pungente, preludio della perturbazione siberiana prevista sull'Italia centrale per l'indomani.

    Attorno a lei soltanto l'oscurità più totale, spessa come la pece.

    Era un po' che aveva lasciato la provinciale che portava da Siena a Chiusdino, ma nessuno dei poggi scuri che aveva fiancheggiato era rischiarato sulla cima dalla luce di una casa, come lui le aveva indicato. Solo alle sue spalle, nella direzione da cui proveniva, alcuni bagliori di una lontana colonica.

    Poi, come se la chiamassero, alzò gli occhi al cielo. Un milione di stelle palpitavano di luce, come un letto di diamanti su un panno di velluto nero. Così luminose, forse, le aveva viste soltanto nelle notti della sua infanzia in Bolivia, quasi mezzo secolo prima.

    Bellissime, pensò fra sé tornando a interrogare il buio circostante.

    Quale irrefrenabile comando può condurre un uomo come lui a consumare gli ultimi anni della sua vita in un luogo tanto isolato?

    Infine, prima di rimontare in macchina, le tornò in mente ancora quella frase, pronunciata da lui nell'ultima loro videochiamata.

    "È il mio al iksir, ne sono convinto. Possiamo raccontare al mondo intero che è la fine della schiavitù umana, della dipendenza. E tu ne sarai l'iniziatrice".

    Parole.

    Prologo - 2

    «Pensavo di essermi persa» esordì lei, mentre si toglieva il lungo piumino color avorio, sotto il quale esibiva un elegante tailleur prugna, che si attagliava perfettamente al suo corpo.

    Lui la scrutò con uno sguardo insistito. Dalla testa, con caschetto nero corvino a risaltare gli occhi cerulei, precipitò ai piedi, assecondando il risveglio di un antico ricordo, di un inverno molto lontano. Come allora, erano fasciati in eleganti scarpe col tacco che le slanciavano gambe ancora molto belle, fini e tornite, appena velate di nero da un paio di calze fumé, con una vertiginosa cucitura posteriore a indicare una direzione inequivocabile. Che nella fantasia di un momento percorse fino al pensiero di un palpito, di un respiro affannoso, di un'incitazione sussurrata. La maturità sembrava non aver sfiorito quel corpo e nonostante gli anni rimaneva una donna bella. Di una bellezza che più di trent'anni fa l'aveva turbato, e adesso scopriva - con sua sorpresa - di subire ancora.

    «È passato tanto tempo, ma su di te è scivolato via come la pioggia di maggio. Non c'è che dire, sei sempre bella, dal vivo ancor di più... Su Skype però - l'ultima volta che ci siamo visti - eri bionda, con i capelli lunghi...»

    «Un piccolo colpo di testa... Noto invece che nell'invecchiare ti si è sciolta la lingua, peccato che le tue siano lusinghe tardive.»

    «Come ti ho detto, non ho nulla da perdere, in tutti i sensi. A noi vecchi è concesso di dire ciò che pensiamo e di fare le cazzate che vogliamo. Soprattutto quando - come nel mio caso - non abbiamo più una famiglia da imbarazzare.»

    «Perdonami, ma trovo patetica una simile professione di libertà alla tua età. Cosa sono i rimpianti di un vecchio per un frutto non colto? O l'improvviso risveglio di un'ultima fregola, magari chimicamente assistita? Il treno è passato una vita fa, quasi mi impressiono a ricordarmi che l'hai perso di... Trent'anni!? Praticamente adesso è come se fossimo due estranei. I tuoi occhi addosso a me sono quelli di un qualsiasi sconosciuto incrociato per strada. Perciò - ti prego - procediamo oltre.» L'uomo, con il pretesto di prenderle il piumino, le si avvicinò guardandola dritta negli occhi.

    «Freya, sapevo che dopo tutti questi anni avresti tentato di impressionarmi. Di rinfacciarmi la tua bellezza. Ti sei sempre divertita ad usarla con gli uomini. Sto dunque semplicemente soddisfacendo la tua ennesima vendetta nei miei confronti. Sto al tuo gioco. Perché se davvero volessi...» disse afferrandola con un braccio intorno alla vita e stringendola a sé, ad un palmo dalla sua bocca.

    «...Spingermi oltre, cosa me lo impedirebbe?»

    Quell'improvvisa presa, la sua forza inaspettata, quegli occhi di lampo accesi contro i suoi, le diedero un fremito che per un momento sembrò cancellare il tempo.

    «Velio, per cortesia, lasciami! Non è proprio il caso.»

    Lui continuò a fissarla per qualche altro istante, il naso pronunciato e fine come una lama, le labbra appena disegnate di carminio, leggermente aperte su denti serrati e bianchissimi. Assaporò quella sottile vittoria, la sensazione di poter disporre di lei come volesse. Aveva ripristinato la sua superiorità, e aveva letto nei suoi occhi la confusa miscela di turbamento e timore, agitazione ed eccitazione che sapeva essere il segnale, l'invito celato a vincere le ultime difese.

    Avvicinò ancor di più la sua bocca, fino a sentire il respiro farsi affannoso e vedere le guance colorarsi di rosso.

    Quanto tempo... dimenticato in un attimo, pensò.

    A quel punto le rivolse un sorriso beffardo e allentando la presa le rispose.

    «Ha ragione lei - signora Krupp - non è proprio il caso. Siamo qui perché dobbiamo parlare di altre cose, assai più importanti. Per adesso, allora, accomodiamoci al tavolo.»

    «Come ti ho scritto, il gruppo di ricerca è rimasto molto impressionato dei dati che ci hai inviato nell'ultimo anno» disse Freya mettendosi a sedere e poggiando il suo beauty-case sulla sedia accanto.

    «Dopo mesi e mesi di attente verifiche» proseguì la donna «siamo giunti alla conclusione che le tue relazioni sono attendibili. Il nostro team di ricercatori non si è mai imbattuto in una simile sostanza, con un quadro generale del genere. Le potenzialità appaiono virtualmente prodigiose. Ovviamente fin tanto che non ci fornirai tutti gli elementi del tuo al iksir - come lo chiami tu - non potremo esserne certi al cento per cento.»

    L'uomo la raggiunse al tavolo portando con sé il suo portatile già acceso.

    «Fornirvi tutti i dati... » sorrise fra sé scuotendo appena la testa. «Certo. Appena avrete accettato la mia proposta.»

    «Anche perché adesso» riprese l'uomo «ho trovato un altro modo per liberarmi dalle vostre catene, che in passato hanno fatto saltare tutti i contatti con le altre aziende.»

    «Volevi ti stendessimo un tappeto rosso?! Abbiamo soltanto fatto valere le nostre prerogative. Nessuna azienda farmaceutica si metterebbe contro di noi, scoprendo che sei ancora legato da un contratto di esclusiva. Poi, Velio, anche il presidente comprende perfettamente che il tuo ritrovato potrebbe avere una portata epocale... Chiede però un altro po' di tempo. Non è ancora riuscito a convincere quelli del Dipartimento. Nonostante le nostre rassicurazioni, sono estremamente dubbiosi: sentono puzza di bruciato. E tu meglio di chiunque altro sai che peso abbiano loro su certe cose.»

    «Un altro po' di tempo!?» proruppe l'uomo con un sorriso nervoso. «Sono troppo vecchio per non capire che il vostro temporeggiamento, che dura da mesi, è una strategia precisa, un modo per sfiancarmi fino a farmi accettare il vostro compromesso. La realtà è che avete paura del Dipartimento. Ma io non ne ho. Non ho più nulla da perdere.»

    Poi, fissandola dritta negli occhi, «Freya, ho passato i novant'anni: non ho tempo per rinvii sine die. Perciò o prendete una decisione o lo farò io!»

    «Cosa intendi, Velio?»

    «Una cosa molto semplice: o voi accettate la mia proposta entro una settimana, firmando il contratto inviato, oppure io inizierò a sparare in rete questo video che ho preparato. È la mia arma per rompere l'assedio» disse con tono enfatico. «Ovviamente» riprese «lo invierò anche ai media, all'Oms, altre agenzie governative del farmaco, ordine dei medici, università, centri di ricerca indipendenti, associazioni del malato, dei consumatori, eccetera, eccetera.»

    «Un ultimatum con un video che mostra le sconvolgenti evoluzioni farmacodinamiche che nessuno comprende?!» rise. «Scusami l'ironia Velio, ma tutto ciò non è credibile. La complessità della chimica farmaceutica non è roba da YouTube.»

    L'uomo fissò la donna negli occhi, sciogliendosi un attimo dopo in un sorriso plateale.

    «Allora rimarrai sorpresa dallo sforzo divulgativo. Il documento che tra poco vedrai spiega in maniera chiara cosa sia questa sostanza e, cosa ancor più sbalorditiva, mostra gli effetti clinici sperimentati direttamente sull'uomo. Hai capito bene, Freya?! Direttamente sull'uomo. Non topi da laboratorio, ma uomini. Vedendo queste immagini anche un profano si renderebbe conto di assistere a qualcosa di incredibile»

    Poi pigiò play sul computer e prese la mano di Freya. «Te lo ripeto. Possiamo annunciare al mondo intero che è la fine della schiavitù. E tu puoi essere artefice di questa storia... So che lo vuoi!»

    In bagno, seduta sul gabinetto, Freya rimase con lo smartphone in mano.

    Quando il display si oscurò, cancellando l'sms, lo schermo riflesse il suo sguardo vitreo.

    Velio c'è riuscito.

    Il video che le aveva appena mostrato non lasciava adito a dubbi. Per Freya però non c'era da stupirsi.

    Assunta proprio da lui a venticinqu'anni, come sua assistente personale, aveva compreso in breve tempo che gli occhi che facevano abbassare i suoi erano la scivolosa voragine su un mondo oscuro e potente, illuminato da un'intelligenza saettante e dominato senza tregua da un'ostinazione feroce.

    Un'ostinazione a dominare la realtà, a piegarla al suo volere, come un demiurgo incessantemente proteso a modellare il cosmo, obbedendo unicamente al suo furore creativo che non smetteva mai di ardergli dentro. La chimica era stata per lui lo strumento, l' Organon come la definiva lui, attraverso cui l'uomo si sottrae all'arbitrio del caso e prende in mano il suo destino di creatore.

    Quel video ne era l'ennesima riprova. Così come la discussione rovente che ne era seguita dimostrava - ancora una volta - che Velio Di Sangro non sarebbe sceso a compromessi con nessuno, neppure con il Padre Eterno in persona.

    Ma non è da Dio che l'uomo si deve guardare, pensò Freya, mentre frugando nel suo beauty-case sentì ad un certo punto la fredda canna del piccolo revolver calibro 9. Poi richiuse tutto rimanendo con una caramella già scartata in mano. Se la mise in bocca guardando l'orologio.

    Dieci minuti a mezzanotte, disse fra sé prima di alzarsi per uscire dal bagno.

    «L'alcol è l'unica droga ad uso voluttuario che ormai mi concedo» disse Velio, con un bicchiere di scotch in mano, che non doveva essere il primo, visto il modo traballante con cui sollevava la bottiglia di Jack Daniel's per invitarla a seguirlo.

    «Non ho mai amato il rude gusto del whiskey» rispose Freya, riprendendo il suo posto al tavolo.

    «Già, troppo americano per una sofisticata signora tedesca» replicò tracannando il bicchiere in un sorso e lasciandosi cadere all'indietro contro la spalliera della seggiola.

    «Poi, sto mangiando una menta» fece lei, mostrandogliela fra i denti.

    «Non te ne offro una perché non si abbina con lo scotch. Ma guarda cosa ho in valigia» disse la donna ritirando la mano dal beauty-case sulla sedia alla sua destra.

    Velio corrugò d'un tratto lo sguardo e rimase con la bocca socchiusa.

    «Freya, ma che diavolo è?!» riuscì appena a dire ancora sbigottito.

    «È una cineseria moderna, riproduzione di uno strano robot dei cartoni animati giapponesi degli anni ottanta. Ma in realtà è un innocuo distributore di mentine» gli spiegò Freya mostrandogli il bizzarro meccanismo dell'erogazione delle caramelle che si attivava premendo la testa.

    «Fa anche una cosa molto curiosa e coreografica» continuò la donna mentre con le mani iniziava a girare la testa al robot come una carica a molla.

    «Poveri cinesi, un grande popolo piegatosi a costruire le cianfrusaglie dell'intero mondo» commentò l'uomo.

    «Come del resto anche tu: pubblicherai davvero quel video?» chiese a brucia pelo Freya con sguardo improvvisamente serio.

    L'uomo la fissò come a volerla trapassare.

    «Sai che lo farò.»

    Gut !, ringhiò fra i denti Freya facendo scattare una piccola levetta sulla schiena del robot.

    La testa iniziò a svolgersi repentinamente in senso contrario alla carica. Poi, di colpo - staccandosi dal corpo - saltò in aria, continuando a roteare vorticosamente su se stessa, di fronte allo sguardo incredulo di Velio. In un attimo raggiunse il metro d'altezza dove si manifestò la vera sorpresa. Dagli occhi del robot iniziò a zampillare un liquido incolore e inodore che a contatto con l'aria in pochi istanti si vaporizzò in una sottile e impercettibile nube.

    Velio sgranò gli occhi come a voler vedere in un solo attimo tutto quello che stava accadendo, e come sarebbe accaduto. Non ci fu neppure il tempo di esprimere un'ultima speranza.

    Miliardi e miliardi di molecole penetrarono nelle sue vie respiratorie, poi nei polmoni e da lì nel sangue, per giungere al termine del loro breve viaggio nei globuli rossi, che iniziarono di colpo a gonfiare aumentando a dismisura il proprio volume, fino ad ingolfare irrimediabilmente il flusso sanguineo. Come se stesse soffocando, l'uomo si portò istintivamente le mani alla gola e dopo alcuni respiri affannosi ne ebbe un ultimo profondo, dilatando in maniera disumana i polmoni, come se dovesse risucchiare il tavolo che aveva di fronte. Lo sforzo lo fece rovesciare indietro, in terra, dove prese a dimenarsi, a scalciare nel vuoto, fra spasmi del collo e terribili rantoli. Con un calcio ribaltò il tavolino, poi una sedia, anche il beauty-case prese un colpo, finendo scaraventato contro la vetrina.

    Infine, all'improvviso, tutto si placò.

    Il corpo dell'uomo riverso sul pavimento era, nel rigor mortis, l'istantanea di una lotta.

    Dopo avergli tastato il polso spense subito tutte le luci e aprì immediatamente le finestre di casa per disperdere la sostanza gassosa. Almeno dieci minuti d'aria. Ho circa un'ora e mezza per prendere tutto e bonificare la casa.

    1

    Gli scatti metallici della serratura riecheggiarono nel silenzio della notte. La porta della cella si aprì con un lungo cigolio svegliando definitivamente il recluso. Nella cornice di luce apparve la sagoma di un poliziotto.

    «Alzati, il commissario vuole vederti.»

    L'uomo si tolse la coperta di lana e si mise per un attimo seduto, con lo sguardo perso nel buio di fronte a sé. Fece un lungo sbadiglio e si stiracchiò. Poi si rinfilò le scarpe che si era tolto poche ore prima, indossò il cappotto abbandonato sulla sedia e si alzò per seguire il poliziotto lungo i corridoi sotterranei della questura, che la luce fredda dei neon trasformava in un labirinto verdognolo e sinistro, testimone spettrale di angosce e paure di chissà quanti disgraziati, scivolati - nel corso del tempo - in quel primo girone della giustizia italiana.

    Dopo aver superato molte porte indicate con numeri e targhe identificative, raggiunsero l'ultima stanza in fondo al corridoio, che non recava alcun segno di riconoscimento. Due anonime ante di legno con maniglia in ottone.

    L'agente bussò alla porta e attese la risposta scrutando dall'alto in basso quel cencio stropicciato che s'era portato appresso. I lunghi capelli arruffati, appiccicati al volto, ne travisavano l'aspetto ad eccezione di uno sguardo intenso e penetrante che il poliziotto sentì addosso come due coltelli puntati contro, tanto opprimenti da indurlo a ribussare. Stavolta ricevette immediatamente il permesso ad entrare.

    «Dottore, eccole il fermato che mi ha chiesto» disse mentre senza troppe cerimonie lo strattonava dentro.

    Il commissario rispose con un lieve cenno della mano.

    Se ne stava sbracato, dietro una scrivania spoglia, abbandonata in mezzo alla stanza, sulla quale c'erano un telefono, un posacenere pieno di mozziconi, un bloc-notes aperto e uno schieramento di cellulari vari, di ogni genere e marca, bottino della nottata di fermi.

    «Mi dispiace davvero tanto per la levataccia, signor Di Sangro» disse il commissario con un sorriso obliquo indicandogli con la mano di accomodarsi sulla sedia dinanzi a lui.

    Sulla parete nuda del seminterrato, in mezzo ai fregi disegnati da muffe e crepe, un orologio segnava le 5 e qualcosa.

    Di Sangro si mise a sedere e piantò i suoi occhi cerchiati di rosso su quell'uomo che lisciandosi il pizzo nero corvino continuava ad esibire un sorriso beffardo.

    «Perché mi guarda così a muso duro? Dormito male, signor Di Sangro?»

    «A cose normali» interloquì il fermato con voce calma «il suo sarcasmo da questurino è - per usare un'espressione colorita che a lei potrebbe piacere - come una supposta di carta vetrata. Si immagini adesso, dopo poche ore di sonno in una cella fredda e maledettamente umida, mio commissario.»

    «Che lingua tagliente ha di prima mattina il nostro cronista d'acchiappo» disse mettendosi in bocca l'ennesima sigaretta e offrendone una anche al suo interlocutore che l'accettò allungando la mano.

    Accesero le sigarette ed entrambi presero una lunga boccata.

    Poi il capitano mutò repentinamente l'espressione del volto e puntando i gomiti si protese di colpo in avanti.

    «Ascoltami bene, caro il mio Giovanni Di Sangro. Stanotte abbiamo fatto un buco nell'acqua. Lo sai?! Ho controllato tutti i nomi» disse battendo l'indice su una lista appuntata nel bloc-notes. «Quella di là è paranza che non vale 'na sega.»

    «Ergo, la nottata nella vostra sontuosa suite sarebbe un premio al merito?!»

    «Che testa di cazzo sei... Vabbè che posso sembra 'na carogna, ma mica so' idiota... Guarda che la notte al fresco serve a te, mica a me...»

    Il fragore di un rullio techno irruppe nella stanza, calamitando gli occhi di entrambi sul tavolo.

    «È il mio» disse Di Sangro.

    «Lo so, è tutta la notte che squilla. I' babbo ti cerca.»

    Mio padre?! S'interrogò mentre il commissario aveva tirato fuori dal suo cappotto scuro la foto di un magrebino con un bel ricamo sulla guancia e aveva iniziato a spiegare alcune cose sul suo conto, come di una probabile operazione in una qualche clinica dell'Est, Romania probabilmente, per cancellare quel bel cesello, una fidanzata anch'essa dell'Est, che lo aiutava a tenere rapporti con una famiglia di trafficanti d'armi che operava sul Mar Nero e di molte altre cose ancora, fra cui la possibilità che si trovasse di passaggio a Firenze. Di Sangro aveva annuito, ma il suo pensiero era rimasto incagliato al padre, alle ragioni di quell'insolita insistenza. Cazzo, lui non chiama mai. Da quando si trova in Kazakistan poi...

    «Ma mi ascolti?»

    Di Sangro annuì di nuovo.

    «Comunque ti ho scritto tutto dietro» gli disse porgendogli la foto. Poi prese la cornetta e disse al suo subalterno di venire a prendersi il fermato per rilasciarlo.

    «Ehi Commissario!? Nel nostro accordo c'è anche...»

    Il commissario lo fissò un attimo stringendo le palpebre, poi ritrovò il suo sorriso sardonico.

    «Già, il nostro accordo... Non è che a questa mandata te lo meritavi proprio, però» disse accendendo l'ennesima sigaretta.

    Dopo di che si portò una mano alla fronte, a massaggiare quei pensieri che gli rimanevano fermi come umori. «Vabbuò» proruppe d'un tratto, alzandosi in piedi per rovistarsi meglio nel cappotto ed estrarre una bustina di plastica.

    «Tienilo nella capa» fece picchiettandosi la tempia. «Stavolta non te la meritavi proprio, quindi considerala un mio omaggio alla signora, l'aspirapolvere con le treccine» disse ridendo sotto i baffi mentre gli porgeva anche il cellulare.

    «Chiama a babbo adesso, che sennò sta in pensiero... Ah, guagliò, mi raccomando, non deve uscire neppure una riga di questa notte.»

    Appena fuori, sugli scalini d'ingresso dalla questura di via Zara, un'improvvisa folata di vento gelido e nevischio lo sottrasse ai suoi pensieri.

    Nevica, si rese subito conto, gettando poi uno sguardo al cielo e ai tetti di Firenze che si erano già imbiancati. Si alzò il bavero del cappotto, accese un'altra sigaretta, e incamminandosi verso casa, lungo via San Gallo, selezionò il numero del padre.

    «Ma dov'eri?» fu il saluto del genitore, che non gli dette neppure il tempo di replicare.

    «Giovanni, non avrei mai voluto dirti questa cosa per telefono, purtroppo non ho alternativa.»

    2

    Sollevò di scatto la testa buttando le fluenti treccine bionde all'indietro, come riemergesse da una piscina immaginaria dopo una lunga apnea. Paonazza in viso, con le vene delle tempie, del collo, che sembravano esplodere, si portò subito l'indice e il pollice al naso per tapparselo. Con la schiena ancora arcuata, rimase immobile per qualche secondo con gli occhi al soffitto. Aperti ma senza vedere nulla. Finché un'onda di calore calò dalla testa all'intero corpo e la pervase fino all'ultima fibra dei suoi muscoli, accendendole lo sguardo sulla parete che la sovrastava. Allora vi scorse la luce del lampadario riverberarsi in un caleidoscopio di ombre e chiarori, che sembravano danzare nel buio, seguendo un ritmo oscuro e ipnotico. Immaginò di essere uno di quei riflessi e perdersi nell'infinito ed estenuante gioco del rimbalzo sulle cose, sui mobili, sulle superfici, fino a consumarsi e sciogliersi. Si sciolse anche lei lasciandosi cadere sullo schienale del divano, molle e felice, un lieve sorriso ebete sul viso.

    Ora mi manca soltanto lo Jeghe, pensò, e subito tornò in piedi per raggiungere la vetrina con i liquori.

    «Vela, ti va uno Jeghe?»

    L'uomo, prima di risponderle, risalì con lo sguardo quelle gambe elegantemente affusolate, e per un momento ebbe la tentazione di allungare una mano e accarezzare quei fuseaux neri che esaltavano i muscoli da ballerina: polpaccio, cosce e sedere, sul quale indugiò a lungo, sorta di mensola naturale sulla quale appoggiarci tutti i desideri inconfessabili di un uomo. Poi aprì bocca: «Lo Jägermeister va benissimo.»

    In quel momento la porta nell'ingresso si aprì. L'aria nel salotto si fermò, e gli occhi dei due si appuntarono sull'arco che univa i due ambienti. Intabarrato, con il bavero alzato e i capelli lunghi bagnati, vi apparve la sagoma di Giovanni Di Sangro, che immobile ricambiò quegli sguardi muti, interdetti, con un silenzioso interrogatorio di rapide occhiate, con cui scandagliò l'intera situazione.

    Mika non gli sembrò né più svestita né più alterata del solito. Pallida ed emaciata come ad ogni fine serata, riusciva ancora a stare perfettamente dritta su quella sorta di trampoli da lap dance che si metteva ai piedi per fare animazione nei locali. Unica nota inedita, dei fiocchetti neri di raso a punteggiare l'ormai tradizionale cascata di treccine bionde. Sul tavolino la consueta apparecchiatura da nose party: piatto piano in porcellana blu, le cinquanta Euro arrotolate, carta magnetica e tutto il resto. Per quanto riguardava l'amico, sprofondato sul divano e anonimo nel suo abbigliamento scuro, non era l'aspetto ad interessarlo.

    «Vela, quanti pezzi hai addosso?»

    «Giova, ma che c'è?» si intromise Subito Mika appoggiando la bottiglia con i bicchieri sul tavolo e facendo un passo verso di lui.

    «C'è che voglio sapere come è messo» insistette con tono sostenuto Giovanni continuando a guardare di traverso il Vela.

    «Giovanni, tranquillo, sono leggero, ne avrò circa 5... Poi ho staccato la batteria al cellulare...»

    «Dai, ora va in bagno, mettiti a posto e vieni qui con noi» riprese Mika, prima che lui l'afferrasse per un polso e la trascinasse in malo modo con sé in bagno, chiudendosi la porta dietro.

    «Mika» le disse guardandola dritta negli occhi, mentre la metteva a sedere sul wc «sai che certa gente non la voglio qui, in casa mia.»

    «Ma il Velasquez è a modo. E poi quando al Tenax ci hanno pagato non c'era rimasto più nessuno. Nell'ufficio a riscuotere c'erano solo le ballerine e i pierre. Inoltre prima di chiedere un passaggio a lui, ho provato a chiamarti, ma non mi hai risposto. Almeno lui era lì!»

    «Te l'ha detto che non era pulito?»

    «Sì, mi ha avvisata» replicò lei. «Ma te l'ho detto, che facevo?! Rimanevo a piedi?!»

    «Dove gliela hai fatta togliere la batteria?»

    «Come dove? Sotto casa, prima di salire su.»

    Giovanni indietreggiò fino al lavandino e vi si aggrappò con le braccia, quasi quelle parole l'avessero fatto vacillare. A testa china seguì una gocciola gonfiarsi sotto il rubinetto come le sue angosce in testa.

    «Ma sotto casa a cosa serve?!» proruppe stizzito. «Quante volte ti ho detto che i cellulari di certe persone si fanno spegnere sui viali, almeno a un chilometro da qui. In questi casi bisogna seguire una procedura.»

    «Una procedura!?» rimarcò Mika sempre più attonita.

    «Sì, una procedura!» alzò la voce.

    «Ora loro lo sanno che lui è qui. Capito?! Lo sanno! Se vogliono, possono entrare qui e prenderci tutti!»

    La ragazza lo guardò con occhi sconsolati. «Ma tu sei malato.»

    Giovanni alzò la testa per incontrare il suo volto nello specchio. Quegli occhi affossati, come due gorghi lividi, la barba lunga e nerissima sulle guance scavate s'impressero per pochi istanti sulla retina. Fu appena un'istantanea che subito scolorì in un'immagine lontana, accesasi di colpo nei colori forti di un pomeriggio di primavera. Un cerchio di persone lo circondava. Riconobbe la madre, che lo guardava con un sorriso gioioso. Accanto a lei il babbo, e suo fratello, lo zio Alessio, che facevano insieme gesti concitati, accompagnati da buffe smorfie con il viso, sembravano dirgli qualcosa. Qualcosa sicuramente di stupido perché sua nonna, con aria bonaria, disapprovava, tentando invano di farli smettere. Poi altre persone i cui volti sfumavano in ombre indistinte. Tutti intorno a lui, che reggeva una bicicletta, una bicicletta da cross. Questa è per il tuo compleanno, Giovanni disse un sorriso largo incorniciato da una folta barba bianca. Nonno!

    Poi sentì una mano sulla spalla.

    «Giovanni, ma che ti è successo?» gli chiese Mika.

    «Devo partire subito per Chiusdino, un paese in mezzo... boh, non so neanche dove cazzo è.»

    «Chiusdino?!»

    «Sì, Chiusdino. Mio padre mi ha appena detto che è fra Siena e Grosseto.»

    «Per lavoro?»

    «No» scosse la testa. «Perché sono l'unico.»

    «L'unico?!»

    «Sì, l'unico, a parte mio padre che si trova in quel cazzo di Kazakistan. Sono l'unico parente rimasto a mio nonno.»

    «Che ha fatto?»

    «È stato trovato morto.»

    «Morto?!... Non me ne hai mai parlato di lui. Era malato?»

    Giovanni allora si voltò verso di lei.

    «No, era già morto. Da oltre trent'anni.»

    Gli occhi Mika si spalancarono. «Ma che cazzo dici?»

    «Quello che hanno sempre detto a me» si riguardò nello specchio. «Che mio nonno era morto 31 anni fa.»

    3

    Scuro e dritto in mezzo alla carreggiata imbiancata della grande rotatoria della Certosa, un uomo si sbracciava energicamente, quasi combattesse una lotta disperata contro il turbine bianco di neve che a folate lo assaltava nel tentativo furioso di cancellarlo alla vista, come aveva completamente inghiottito in una spessa coltre biancastra le prime colline del Chianti, che lì solitamente si annuncia ai viaggiatori provenienti da Firenze o dal casello autostradale. Man mano che la macchina gli si avvicinava, quel suo strano agitarsi divenne una gestualità precisa, dal significato inequivocabile per Giovanni che lanciò una rapida occhiata al cruscotto.

    L'uomo era un agente della stradale e faceva ampi gesti con la mano e la paletta per fare accostare gli spaesati automobilisti a lato della strada, dove altri due poliziotti li attendevano.

    Quando uno dei due poliziotti si avvicinò alla Golf nera, Di Sangro abbassò il finestrino ripetendosi in testa che erano lì soltanto per l'emergenza neve.

    «Buon giorno. Le posso chiedere dove si sta dirigendo?» chiese l'agente non mancando di dare una rapida sbirciata dentro la macchina, notando la ragazza che dormiva sul sedile interamente reclinato.

    «Sto andando oltre Siena, a Chiusdino.»

    «A Chiusdino?!» esclamò l'uomo in divisa. «Scusi se glielo dico, ma con questo tempo non è proprio indicato. Sono quasi cento chilometri, anche con le catene rischia di impiegarci ore. Sempre che tutto vada bene e non incontri altri inconvenienti, che non sono affatto da escludere in queste condizioni. Lei ovviamente sa dove è Chiusdino?!»

    «Ho il navigatore» tagliò corto Giovanni, che avrebbe fatto a meno di Chiusdino, del viaggio per arrivarci, di quella stramaledetta bufera, e soprattutto, adesso, di quel poliziotto appiccicato al finestrino che si preoccupava di lui, e lo consigliava di lasciar perdere – se poteva – il viaggio fin laggiù. Molto premuroso. Come se uno si divertisse ad andare a Chiusdino, con la neve, i Tir di traverso, i rami spezzati, le code, la visibilità ridotta, il gelo, il ghiaccio, le bestemmie... Che bellezza andare a Chiusdino!

    Il poliziotto frugò per un attimo negli occhi dell'uomo al volante che adesso fissava il tergicristallo rimbalzare sul vetro, totalmente inespressivo.

    «Posso sconsigliarle di mettersi in viaggio» gli disse «ma non posso fare altro. Dunque faccia attenzione. La saluto e buon viaggio.»

    Di Sangro rispose con un lieve cenno della mano, striminzita concessione alla cortesia, e subito guadagnò la rampa d'ingresso all'Autopalio. Appena salito sull'ex superstrada di collegamento fra Firenze e Siena, intravide ad un centinaio di metri davanti a sé uno spazzaneve, un grande trattore sbuffante, impegnato invano a liberare la carreggiata, che la bufera immediatamente ricopriva di un nuovo velo biancastro, come a prendersene gioco.

    Alla radio il Gr3 delle 10:30, citando alcuni dati statistici e annate passate, raccontò di una perturbazione eccezionale, descrivendo regione per regione il bollettino di un'emergenza dai tratti apocalittici, che aveva messo in ginocchio l'intera penisola. «È dall'85 che non si vedeva tanta neve sul nostro paese» concludeva, mentre Giovanni, passata l'ansia degli uomini in divisa, aveva oramai da qualche minuto già la testa ad un'altra neve. Accostò lentamente la macchina sulla destra andando ad incagliare il muso sul bordo di neve che raggiungeva già i quaranta centimetri. Inserì le quattro frecce e da un cassettino del cruscotto estrasse un ditale in argento, articolato in tre falangi, che indossò per intero al mignolo destro. Poi ritrovò nel taschino interno del cappotto la busta che gli aveva consegnato il commissario Delmonda. Con una levetta impercettibile sul lato interno del ditale fece scattare un'unghia metallica lunga e ricurva. Giovanni si soffermò ad apprezzare il riflesso dell'abitacolo condensato sulla piccola striscia, compreso il suo sorriso deformato e irriconoscibile, prima di farla balenare dentro e fuori dall'involucro trasparente. Poi l'accostò alla narice destra. Un tiro rapido e intenso, e un lampo si accese nel respiro di Giovanni.

    Ricacciò così indietro la minaccia del sonno rubato alla notte, e i pensieri, che si erano fatti ingombranti e pesanti tornarono a vorticare leggeri intorno alle parole del padre. Quelle della telefonata fuori dalla questura. Che continuavano a tormentarlo.

    "Giovanni, non so come dirtelo, ma non posso fare altrimenti. Quando avevi 6 anni ti raccontai una bugia, una bugia che dura da 31 anni. Ti dissi che tuo nonno era morto. Non era affatto vero, ma non mi chiedere nulla adesso, perché per telefono non posso spiegarti tutta questa storia. E poi non c'è tempo. Ti chiamo infatti per dirti che ora è successo davvero. Tuo nonno è morto. Mi ha avvertito la sua donna delle pulizie, Imelda, Imelda Ranfagni. È stata lei a trovarlo cadavere ieri pomeriggio nella sua casa di Chiusdino, in provincia di Siena, dove viveva da quando aveva lasciato Firenze. Perciò ho bisogno che tu mi aiuti, perché non posso venir via dal Kazakistan. Dunque dovrai essere tu ad occuparti di ogni cosa, del funerale e quant'altro. Poi, quando ci vedremo ti racconterò tutto».

    Ti racconterò tutto si ripeté mentalmente Giovanni, una, due, quattro, dieci volte, quasi che quella frase stessa, se centrifugata vorticosamente fino a smembrarla, potesse rivelare le omissioni di una vita. Cos'altro c'era poi da raccontare a questo punto? Soltanto la storia della scomparsa di suo nonno, oppure una simile copertura, tenuta in piedi per così tanti anni, nascondeva ancora dell'altro?

    In quel momento la macchina passò lentamente a poca distanza da un poggio. Sul colmo una schiera di cipressi completamente innevata occultava di bianco quasi per intero una colonica, segnalata unicamente da un pennacchio di fumo chiaro che si stagliava contro il cielo color piombo. Nei campi sottostanti Giovanni colse per un istante quella che gli sembrò la figura di una donna, minuta e ricurva, impegnata a riguadagnar la cima camminando in mezzo alla neve con una fascina di legna in braccio. Rallentò la macchina per osservarla meglio.

    «Mia nonna!» gli uscì di bocca, come un pensiero fuggitivo.

    Quando la macchina frenò bruscamente Mika, ancora mezza addormentata, spalancò gli occhi sulla moquette del tettino dell'auto. Irrigidendosi in uno spasmo del corpo, attese per qualche attimo un colpo, un rumore, un urlo, un'imprecazione. Ma non avvertì altro. Soltanto Giovanni aprire la porta e scendere molto rapidamente. Poi però solo silenzio ovattato. Non era accaduto nulla, pensò tranquillizzandosi, ancora sdraiata sul sedile completamente reclinato. Sarebbe rimasta così ancora molto, almeno il tempo necessario a svegliarsi del tutto, se l'assenza prolungata del fidanzato non avesse iniziato a scavarle in testa un tarlo di preoccupazione. Dove era andato con quel tempo? Si era allontanato? Perché ancora non rientrava? E se fosse scivolato nella scarpata? Questi pensieri la tirarono su come una molla invisibile per cercare con lo sguardo il fidanzato. Ma la neve, che aveva quasi foderato del tutto i vetri, aveva lasciato appena pochi spiragli per scrutare l'esterno. Piccole feritoie che si affacciavano su spicchi di un piazzale vuoto. Di Giovanni non c'era traccia. Allora Mika coprì le sue treccine bionde con un cappello di pelle di coniglio e uscì dalla macchina. Aperto lo sportello un viluppo ghiaccio le prese la gola come a strozzarla. In quel momento si chiese perché avesse accettato di accompagnarlo.

    4

    Nella tormenta di neve che oscurava il cielo e impastava l'orizzonte, l'enorme campata dell'Autogrill si stagliava con la sua sagoma tetra, sospeso da parte a parte sull'Autostrada del Sole, minacciosamente inarcato come un massiccio carroponte.

    «Eccoci a Montepulciano Ovest» disse il passeggero all'uomo al volante del'Alfa blu notte, indicandogli d'immettersi nella corsia di decelerazione dell'area di servizio.

    Una volta dentro all'Autogrill, ai due uomini bastò un cenno per intendersi con uno dei baristi dietro al bancone.

    «Venite» gli disse «vi faccio strada.»

    «Come sono le strade? Si cammina?» chiese il barista ai due uomini mentre li conduceva in un dedalo di ambienti di servizio, corridoi, stanze adibite a magazzini di vecchi tavolini, insegne arrugginite e cartonati di gelati ormai inesistenti e ancora prezzati in lire.

    «Noi veniamo da Sinalunga, sono sì e no 16 chilometri, praticamente è tutta autostrada. Ma non ci sono grossi problemi. Gli spargisale lavorano interrottamente dalle sei di stamattina.»

    «Bene» disse il barista, e dopo aver raggiunto il fondo del corridoio aggiunse: «Eccoci, siamo arrivati».

    Aprì una porta e li fece entrare.

    Era una sorta di stanza relax del personale con tavolini, armadietti, delle poltroncine in un angolo e una grande parete finestrata affacciata a sud sulle due corsie autostradali.

    L'uomo, sulla cinquantina, ben vestito con un lungo piumino color beige, stava seduto ad un tavolo accostato al vetro, fissando le macchine che transitavano di sotto. Sembrava totalmente incurante di quegli uomini appena entrati, fermi accanto alla soglia, che a pochi metri da lui avevano iniziato ad osservarlo, nella speranza che qualche dettaglio risultasse decisivo.

    «L'ho notato io, intorno alle otto, otto e mezzo del mattino» riprese il barista. «Apparentemente gironzolava per gli scaffali, come fanno tantissimi clienti. Certo, era un po' lento nei movimenti, ma qua dentro – si sa – entra un po' di tutto e ho lasciato stare... Sennonché dopo circa un'ora era ancora lì. Allora mi sono insospettito e ho cominciato a osservarlo meglio, facendo più attenzione. Lo guardavo bene. E mi sono subito accorto di una cosa strana. Sembrava vagare...»

    «Vagare? In che senso?»

    «Girava fra le merci senza guardarle.»

    «Senza guardarle?!»

    «Mi pareva una cosa strana anche a me, tant'è che mi sono deciso ad avvicinarmi, ma non sembrava accorgersi che stava lì, perciò mi sono parato

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