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Ruanda
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Ebook154 pages2 hours

Ruanda

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About this ebook

Il parroco di un paesino dei Pirenei, ex missionario in Africa, viene trovato morto. Apparentemente si tratta di un suicidio, ma chi lo conosceva bene non è affatto d'accordo con questa conclusione. E infatti il diario del sacerdote rivelerà una personalità complessa e sorprendente, racconterà dei suoi dubbi sulla religione e della decisione di cambiare radicalmente tipo di vita. Per scoprire il colpevole il commissario Morel dovrà consultare gli archivi della Legione Straniera, volare a Kigali, in Ruanda, e indagare sui responsabili del genocidio del 1994, alcuni dei quali l'ex missionario ha ben conosciuto.
LanguageItaliano
Release dateFeb 13, 2016
ISBN9788892553897
Ruanda

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    Ruanda - Giorgio Ressel

    Giorgio Ressel

    RUANDA

    Romanzo

    Tutti i contenuti di quest'opera sono protetti

    dalla Legge sul diritto d'autore

    RUANDA

    Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi

    citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di

    conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia

    con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse è

    assolutamente casuale.

    Capitolo 1

    Il corpo inanimato pendeva da una corda fissata a una trave della soffitta. La lingua sporgeva dalla bocca e gli occhi, arrossati per la rottura dei capillari, uscivano leggermente dalle orbite. Il collo era stretto dal cappio di una grossa fune di canapa, avvolta con più giri attorno alla vecchia trave e fissata a un grosso gancio arrugginito che penetrava in profondità nel legno. Le punte dei piedi distavano una ventina di centimetri dal pavimento di tavole polverose e tarlate. Una scala a libro rovesciata si trovava a un paio di metri dal corpo. 

    L’uomo indossava una tonaca nera, anche se apparteneva all’ordine dei Missionari d’Africa detti Padri Bianchi per il colore del loro abito. Era stato trovato dalla domestica che dopo aver girato invano per tutta la canonica alla fine lo aveva scoperto nella soffitta ormai privo di vita. La donna era quasi svenuta per quella visione tanto impressionante quanto inaspettata. Sotto shock era scesa lentamente lungo l’instabile scala di legno reggendosi al corrimano. Entrata nello studio del sacerdote, aveva composto il 17, il numero di emergenza che fece squillare il telefono della brigata territoriale della Gendarmeria che si trovava nel paese vicino. 

    «Gendarmeria…» annunciò in tono meccanico il piantone di turno, un gendarme adjoint di prima classe, di nome Fayolle. La donna rimase in silenzio, non sapeva come cominciare. 

    Dopo qualche secondo Fayolle ripeté: «Qui è la Gendarmeria di Périgaud. Posso fare qualcosa per lei?» 

    Ancora un’esitazione, poi, con difficoltà per l’emozione e con la gola secca, la donna spiegò l’accaduto: «Io… mi chiamo Begoña Rousset… telefono da Bagnères-de-Bichon… sono la domestica di don Jean-Baptiste Théréau, il parroco…» 

    «Che cosa è successo?» 

    «È accaduta una cosa terribile! Don Jean è morto. L’ho trovato in soffitta…» 

    «Com’è morto? Un malore? Un incidente?» 

    «No, no.» Lei balbettò per l’enormità di quello che stava per dire: «Si è… si è impiccato.» 

    «Vuol dire: un suicidio?» 

    «Non lo so. Sembrerebbe di sì. Io non capisco… Non avrei mai immaginato… Mi sembra impossi-bile. Impossibile!» 

    «È sicura che sia morto?» 

    «Oh sì, sì! E la faccia… ha un’espressione terribile. Cosa devo fare? Cosa devo fare? » 

    «Dov’è esattamente il corpo? Nella canonica?» 

    «Sì, qui nella soffitta.» 

    «Ascolti. Adesso le mando una macchina. Entro una ventina di minuti, o anche meno, saranno lì da lei. Intanto non tocchi niente. Ha capito? E cerchi di calmarsi.» 

    In poco meno di mezz’ora una Renault Mégane blu della Gendarmeria giunse davanti alla canonica. Ne sbarcarono un brigadiere e un giovane gendarme. La domestica li attendeva in strada, seduta su una panca di legno. Con un fazzoletto si tamponava gli occhi arrossati, borbottando frasi incomprensibili. Indicò ai gendarmi la strada per la soffitta, ma non volle salire. Il brigadiere Perrin e il gendarme Moussaoui attraversarono l’ingresso e salirono su per la scala di legno che si trovava accanto all’ampia cucina antiquata, proseguirono lungo uno stretto corridoio e salirono con prudenza la seconda scala, molto più stretta della precedente, che conduceva in soffitta attraverso una botola. 

    Gli scalini e le assi scricchiolavano in modo preoccupante e anche il corrimano sembrava poco solido. La nuda lampadina che pendeva da un filo attaccato alla trave centrale non funzionava e la soffitta era immersa nella penombra. I gendarmi accesero le torce elettriche e proiettarono intorno a loro un cono di luce. A parte qualche vecchio baule, un paio di sedie mezze rotte, un tavolino traballante, delle pile di vecchi giornali e alcuni candelabri, la soffitta pareva vuota. Poi illuminarono un paio di gambe che penzolavano immobili, salirono con le luci lungo il corpo e, quando inquadrarono il volto dell’uomo, capirono cosa doveva aver provato la domestica a quella vista. 

    Dopo aver constatato che non c’era più niente da fare per il sacerdote impiccato, Moussaoui chiamò i tecnici della Scientifica per i soliti rilievi e un’ambulanza per il trasporto del cadavere all’ospedale di Bartes. Il brigadiere invece si assunse il compito di ottenere una prima deposizione dalla donna che cominciava lentamente a riprendersi. 

    Dopo aver preso nota di nome, indirizzo, numero di telefono e di tutte le informazioni che potevano essere utili, le chiese se conosceva dei motivi che avrebbero potuto spingere il parroco a quel gesto disperato. Le sembrava depresso ultimamente? Aveva problemi di salute? Forse una malattia grave? Poteva essere coinvolto in qualche scandalo sessuale? Aveva la passione del gioco d’azzardo o delle scommesse sportive? 

    Begoña negò recisamente ogni volta: per lei don Jean era una brava persona e non le risultava che avesse problemi particolari o dei vizi. Neppure quello del fumo. Dopo essersi soffiata il naso, domandò: «Che cosa succederà adesso?» 

    Il brigadiere le spiegò che il Procuratore della Repubblica avrebbe nominato un giudice istruttore e che questi avrebbe svolto un’inchiesta, come succedeva sempre nei casi di morte violenta. Quasi sicuramente il giudice avrebbe richiesto un’autopsia medico-legale e a suo tempo Begoña sarebbe stata convocata dal magistrato che le avrebbe rivolto delle domande. Sarebbe stata registrata una nuova deposizione che lei avrebbe dovuto firmare e, se fosse stato confermato il suicidio o un incidente, il caso sarebbe stato archiviato. 

    «E altrimenti?» domandò la donna. 

    «Altrimenti? Se non si è trattato di un suicidio – e l’incidente domestico sembra da escludere per quello che abbiamo visto in soffitta – allora resta solo l’omicidio, e in quel caso bisognerà trovare il colpevole. Ma francamente mi sembra poco probabile. Comunque, sentiremo cosa dicono il medico legale e la Scientifica. La terremo al corrente.» 

    La squadra dei tecnici arrivò dopo una mezz’ora con un grosso furgone bianco. Alcuni uomini srotolarono le solite strisce di plastica bianche e rosse che fissarono tutt’intorno alla canonica, gli altri entrarono nel vecchio edificio. Cominciarono la perquisizione al piano terra senza trovare niente d’interessante, proseguirono al primo soffermandosi nello studio e nella camera da letto, entrambi arredati con semplicità. Poi salirono nell’ampia soffitta che illuminarono a giorno con dei fari a led. 

    Con le loro tute bianche, i guanti e le soprascarpe celesti parevano degli strani fantasmi che si aggiravano rapidi e curiosi. I tecnici fotografarono la soffitta da tutti gli angoli e, una volta rimosso il corpo, si occuparono della rilevazione delle impronte e della raccolta degli oggetti utili per un’eventuale inchiesta. Su di un vecchio tavolino coperto di polvere gli uomini della Scientifica rinvennero un foglio bianco di carta comune con l’intestazione della parrocchia. Un breve messaggio era stato scritto in caratteri stampatello. 

    Il testo era il seguente: Il rimorso per i fatti in Ruanda mi perseguita. Non riesco più a sopportarlo. Pregate per la mia anima. Seguiva uno scarabocchio che avrebbe dovuto essere la firma dell’uomo. 

    Lo stesso giorno la Gendarmeria avvisò dell’accaduto anche il vescovo di Bartes, il quale confermò che il sacerdote vent’anni prima aveva svolto il suo ministero per un breve periodo in Ruanda, proprio quando erano accaduti i massacri tra le due etnie Hutu e Tutsi. Aggiunse che Théréau era nato in Belgio quarantadue anni prima e che da una decina d’anni era parroco di Bagnè-res-de-Bichon, un paese di duemila anime situato alle pendici della catena pirenaica. 

    Secondo il vescovo, l’esperienza in Ruanda lo aveva profondamente segnato: non nel corpo ma nello spirito. Aveva dovuto ricorrere all’aiuto di alcuni farmaci psicotropi e di uno psicologo che gradualmente era riuscito a ripristinare il suo equilibrio mentale, benché gli incubi, i flashback e le crisi di panico avessero continuato a ripresentarsi anche in seguito, seppure saltuariamente, per diversi anni. 

    Se fosse stato un militare, si sarebbe detto che soffriva di un classico DPTS, ovvero di disturbo post-traumatico da stress, caratteristico di chi ha partecipato a dei combattimenti. Perciò il vescovo, anche se molto addolorato per la notizia, non era rimasto davvero sorpreso dell’accaduto. A quanto ricordava, le uccisioni in Ruanda erano cominciate nell’aprile del 1994 e appena in giugno l’ONU aveva dato mandato alla Francia e ad altri paesi di intervenire. 

    I francesi avevano fatto scattare l’operazione Turquoise inviando duemilacinquecento paracadutisti che avevano evacuato la maggior parte dei civili bianchi, soprattutto personale medico, tecnici e uomini d’affari, oltre a molti religiosi, comprese alcune suore. Poco dopo era intervenuta anche l’Italia, inviando in Ruanda circa duecento uomini tra aviatori, paracadutisti e incursori della Marina. Grazie ad essi Théréau aveva potuto fuggire dal Paese. 

    Gli italiani lo avevano preso in custodia a Kiguye, il paese in cui si trovava la sua chiesa, lo avevano imbarcato su un aereo da trasporto C-130 Hercules e lo avevano sbarcato a Pratica di Mare, un aeroporto militare che si trova a una ventina di chilometri da Roma. Nella capitale italiana era stato alloggiato in un monastero dell’ordine dei Benedettini dove era rimasto per quasi un anno. 

    Quei due mesi di stragi – aveva osservato il vescovo di Bartes – dovevano essere stati una prova terribile, forse insopportabile per una persona profondamente sensibile come lui. Messo al corrente dell’esperienza in Ruanda e dei conseguenti disturbi di cui era stato vittima il missionario, il procuratore della Repubblica era stato tentato di archiviare immediatamente il caso, anche per il desiderio non chiaramente espresso ma evidente del vescovo, che aveva descritto Théréau come una persona diventata fragile psicologicamente e che probabilmente soffriva del complesso di colpa del sopravvissuto. 

    La domestica però giurava che don Jean non si sarebbe mai ucciso perché era contro i suoi principi religiosi e perché perfino negli ultimi giorni non era sembrato affatto depresso o angosciato. La donna aveva anche parlato con un giornalista al quale aveva spiegato il suo punto di vista. L’intervista era stata pubblicata sull’Observateur du Midi, il quotidiano di Bartes. Dato che il parroco era piuttosto conosciuto e benvoluto nel dipartimento, una chiusura precipitosa del caso sembrava inopportuna e avrebbe dato l’impressione che ci fosse qualcosa di losco da nascondere oppure che l’evento non rivestisse alcuna importanza per l’autorità giudiziaria francese. 

    Il procuratore decise dunque di aprire un’inchiesta e scelse come giudice istruttore il giovane e ambizioso Loïc de Frenzy. L’inchiesta appariva semplice e di routine, adatta a qualcuno che doveva ancora farsi le ossa, come appunto De Frenzy che era arrivato da poco a Bartes. Forse non era proprio brillante ma aveva un buon istinto politico e una gran voglia di far carriera; e questo sarebbe stato per lui il caso più importante da quando si era installato nell’ufficio di Place de la République. Si sarebbe dato da fare. 

    La legislazione francese attribuisce ampi poteri al giudice istruttore. Per esempio, quelli di ordinare perquisizioni, sequestri, ascolti telefonici, richiedere autopsie ed esami scientifici. Ma in genere il giudice delega i suoi poteri a un commissario di polizia giudiziaria e partecipa solo all’interrogatorio di sospetti e testimoni, come imposto dalla Legge. 

    De Frenzy scelse il commissario Patrick Morel, anche lui arrivato da poco a Bartes dalla capitale. Tentò varie volte di contattarlo per telefono ma l’utente risultò sempre irraggiungibile. Sapendo della poca simpatia di Morel per i telefonini, immaginò che il commissario avesse spento il suo apparecchio dopo la fine della sua giornata di lavoro. Gli inviò quindi un’email con

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