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Aspettando Enrica
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Aspettando Enrica

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Nadia ha superato i trent’anni, portandosi dietro l’orrore del contatto e un’unica fondamentale certezza: non voler diventare madre. Eppure la vita per lei ha altri piani, e mentre il suo (ex) fidanzato l’ha tradita e aspetta un figlio da un’altra donna, ed Enrica si presenta e poi scompare, lei si ritrova catapultata nei panni del ruolo temuto. D’un tratto la vita le chiede di essere toccata e di toccare lei stessa una realtà nuova, differente, in cui la pelle deve mutare sensibilità, e l’anima farsi il fiato in corsa. A Nadia toccherà racimolare le forze necessarie, o semplicemente lasciarsi andare alla vita. E forse sarà proprio aspettando il ritorno di Enrica che riuscirà finalmente a farlo.
LanguageItaliano
Release dateFeb 14, 2016
ISBN9788892554139
Aspettando Enrica

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    Non si caisce niente. Chi è Enrica????????? Le parole sembrano prese a caso dal dizionario. Comunque, la copertina del libro è originale.

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Aspettando Enrica - Silvia Alessia Anglani

Silvia Alessia Anglani

Aspettando Enrica

A te mamma,

grazie

In collisione

Le carezze mi atterriscono. Ogni tipo di contatto fisico mi disorienta, anche attraverso lo spessore dei miei abiti, sotto, la pelle ribolle al tatto. Persino il solletico mi crea difficoltà, e non perché mi viene da ridere.

Posso reggere e non affannarmi, salvo un lieve fastidio diffuso, per una stretta di mano, sperando che l’altro palmo non sia appiccicaticcio, subisco i due baci dati sulle guance soffocando il reflusso gastrico, e un solo bacio stampato sulla fronte mi provoca bruciori prolungati allo stomaco. Raggelo per l’umidità che traspira dai pori, migliaia, milioni di pori sulla pelle, dappertutto. Una mano posata sulla spalla mi pare insostenibile, e mi prende un conato di vomito se avverto le dita affondare nei vestiti, ghermire il muscolo. Detesto i massaggi e non sono incline agli abbracci. Non sarei in grado di tollerarne uno eccessivamente compresso, potrei liquefarmi, sprofondare, collasserei. Meglio non rischiare e scansare gli approcci ravvicinati, schivare gli scambi tattili, eliminare le aderenze. Sopprimere le effusioni, motivo di spiacevoli attriti, e arginare assolutamente qualsiasi manifestazione emotiva, che potrebbe attirare braccia invasive, avvolgenti. Perciò mi mantengo distante.

Forse è l’intimità intrecciata ai gesti a incutermi timore, ad allontanarmi, a farmi preferire una sorta di isolamento fisico dal mondo. Avanzo a slalom calcolati, evacuo il mio percorso, preferisco non essere sfiorata. La percezione di un corpo estraneo mi intesisce, così mi sottraggo, e conservo la separazione. Non sono asociale, o scontrosa, ma a circondarmi necessito di uno spazio sgombro ben delineato, inaccessibile agli altri. Se i colleghi di lavoro gravitano in un’area sociale condivisa, con la dovuta attenzione da parte mia a non urtarsi nei corridoi, tutti gli altri sono relegati alla distanza pubblica, oltre i tre metri e mezzo. Soltanto Ilenia e Lorenzo possono avvicinarsi e penetrare la distanza personale, ma con loro mi sento al sicuro. I loro abbracci non comprimono. Le volte in cui, di notte, Marco striscia sotto le lenzuola e si sposta nella mia metà del letto, nell’oscurità della stanza, allento le difese e gli permetto di oltrepassare la demarcazione invisibile che mi contiene. Angela, fosse per me, finirebbe catapultata a una distanza di sicurezza di almeno dieci chilometri. Facciamo cento, facciamo pure in un universo parallelo, un divario opportunamente incolmabile. Riduco i rischi inutili, non prendo l’ascensore, sto alla larga dalla ressa ai buffet gratuiti, e interpongo un distacco che travalica il braccio teso, se qualcuno che incontro per strada si intrattiene a parlarmi. A ogni passo dell’altro verso di me, indietreggio di due.

Oggi è giovedì, e alle sette esco di casa, per portare fuori Amaranta prima di andare al lavoro. Sono ancora un po’ assonnata, e cammino assorta, intirizzita, seguendo i passi eleganti di Amaranta, che percorre a memoria il viale per arrivare ai giardini. I livelli di coscienza al minimo. Mi restano circa dodici ore, poi questa sera, a cena, la donna che poco fa ho guardato fugacemente allo specchio, lavandomi i denti, cesserà di esistere. Imploderà d’un tratto, sciolta, evaporata, scomparsa in un istante. Il mio prossimo futuro è già stato alterato, falsato. E il futuro a lungo termine cancellato. Ma sono le sette di mattina, ho ancora sonno, è buio, fa freddo, e lo ignoro. Sul mio cammino c’è un dirupo scosceso? Sono tutt’altro che recettiva. La mia agenda è bianca, non annoto presentimenti, rimango inconsapevole, proseguo, mi avvio a cadere nel vuoto ripido senza protezioni.

Per affrontare l’atmosfera gelida mi sono infilata, appena scesa dal letto, calzini pesanti, il pantalone felpato della tuta, un maglione di lana, e il cappotto chiuso fino al collo. Ai piedi ho un paio di scarpe da ginnastica piuttosto malconce, reduci dalla pioggia, il fango, le pozzanghere, la neve, sono degne del loro utilizzo. Le mie palpebre sono pesanti, tendono a richiudersi sugli occhi, mentre ciondolo in attesa che Amaranta si sbrighi coi suoi bisogni. Ho più sonno del solito e mi ricordo che ieri sera sono rimasta al PC fino all’una, alla ricerca di una casa in montagna per capodanno.

Siamo in ritardo per cercare a dicembre un’alternativa valida, ma ci è saltato l’invito a casa degli zii di Marco, e dobbiamo arrangiarci con un’altra sistemazione, se non vogliamo trascorrere le vacanze natalizie a Monza. E l’addetta alle prenotazioni, quella dei due che scova offerte vantaggiose e organizza i viaggi nei dettagli, sono io. Tra le molteplici proposte inservibili ho individuato un alloggio in Valle d’Aosta, che appare carino e accogliente. Trovarlo libero è stato un caso fortuito. È arredato con mobili in legno color miele, e c’è l’indispensabile: un angolo cottura dotato di frigo e forno a microonde, un letto matrimoniale, che nelle foto è rivestito con una coperta divertente, a pezze colorate, e un letto a castello, che a noi servirà per posizionare le valigie aperte e disporre i vestiti, per non doverli sistemare nei cassetti e averli a portata di mano. All’esterno c’è uno spiazzo recintato con una panchina in ferro battuto, su cui ci potremo sedere per infilarci i doposci e sfilarceli la sera, prima di rientrare, per non bagnare il pavimento. Ho scaricato alcune foto, mi sono segnata il costo sull’agenda e più tardi ne parlerò a Marco, a pranzo o durante una pausa caffè.

Penso vagamente alla casa in montagna, riesaminando l’offerta, senza sapere che immagino una vacanza che non faremo. Oggi è la data designata per venirlo a sapere, scoprire che non partiremo, che non trascorreremo le ferie sulla neve, sciando.

Capita nella vita, che accada qualcosa, un evento che ne deforma le sembianze, corrompendola, rendendola irriconoscibile. E qualunque esito ne risulti, non si possono aggiustare le cose, non si torna indietro. È una collisione sulla nostra traiettoria, che frantuma la nostra esistenza, o l’idea che ne abbiamo. Oppure siamo noi stessi a esserne infranti.

Quell’evento è già accaduto, per me, e non importa se ora ne sono all’oscuro. C’è stato un punto di rottura, è avvenuto, esiste, in cui il (mio) tempo ha intrapreso una virata, iniziando a trasformare i giorni, che stanno per diventare dolorosi, le ore buie, i secondi duri, rigidi a trascorrere, si incaglieranno l’uno sull’altro, sarà un passaggio irreversibile, verrò risucchiata e risputata altrove, senza più niente di mio, né dentro né addosso né intorno. Tranne il mio prezioso vuoto. Ancora non lo so, ma sto per vivere quelli che saranno i mesi più intensi, splendidi, della mia vita. Anche se al principio, posso giurarlo, non si può affatto credere, fidarsi, che sia così.

Sono ferma sul posto, distratta, e Amaranta mi avvisa di aver finito tirando il guinzaglio. In automatico mi riavvolgo su me stessa e mi incammino nella direzione inversa. Lei però si blocca e scodinzola, l’entusiasmo scalpitante sotto lo strato denso di pelo, fissa un ragazzo che si avvicina correndo. Sta facendo jogging, di recente la mattina mi capita di incrociarlo, e ad Amaranta sembra piacere. Io invece proprio non ne intuisco il senso, come si possa uscire a quest’ora, con questo freddo, un paio di pantaloncini corti, e mettersi a correre. Faticare, gelare d’inverno e sudare l’estate, correre con l’afa di città, incollarsi ai vestiti, rientrare bagnati per la pioggia o con la cute e i capelli zuppi di sudore. Solamente per girare in circolo. Non so, è una cosa che non capisco, lo sport mi è nemico da sempre, e la corsa è l’apoteosi della mia avversione all’attività sportiva. Da bambina Angela mi ha iscritta a danza classica, e sono stata obbligata a frequentare i corsi dai quattro agli undici anni, quando ho cominciato a saltare le lezioni di nascosto, e Angela ha dovuto rinunciare a costringermi. Anni e anni di supplizio con un’insegnante ossuta, spigolosa, che mi scrutava corrugata, a esaminarmi, sdegnata verso le mie cosce piene e la curva convessa della mia pancia. Esigeva di essere chiamata madame. Plié, jeté passé, plié, nei momenti di difficoltà e di panico, o quando mi ritrovo in soggezione, messa alle strette, sento la sua voce acuta nelle orecchie, scandita dai battiti secchi delle mani a farmi sentire ridicola, nelle situazioni peggiori quel plié dall’accento stridulo emerge in continuazione.

Il ragazzo si avvicina, inarrestabile sulla mia traiettoria, e se adesso non mi sposto, lo scontro sarà inevitabile. Porta un K-way blu elettrico, i capelli lunghi tirati indietro da una fascia, ha gli auricolari nelle orecchie, le gambe nude, lo sguardo sulla strada. Penso che mi travolgerà, mi figuro l’impatto, e piombo in uno stato d’ipnosi, disagio puro. Resto immobile, paralizzata, non mi scosto di un millimetro, attendo l’urto. Poi all’ultimo, con naturalezza, lui devia e mi sorpassa senza nemmeno sfiorarmi. Passandomi accanto, solleva lo sguardo dall’asfalto e per un istante lo lancia su di me, puntando le sue pupille sui miei vestiti invernali, strati pesanti di tessuto, che riescono a trapassare. Le sue labbra si stirano ai lati, nella frazione di un secondo mi appare il bagliore di un sorriso, e l’effetto è quello di cento carezze sulla pelle nuda. Rabbrividisco. Nel profondo. E quasi mi metto a tremare, a scuotermi. Con una spinta mi smuovo, e mi dirigo verso casa, a passi svelti. Non mi volto indietro.

Salva nel mio appartamento, riempio di croccantini la ciotola di Amaranta, e in un piattino a parte taglio uno spicchio di mela e alcune rondelle di banana. Accendo il gas e faccio bollire dell’acqua per il Nescafé. Da sopra il lavello afferro una tazza, rovescio colmandola i cereali integrali, ricchi di fibre e vitamine, e li sommergo con un vasetto di yogurt alla pesca, apparecchio una tovaglietta sul bancone e mi siedo a mangiare. Amaranta nel frattempo ha già finito, si è sdraiata sul suo cuscino personale, e ha chiuso gli occhi. Sospira. Quando Marco si ferma a dormire da me, la mattina, facendo colazione seduti sugli sgabelli, Amaranta si posiziona ai nostri piedi e insinua il muso tra le sue ginocchia, aspettando che lui le dia una grattatina tra le orecchie, mentre mastica energicamente la sua barretta proteica, ma se sono sola non viene mai.

Ingurgitati cereali e caffè, mi vesto per il lavoro con gli abiti che sono distesi sul letto, longuette grigia con un modesto spacco anteriore centrale, camicetta con le rouches, maglioncino a cardigan nero, corto, calze nere coprenti, stivali con tacco basso, pratici. Nonostante il parere di Ilenia, che li ritiene inguardabili.

Io non li trovo così male, il tacco è comodo, e devo tenerli ai piedi tutto il giorno. Compro stivali pensando al comfort e alla praticità e in primavera mi converto alle ballerine. Di statura posso considerarmi alta, con il mio metro e settantuno centimetri, e non mi serve un tacco dodici per slanciare la figura. Tendo a non azzardare con gli abbinamenti, il mio must sono tinte neutre e accostamenti classici, vesto in blu, grigio, nero, nelle tonalità più o meno intense della stagione. Ma niente marrone, troppo casual. Mi sento appropriata al lavoro che svolgo, all’ambiente dell’ufficio, sebbene certe colleghe sfilino in abiti provocanti, che ammiccano a un appuntamento con l’amante di turno, e al proponimento di sedurlo. Io indosso gli stessi vestiti, non dovendo sedurre nessuno, uscite serali comprese, e nel weekend metto un paio di jeans. Non sono una persona severa, o austera, mi piace essere sobria. Ho la mente aperta, mi diverto, scherzo, credo di possedere una giusta dose di ironia, sostanziale per sopravvivere nella società odierna superati i trent’anni, solo non mi sento particolarmente eccentrica, e sicuramente la creatività non è la mia principale caratteristica, tant’è che ho studiato economia e lavoro in banca.

Alle otto e un quarto esco nuovamente di casa, lasciando Amaranta che continua a poltrire, sprofondata in un sonno che durerà per il resto della mattinata, salgo in macchina e guido fino al mio posto di lavoro. Per il tragitto non impiego più di dieci minuti. Mentre sto parcheggiando vedo Marco, lui mi saluta alzando un braccio, la mano restia, non mi aspetta per entrare, fa riferimento con un gesto al vedersi dopo.

Al lavoro Marco mi evita per tutto il giorno. Salta le pause caffè e a pranzo afferma di dover fare una commissione per sua madre. All’uscita scappa letteralmente fiondandosi in auto, mentre io lo rincorro con in mano le foto della casa in montagna. Lo rivedo più tardi, a cena, sedendo di fronte a lui al ristorante a cui mi ha dato appuntamento. Mi ha mandato una mail durante il pomeriggio, come se si trattasse di un incontro di lavoro da inserire in agenda.

Probabilmente è strano già da diverso tempo, ma io mi insospettisco solo oggi. Ho volutamente ignorato i segnali, e persino oggi fatico a comprendere che c’è qualcosa che non va, e me ne sto seduta al tavolo, con lui davanti a me che suda, gocce evidenti luccicano sulla fronte e sulle tempie, mentre spia freneticamente intorno. Poi fissa gli occhi nella mia direzione, si arena nelle domande del mio sguardo, e spianandole mi confessa ogni cosa. Lo fa ancora prima di ordinare, prima ancora di sfogliare il menù. E io scorgo tutte assieme, in un attimo, la moltitudine di crepe che avrei dovuto intravedere da un pezzo, l’intreccio scheggiato della nostra relazione, che converge nel punto esatto in cui ci troviamo in questo momento. Per pronunciare la confessione che vanifica ogni mio gesto, ogni passo compiuto, gli occorre meno di un minuto, e io sono soltanto una stupida, che non sa niente finché non le viene svelato, detto esplicitamente, sbattuto in faccia. Nessun fraintendimento, ormai, è possibile, e le parole che ascolto quasi mi appaiono ovvie.

Marco ultimamente è stato distante, ha dichiarato una serie di impegni imprevisti o presi da tempo, per cui escludendo il lavoro non ci siamo visti molto. Ma io non mi sono allarmata. Stiamo insieme da sette anni, da quando sono stata assunta presso la banca dove lavorava lui e abbiamo cominciato a frequentarci. La nostra non è una storia che si possa definire travolgente, intrisa di passione, struggimenti, e rivoltamenti interiori. A parte le volte che prima di dormire facciamo l’amore, Marco si confina nello spazio relazionale in cui sono compresi gli amici che non sono Lorenzo e Ilenia. Sfugge alla mia sfera intima, o forse sono io che lo lascio uscire, con cortesia. Non siamo una coppia dedita alle smancerie, evitiamo volentieri i baci scambiati in pubblico, e anche quando siamo soli non è che ci baciamo di continuo, lui non è tipo da tenermi la mano mentre camminiamo, o al cinema. Né è il tipo di uomo che prende la sua donna sul tavolo della cucina alle due di pomeriggio durante una domenica di pioggia. Ma siamo felici, stiamo bene insieme, o almeno mi sembra. Anzi ne sono convinta, non ho dubbi a riguardo, non c’è dissapore, né esitazione, che mi facciano sospettare altrimenti. Ritengo che sia tutto nella norma, non mi pongo il problema. Perché non sussiste. Ci rispecchiamo l’uno nell’altra, abbiamo le stesse esigenze, stiamo comodi all’interno degli stessi confini. Confini privati, distinti, che si sfiorano in un punto comune. Nessuno dei due arrischia desideri che minaccino la serenità del nostro rapporto, non esistono carenze da sopperire, o bisogni che differiscano dai patti, che si discostino dalla rotta diritta che stiamo percorrendo, una strada asfaltata sul mare. Nulla si solleva nella nostra relazione, a intralciare il suo incedere consueto, metodicamente organizzato. Pianificazione anticipata, funzionamento scorrevole, senza intoppi.

Dopo il primo anno di lavoro mi sono trasferita nella casa di mia nonna, che è rimasta vuota da quando lei ci ha lasciati. È un appartamento al secondo piano di una vecchia palazzina, un bilocale piuttosto spazioso, con le stanze ampie, come usavano una volta. Io l’ho ristrutturato realizzando un unico ambiente aperto, nel soggiorno ho sistemato il divano davanti alla televisione e alle spalle il tavolo da pranzo, mentre la zona cucina è delimitata da un bancone, con gli sgabelli alti per fare colazione. In bagno ho eliminato la vasca e installato una doccia, ho acquistato lampade di carta, che creano una luce soffusa, librerie e stampe da appendere alle pareti pitturate di giallo, e poi ci ho portato le mie cose. Durante il trasloco, Angela mi ha pedinato per tutti gli spostamenti, insoddisfatta all’idea che andassi a vivere da sola, per via del fatto che Marco abitava in un grande appartamento che mi avrebbe potuto ampiamente ospitare. A suo avviso avremmo dovuto fidanzarci, andare a convivere e fissare prontamente la data delle nozze. E magari fare pure un figlio. Angela non è una persona all’antica, e non è bigotta, però trova inammissibile che le donne vogliano essere autonome, barcamenandosi con il lavoro, lo stipendio, le spese, e ritiene che ognuna dovrebbe preferire la presenza di un uomo a cui appoggiarsi, un buon partito che possa provvedere alla propria compagna. D’altronde Angela ha mio padre, e Greta, mia sorella, ha il suo medico chirurgo, da cui si è fatta impalmare nel giro di un anno, sfornando due figli maschi a garanzia totale. Personalmente, come un uomo, quali che siano i suoi difetti, o i suoi peccati, ma che sia adulto, cosciente e padrone di sé, oltretutto benestante, possa decidere di vivere con Greta o con Angela, non lo concepisco, e la loro capacità di resistere alla diserzione, mi è imperscrutabile. Io non capisco gli uomini della mia famiglia, Angela non comprende me, c’est la vie.

A quanto pare io avrei l’età adatta, ma non ho alcuna intenzione né di sposarmi né di mettere al mondo figli, fosse solamente per salvarli dalla nonna che loro malgrado si ritroverebbero. E poi io e Marco stiamo bene così. Lui è il genere di uomo che non potrebbe rinunciare ai propri spazi, e a me fa altrettanto comodo. Abbiamo ognuno la propria casa, ognuno i propri vezzi, i propri rendez-vous improrogabili. Lui si ferma a dormire da me una volta alla settimana, e trascorriamo insieme il weekend.

Il nostro è un rapporto equilibrato, che si fonda sul rispetto della privacy altrui, sulla condivisione pattuita delle cose, e di noi stessi, senza mai pretendere oltre. Ci sospinge una corrente costante, un flusso ordinario che riconduce a riva, dove siamo certi di poter attraccare in sicurezza. È una relazione in cui tutto viene predisposto con ordine, a far fronte all’inconveniente esiste già la risoluzione stabilita per l’evenienza. Di tanto in tanto pavide mareggiate previste in cui si resta a galla, senza allontanarsi troppo dalla sponda, e non si deve imparare a respirare sott’acqua. Nuotiamo in una piscina in cui tocchiamo coi piedi sul fondo, se stendiamo le gambe, l’acqua è tersa e piena di cloro, disinfettata da ogni impurità. Io non voglio altro che questo, e non mi pongo il problema. Dovrei?

D’un tratto mi sembra che la tensione si dissolva, ogni goccia di sudore evapora, l’ansia viene riassorbita. E focalizzo Marco dal limbo in cui vengo aspirata, alle mie spalle. Via via più lontana, la realtà circostante ovattata, vedo Marco che mi parla, il suo volto è inespressivo, il tono della voce inalterato, piatto, come se mi stesse raccontando la variabilità dei tassi di cambio e di interesse. Vedo Marco che mi dice la verità, ma ho l’impressione di trovarmi all’interno di un sogno, dove il sonoro rallenta, si dilata, viene distorto da una curvatura dello spazio-tempo in cui sprofondo, mentre il ristorante svanisce, le fotografie della casa in montagna che ho posato sul tavolo, la coperta colorata del letto matrimoniale su cui non ci sdraieremo, scompaiono.

Marco è un bell’uomo e ha compiuto trentaquattro anni. Alto, un’onda di capelli castano scuro che sormonta la fronte spaziosa, il profilo del naso simile a quello delle antiche statue greche. La pelle del viso è abbronzata dalle lampade, nutrita dalle creme costose comprate in farmacia e rimpolpata dalle maschere elasticizzanti, contro l’insorgere delle rughe precoci. È sempre accuratamente sbarbato e per chi non lo sapesse si depila le sopracciglia, che sono ad arco perfetto. Le mie dovrei perfezionarle disegnandole con una matita, ma io non mi trucco, a parte le occasioni speciali, se non con un filo di lucidalabbra e un leggero strato di mascara che stendo sulle ciglia, quando faccio in tempo la mattina. Marco ha spalle larghe, squadrate, addominali scolpiti e muscoli forti, frutto di duri esercizi e una frequentazione assidua della palestra, a cui io mi sono inizialmente iscritta, andandoci tre volte prima di abbandonare definitivamente, terminata da un’ora di spinning.

Marco è intelligente, affascinante, curato nell’aspetto e nell’abbigliamento, ed è il mio fidanzato da sette anni. E’ l’uomo con cui ho scelto di condividere la mia vita, è l’altra ala della vita che mi sono cucita addosso, senza scosse, senza sbalzi, azzerando il rischio di mettere il piede in fallo e finire nella spirale di un gorgo, in cui annegherei di certo, perché non sono abbastanza allenata. Ma non c’è pericolo, perché nessun maremoto è mai in arrivo, nessuno tsunami dell’amore. Marco è un uomo solido, che fa affidamento su di sé, sicuro delle proprie azioni, e io avrò sempre a disposizione il mio spazio individuale vuoto, in cui starmene al riparo, senza il terrore del contatto. È l’uomo che mi ha promesso una vita in cui ci si rispetta, non si invade l’interiorità, e non si mettono al mondo figli. Figli che non voglio, che non saprei allevare. Figli che dovrei abbracciare, e so di non poterlo fare, non ne sarei capace. I miei abbracci sono spinosi, pungenti. Li renderei infelici, quindi figli non ne voglio. Anche Marco non ne vuole, non gli interessa la convivenza, la genitorialità, il nucleo familiare delle pubblicità lo inorridisce. Non aspira all’invasione del suo spazio come io non la voglio del mio, per questo è l’uomo ideale per me.

Ma adesso Marco è un uomo che gronda insicurezza, trasuda rimorso, insofferenza, è un uomo inconsistente.

«Non possiamo continuare a vederci, mi dispiace.»

Lo guardo e non recepisco, la sua estraneità è spiazzante, prendo in mano le foto della casa in montagna per mostrargliele.

«Mi dispiace Nadia, non posso, non possiamo.»

Cos’è che gli dispiace? Cosa sta dicendo? Di cosa sta parlando? Lo osservo perplessa, incerta, alzo il braccio con le foto nella mano e gliele porgo, perché vi dia un’occhiata. È tardi, dobbiamo decidere questa sera e inviare una mail di conferma.

«Ho una relazione con un’altra, da un mese, e non possiamo continuare a frequentarci.»

Un’altra? Un’altra chi? Di chi sta parlando? Gli metto le foto sotto il naso. A chi si riferisce? Marco non

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