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Vicino a te
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Vicino a te

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About this ebook

Elena è una madre che ha perso l’unico figlio, e si domanda cosa resta della propria essenza. Piange quel figlio nato presto, che aveva condizionato le sue scelte e trasformato la sua vita, prima che diventasse una donna. Nel cammino a vuoto dopo la sua terribile perdita, incontra Leonardo, un uomo che potrebbe amare e non le chiederà altri figli, che Elena non ha mai pensato di avere, perché Leonardo è sterile. Ma un desiderio sotterraneo comincia a pulsare in lei, un desiderio dettato dalla vita, che continua a parlarle, che la porta a sognare un nuovo bambino.
Accanto alla storia di Elena c’è il passato di Leonardo, l’amore potente per Angelica e una scelta di vita che deve sostenere. C’è Tommaso, che da sempre è innamorato di Elena e le è amico, c’è Paolo, che soffre quanto Elena, perché è il padre di Matteo, c’è il ricordo di Olga e delle sue parole ripetute, c’è Camilla, che è scampata per miracolo all’incidente e si ritrova a fronteggiare il dolore, e c’è Matteo, che prima di quel tragico giorno era innamorato, che iniziava a disvelare la parte più intensa di vita.
LanguageItaliano
Release dateFeb 14, 2016
ISBN9788892554115
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    Vicino a te - Silvia Alessia Anglani

    Vicino a te

    di Silvia Alessia Anglani

                                                                                                        Alla mia famiglia

                                                                                                        Non c’è tanto da fare, c’è da vivere

                                                                                                       Ma che splendido animale è l’uomo,

                                                                                                       il quale sa, quando il dolore si attenua, che

                                                                                                       non è quello tutto, perché peggio di quello

                                                                                                       deve seguire – pure, sa comporre musica,

                                                                                                       ridere, giocare a tennis, perfino far progetti.

                                                  Edna St. Vincent Millay, Sonetto CLXXI

    Linda sta giocando con Nabi, il cucciolo di Husky bianco che Leonardo le ha regalato per il suo quinto compleanno, appena una settimana fa.

    Corre avanti e indietro, senza sosta, facendo volteggiare un nastro rosa, e il cucciolo lo insegue goffamente. È un nastro di ginnastica ritmica, l’ha voluto comperare dopo aver visto le Farfalle azzurre col padre, alla televisione. Linda guarda sempre con Leonardo il canale sportivo, e osservando le ginnaste longilinee, aggraziate, leggiadre, ne è rimasta affascinata. Vuole sollevarsi sulle punte e spiccare il volo con la forza dei loro salti, assomigliare a quelle meravigliose atlete, che suo padre guardava tanto ammirato, desidera essere bella come loro, da grande, il trucco lucente, i brillantini tra i capelli. Ha desideri semplici, desideri grandiosi.

    Correndole appresso Nabi incespica, ruzzola a terra, e Linda ride. Nel riso le si strizzano gli occhi, occhi scuri come quelli di Leonardo, occhi che scrutano, occhi che confondono, proprio come i suoi. Pure i capelli sono scuri, e anche questo è un tratto che hanno in comune, si assomigliano nei colori, le stesse ciglia folte, allungate, le stesse tonalità dell’anima, le pareti trasparenti, ma certi pozzi scuri, vibranti, pronti a inglobare, ad attirare a sé. 

    Sono trascorsi cinque anni, dal giorno in cui i capelli neri sono spuntati fuori dalle gambe di sua madre, hanno preso a galleggiare nell’acqua tiepida della vasca dove è stata partorita. È la prima cosa che Leonardo ha visto di quella creatura nuova che veniva al mondo, un ciuffo fluttuante di capelli neri.

    Lei ha voluto chiamarla Linda, gli ha chiesto di lasciarle avere quel nome, un sottile legame con un altro mondo, un’esile traccia della fragilità e l’inconsistenza del sogno, in cui era stata, e da cui era tornata. Sarebbe stato il suo filo di seta, le sarebbe appartenuto, inconsapevole, l’avrebbe usato per ricamare i contorni delle proprie scelte. Linda, Linda, Linda, mentre spingeva sentiva nelle orecchie il soffio lieve, carezze delicate sulla pancia che si stava svuotando. Leonardo ha acconsentito senza domandarle, è un nome che gli piace, ha un suono morbido, liquido, la punta della lingua accarezza il palato e il suono vi fluisce sopra spandendosi nel mondo.

    Linda è una bimba gioiosa, attiva, esuberante, difficile farla stare ferma. Per questo lui ha pensato di regalarle un cucciolo, perché avesse qualcuno che fosse felice di accontentarla sempre nei suoi giochi, che assorbisse con lealtà il suo entusiasmo, un fedele alleato.

    Leonardo li guarda, osserva Linda e Nabi che si rincorrono sul prato, assiste al loro gioco, quel semplice e completo esistere, le parole che si immagina disegnate nell’aria dall’estremità del nastro. Quella figlia viene dal loro passato, ma non l’ha in sé, è libera, scrive con evanescenza di altre storie, il futuro è ancora incerto, indefinibile, ciò che è stato meglio rimanga inesplorato. Lei saltella fluttuando nel presente, ogni tanto lo chiama, gli va incontro, gli spalanca davanti gli occhi, iridi che splendono, intonse, che illuminano in faccia la vita:

    «Papà, papà! Guarda cosa gli faccio fare!» e sta già correndo di nuovo, e di nuovo è nel presente, il suo, quello di Nabi e di suo padre.

    Lui ancora di nascosto si commuove, trema sentendo Linda chiamarlo, ascoltando quell’appellativo che soppianta il proprio nome, pronunciato dalla piccola voce vivace, si articola come un canto di gioia, un inno di vittoria. È esistito un momento in cui era stato certo che non gli fosse concesso, l’aveva accettato, l’aveva anche scelto. Non sarebbe mai stato per lui, avere un figlio a cui fare da guida, un figlio da accudire, da crescere, un bambino nelle file delle culle a cui poter destinare il proprio affetto, tutto l’amore convogliato in un piccolo essere accartocciato che diverrà la persona più importante, la più speciale, diversa da tutte le altre, d’altronde non può essere destinato a tutti. E si sente come se fosse il solo, il fortunato eletto. Tra tutti gli uomini, è Linda a renderlo straordinario.

    È in piedi sul prato, le spalle rilassate, regge uno zainetto e una felpa in mano, e può abbracciare sua figlia con gli occhi, mentre con gli avanbracci nudi stritola quel batuffolo di morbido pelo, si fa leccare di baci, ride, ride, ride, sulla fronte avrà i capelli imperlati di goccioline tonde di sudore.

    Le persone non si stupiscono nel vederla con lui, una bimba solare, affettuosa, la premura di suo padre nel sorvegliarla mentre gioca con il suo nuovo cucciolo, che ancora non ha imparato bene a correre sulle zampe enormi, quell’amore che traspare dai pori della pelle, dai sensi in allerta per lei, il cuore in tumulto per quella vita, in pace per quella bambina carica di luce che gli gioca attorno.

    Nessuno che si accorga dei geni diversi dai suoi, che li renderebbero due estranei, se solo non fosse infinitamente certo di amarla così tanto, per superare la distanza di quei giorni da cui lei è arrivata, che lui non conosce, raffigurarsi il momento in cui ha iniziato a esistere, in cui lui era lontano, spiazzare la sentenza della genetica. Qualcosa di netto gli conferma ogni giorno che è il cuore a conoscere ciò che la nostra mente non può che ignorare, per difetto, per incapacità, sa che basta, che va bene così.

    Leonardo adesso sa che la vita, per conto suo, può annullare ciò che prima ti aveva negato, e inspiegabilmente, riparare a ciò che credevi irrimediabile. Sa che sta a ognuno saperlo accettare ancora una volta, non può che esserne convinto.

    I Parte - ELENA

    Allo studio il paziente si riveste e la saluta cordialmente, con la confidenza acquisita dopo un mese di terapia. 

    «Mi raccomando, a casa ripeta gli esercizi che le ho mostrato, non sia troppo pigro.»

    È un signore sulla settantina, si è lesionato i legamenti delle spalle nel sollevare in aria il nipotino, è un uomo dai modi affabili, i movimenti ancora tonici, sostenuti. Le sorride malizioso, il sorriso nascosto sotto i baffi gialli di sigaro fumato da decenni, come quelli di suo padre, le fa l’occhiolino, è una burla per divertire il tempo, ingannare l’età. Le lancia una battuta spinta, che lei però non coglie, smarrita in un'intenzione, sopraffatta da una spinta propulsiva interna che le sta ordinando di andare.

    Resta in bilico con il pollice in bocca, l’unghia tra i denti, si è mangiata le unghie per anni, da bambina. Ma è il dubbio di un istante, è già protesa in avanti, i muscoli hanno già il comando di muoversi. Avrebbe dovuto ricevere un altro paziente che in mattinata l'ha avvisata di avere avuto un imprevisto, quindi è libera per l'ora di pranzo, libera di andare, di tornarci.

    Si toglie il camice e infila la giacca marrone, le scarpe coi tacchi al posto degli zoccoli sanitari, si affretta, afferra la borsa aperta e il cellulare, le chiavi dell’auto, abbandona il paziente nello studio ad allacciarsi il cappotto.

    «Ah signorina se fossi appena un poco più giovane io..»

    Saluta la ragazza che sta alla reception, è nuova, ora non ricorda il nome, le dice che esce per pranzo, che tornerà più tardi, almeno crede, le parole le sfuggono, le lascia indietro a galleggiare in aria, è già passata oltre.

    Non ci dovrebbe andare, lo sa, ma non può evitarlo, è una forza che la chiama a sé, un laccio emostatico stretto attorno al cuore. La ragione non c’entra, il sangue non è il suo campo.

    Sale in macchina e guida venendo trasportata, in trance, l’auto che scivola su binari invisibili, non è lei a scegliere la strada, ogni svolta è inevitabile, è la piena del fiume che ha sfondato gli argini, che scorre devastante cercando il mare in cui riversarsi.

    Il cellulare gettato sul sedile del passeggero sta squillando, con la coda dell’occhio scorge il nome di Tommaso che vibra sul display, la notifica di un messaggio, è suo, Elena dove stai andando?.

    A quell’ora il traffico della mattina è svanito da un pezzo, le corse per andare al lavoro, il mondo che si desta ogni giorno in un attacco di schizofrenia. C'è gente a piedi che attraversa ai semafori, è già qualche giorno che non piove, che è uscito un assaggio di sole.

    Lei è atterrita da quei primi raggi, vorrebbe che non fosse già febbraio, poter prolungare l'inverno, impedire alla natura di ridestarsi, fermarla sopita, sottoterra. Non può riconoscere l’autorità delle stagioni, quel loro assurdo susseguirsi, i visi illuminati l’abbagliano, si sente scottare come se bruciasse avvolta tra le fiamme. Mesi prima aveva misconosciuto, aveva rinnegato, ma è l’odore dell’aria che si rinnova a spaventarla, l’effluvio dei germogli che fioriscono alimentando il suo rogo, teme quella promessa di vita fasulla.

    Alcuni ragazzi stanno già uscendo, la campanella è suonata da qualche minuto. Parcheggia vicino al cancello, arretrata di pochi metri, spegne il motore, aspetta, il cellulare emette una notifica, è un altro messaggio di Tommaso, Elena per favore richiamami, dove sei andata?.

    Resta seduta al posto di guida, lo sguardo vacuo arenato sulla folla di ragazzi e ragazze che a mano a mano si addensa, zaini che si accumulano, il vociare ronzante si intensifica, si innalza, riempie il silenzio di pochi istanti prima, da zero a cento in un attimo, è il risveglio dei sensi, uno sfogo di liberazione.

    Gli studenti le scorrono accanto, una fiumana che si allarga e si separa attorno alla sua auto parcheggiata per poi ricompattarsi, per nulla infastiditi da quella macchina piantata lì in mezzo, a loro non importa di niente, aggirano l'ostacolo senza farci troppo caso, senza interrogarsi, non pretendono ragioni. Non stanno a chiedersi perché lei è presente all’orario di uscita, non se lo domandano, non sanno nemmeno chi sia, non ha importanza. Hanno davanti tutto il pomeriggio libero, davanti agli occhi hanno tutta la vita.

    Rimane seduta alla guida, quel pollice incollato alle labbra, incapace di cogliere la fila dei pensieri, la propria volontà inesistente, è solamente l'istinto che la tiene parcheggiata in quel luogo, un istinto mendace, che lei non può abbandonare, non può scrollarlo via. È nelle profondità del suo corpo, imbevuto nella parte più interna, nascosta. Non è una radice che si può estirpare a comando, una volta innestata resta nelle cellule, si radica nella coscienza, si ramifica occupando gli spazi vuoti, ogni antro, ogni porosità, si rifiuta di vivere una realtà differente, di credere all’annullamento, alla siccità. Ramificazioni contorte le causano stilettate dolorose, spasmi negli organi molli che supplicano per una goccia di pioggia. Ha mucchi riarsi di radici da spazzare via.

    Quando la vede si solleva più eretta, si toglie il dito dalla bocca, congiunge le mani senza conoscere alcuna preghiera. La fissa senza fare cenni, nonostante gli smottamenti interni non distoglie lo sguardo. Le pupille le si puntano addosso, seguono ogni suo passo, sono magneti inchiodati su di lei.

    L’ennesimo messaggio ignorato, Ti aspetto per le quattordici? Dove sei?

    È vestita con un paio di jeans e un piumino turchese, gli stivali da biker neri, come vanno di moda adesso. I capelli castani sono sciolti, arricciati sulle spalle per l’umidità ancora presente nell’aria, vede la faccia pulita, l’espressione mite. È così semplice, così anonima, senza manifesti di ribellioni, eccessi di personalità. Nessuno la noterebbe tra la ressa di studenti che si accalcano caotici alle fermate degli autobus, nessuno si azzarderebbe a dire è lei, è proprio lei.

    Cammina piano, gli occhi rivolti al selciato, tra un'amica e un ragazzo che le sta sussurrando all'orecchio, dice qualcosa che deve farle piacere, lusingarla o forse divertirla, perché sorride allargando le labbra, e un raggio di sole violento buca le nuvole, ferisce il cristallino di occhi condannati a essere impreparati, privati di schermo di protezione. Da vicino i denti sono ben visibili, scoperti dal sorriso, denti piccoli, denti rotti e ricostruiti durante una serie prolungata di sedute. Il dentista dove sua madre lavora come assistente deve averle fatto piccole punture di anestesia alle gengive, tutt’intorno ai monconi, ha cercato di fare piano, per non farle sentire altro male.

    Elena la guarda sorridere, aspetta che il sorriso si riassorba, che si spenga, ma lei è una ragazza socievole, divertente, le piace stare in gruppo, fa amicizia con tutti, è una ragazza stracolma di amici. Camilla, si chiama Camilla, ed è veramente bellissima.

    L’aveva intravista alle partite di calcio, al lato opposto della tribuna, ma non si era soffermata a guardarla, le passava accanto senza alzare gli occhi, andando via prima che Matteo uscisse dagli spogliatoi, sarebbe tornato a casa con lei. Lasciava loro l’intimità, la riservatezza. Poi una sera Matteo e Camilla avevano aspettato che tornasse dallo studio, e lui gliel’aveva presentata ufficialmente. A lei era piaciuta, era una ragazza diretta, genuina, di un anno più grande, ma contemporaneamente aveva una timidezza di fondo che indicava la brava ragazza, la studentessa lodevole, la figlia devota.

    Camilla le dava del lei e a tavola stava seduta composta, masticando piccoli bocconi, aveva modi garbati che lasciavano trasparire la buona educazione, chiacchierava a tratti, rispondendo alle sue domande e allacciandosi alle affermazioni di Matteo, che quella sera era particolarmente loquace, ma si notava che solitamente era lei a padroneggiare i loro discorsi. Spiccava la tensione iniziale, ma aveva fatto presto a prendere confidenza, mostrando di essere una persona a cui piace entrare in contatto con gli altri, senza veli, con nulla da mascherare.

    Le era piaciuta anche se non l'aveva trovata così incredibilmente bella, se l'aspettava diversa, più alta, più snella, i capelli lisci, lunghi, forse più chiari, il viso meno paffuto. Matteo non gliel'aveva descritta, sapeva dire solo bellissima, come se fosse l'unica parola che aveva imparato da piccolo, come se tutto il linguaggio fosse regredito e si fosse condensato in un unico termine, quel bellissima sintomatico che andava ripetendo, impossibilitato a pronunciare qualsiasi altro vocabolo. Fa niente se a due anni sapeva già parlare usando correttamente i congiuntivi, fa niente gli anni di scuola media a interrogarlo la sera dopo il lavoro, quel biennio impegnativo al liceo scientifico. I neuroni azzerati all'unisono.

    Camilla invece in altezza gli arrivava alle spalle, aveva i capelli mossi castano naturale, le guance arrossate, la pancetta e i fianchi pronunciati. Aveva quel sedere tondo, strizzato negli shorts di cotone bianco, quel seno generoso esploso davanti, a bilanciare tutte le altre forme.

    Seduta nella sua auto, Elena la guarda, osserva il sorriso che le si è sciolto sulla bocca, come la glassa di cioccolato che faceva colare sulla torta, per il suo compleanno, aveva partecipato a quel corso base di pasticceria, il sabato pomeriggio. Si domanda cos’ha ascoltato di tanto miracoloso, vorrebbe saperlo, quali parole l'hanno fatta sorridere, vorrebbe sentirle anche lei, vedere se funzionano, anche per se stessa.

    Camilla la individua, si accorge della sua macchina, di lei al volante che la sta fissando, e il sorriso le cade dentro, lo ingoia, e i suoi occhi hanno il suo stesso sguardo, la stessa sensibilità a quella luce che una non sa più aspettarsi, nemmeno che emani da se stessa, e non può che ripararsi, cercare di proteggersi. Ha smesso di ascoltare le parole del ragazzo, saluta l'amica, si stacca dal gruppo e cammina a passi svelti verso l'auto di Elena, le si accosta, si abbassa chinandosi sulla portiera del passeggero, accenna un sorriso attraverso il finestrino che non assomiglia a quello di poco fa, è un sorriso che pesa, greve da sostenere a lungo. Ma è sincero, Camilla è una ragazza onesta, leale, senza sotterfugi.

    Elena le fa un cenno con la testa che la invita a salire, le mani disgiunte, che si aggrappano al volante. La ragazza apre la portiera, fa scivolare lo zaino dalle spalle appoggiandolo a terra, tentenna finché Elena non toglie la borsa e il cellulare che in quel momento sta squillando scaraventandoli dietro, poi Camilla si infila sul sedile.

    «Ti do un passaggio a casa.»

    «Okay.»

    Elena annuisce come a conferma di quell'assenso, annuisce a se stessa come a dirsi che va bene, che è giusto così, che è la cosa da fare. Mette in moto e guida l'auto con fluidità, mantenendo il silenzio, ogni tanto di sfuggita si volta a guardarla, e Camilla è seduta rigida, gli occhi sulla strada che hanno davanti, che stanno percorrendo, le dita senza unghie che stringono la maniglia dello zaino tra le ginocchia.

    Il tragitto è breve, impiegheranno una decina di minuti, al massimo un quarto d’ora, ma Elena non corre, si ferma ai semafori arancioni, aspetta il verde, e in quelle pause dalla guida cerca di non voltarsi a fissarla, si gira dalla parte opposta, osserva senza vederlo l'altro lato della strada. Aspetta che il clacson della macchina che la incalza da dietro la avvisi che il semaforo è ridiventato verde. Non le dice una parola.

    Sotto casa si accosta al marciapiede mettendo le quattro frecce, spegne il motore in mezzo alla strada.

    «Grazie..»

    Camilla stringe forte la maniglia della portiera, vorrebbe aprirla, spalancarla e fuggire, ma sa che deve aspettare, che Elena le parli, che la lasci andare. Ha bisogno del suo permesso, del suo perdono.

    Però Elena resta in silenzio, non le dice niente e lei non se ne va, stando appiattita contro la portiera la spia con gli occhi bassi, le vede le lacrime che rigano le guance, che lei non si asciuga, forse nemmeno si accorge che le stanno scendendo, ha lo sguardo fisso sul parabrezza, gli occhi immobili, le mani sul volante come se stesse ancora guidando verso altrove.

    «..del passaggio.»

    Elena vorrebbe dirle che va bene, va tutto bene, vorrebbe salutarla, rimettere in moto, ripartire, non sarebbe dovuta andare lì, non dovrebbe essere lì con lei, ma non le escono le parole, non ci riesce. Vorrebbe chiederle cos'è, cos'è che ti stava dicendo il tuo amico, era una battuta su qualche prof, una confidenza su una ragazza, o ti stava dicendo che ti trova bella, che con quei capelli e quegli occhi e quel seno gonfio sei davvero irresistibile? Cos'è, che ti ha fatto sorridere prima, all’uscita da scuola, così naturalmente, con leggerezza, come se non fosse successo niente, come se non fosse mai accaduto? Come fa a essere ancora facile sorridere, vorrebbe che lei glielo mostrasse, che le spiegasse il trucco. Vorrebbe dirle vai pure, ciao, vorrebbe dirle rimani, ma le parole non fuoriescono.

    «Mia mamma mi aspetta per pranzo.»

    Camilla pronuncia la frase pescando in una pozza di paura, ma vuole davvero andarsene, non può resistere un minuto di più, in quell’auto. Si sforza di usare tutta la sua voce, fa attenzione perché non tremi, perché si imponga sonora, eppure Elena non la sente, sta visualizzando qualcosa, attraverso le lacrime che scorrono.

    E cosa ti ha detto lui quel pomeriggio? Qual è stata l’ultima frase, l’ultima parola che ha pronunciato, un nome, ha invocato un nome? Vorrebbe tanto chiederglielo, vorrebbe tanto sapere di quel giorno, di quel pomeriggio di luglio della scorsa estate, un’estate che a volte le sembra avvenuta anni luce fa, altre volte le sembra che debba ancora arrivare, che sia imminente, sta per accadere, a lei, oltre la prossima curva. C’è un auto che la investe, dietro ogni angolo.

    «Grazie Elena, sei stata gentile ad accompagnarmi, ma devo proprio andare.»

    «Sì scusa, magari ci vediamo un'altra volta, se ti serve un passaggio, e poi non mi costa niente, passare da scuola..»

    «Okay. Ciao.»

    Camilla scende in fretta, chiude la portiera senza più guardarla, cammina tenendo lo zaino al petto, come se avesse un bambino nel marsupio, non si volta indietro. Citofona e dice a sua madre che è lei, aspetta che le apra il portone, e scompare dalla strada, dallo sguardo pensoso di Elena, da quello scorcio di parabrezza appannato dal pianto.

    La sera rientra a casa in anticipo, il pomeriggio non è tornata al lavoro, ha incasinato gli appuntamenti, inventato un problema a cui Tommaso non ha creduto, d'altronde è lei che l'ha pregato di farla tornare a lavorare allo studio, è lei che gli ha giurato di sapersi gestire, che sarebbe stata in grado. Sapeva che le occorreva quell’impegno, aveva bisogno di darsi un ritmo, un tempo scandito dall’esterno, anche se poi non lo rispettava.

    Dopo aver lasciato Camilla stava per tornare a Milano, invece ha rifatto inversione, si è posizionata sotto casa della ragazza, piazzata a lato della corsia. Ha aspettato di vederla ricomparire fuori dal portone, ha atteso che scendesse per andare da un’amica a fare i compiti, o alla lezione di musica, sarebbe scesa dalla macchina e le sarebbe andata incontro, se l’avesse vista uscire. Voleva a tutti i costi chiederle quella cosa, porle infine quella domanda, farsi svelare il motivo di quella risata, di quel sorriso spontaneo che le era apparso sul volto, che per qualche istante era rimasto lì, impresso perché lei credesse che fosse vero. Ma al posto di Camilla era scesa la madre, l’aveva squadrata senza salutarla, e aveva tirato dritto dalla parte opposta.

    E adesso Tommaso l'ha richiamata al telefono, è furibondo con lei, è l’intero pomeriggio che la cerca al cellulare, che la rincorre.

    «Non puoi continuare a fare così, a sparire in questo modo, mi lasci nella merda ogni volta, lo capisci? Io ci campo coi soldi dello studio, non posso permettermi di farlo andare in rovina!»

    «Scusami Tommaso, hai ragione, non accadrà più.»

    Gli fa quella promessa ogni volta, lo inganna convincendolo di essere pronta, di essere forte, sa che lui non le crede, come sa che non sarà mai lui ad abbandonarla.

    «Non funziona, non può funzionare, cazzo Elena, come si fa in questo modo?»

    Tommaso è stato suo compagno di corso all'università, è lui che anni prima l'ha segnalata al proprietario dello studio, che adesso gestisce in prima persona, ed è stanco di prendersi carico dei suoi pazienti, di fare il doppio lavoro e le figure di merda con la gente. Lo capisce quello che le è capitato, è stato atroce, tremendo, troppo ingiusto da accettare veramente, ma ora basta, o è realmente pronta a rimettersi a lavorare o dovrà restarsene a casa, magari fare soltanto qualche paziente privato, glieli passerebbe lui, in ogni caso.

    «Mi dispiace..»

    Prima che fosse suo collega e datore di lavoro, con Tommaso Elena ci aveva avuto una storia, era stato durante l’università, anche se lui era più giovane di quattro anni, e lei aveva un figlio, un bambino di sette anni che andava già in seconda elementare.

    Tommaso di lei era totalmente cotto, risvoltato a puntino, e la loro relazione era proseguita anche dopo, i primi tempi allo studio, ma per poche settimane. Lei aveva troncato quando lui aveva iniziato a parlare di matrimonio, a dirle che sarebbe stato bello fare da padre a Matteo, che gli sarebbe piaciuto avere un figlio con lei, un figlio suo. Tommaso era uno con la testa sulle spalle, un ragazzo giovane ma solido, di quelli ai quali si può consegnare in busta chiusa fiducia per il futuro.

    Lei aveva chiamato di corsa Paolo, con un pretesto, si erano visti la sera al pub, a bere un caffè dopocena, per parlare della maestra di italiano che in quel periodo non faceva che mettere Matteo in punizione, una scusa tra le tante, ed erano finiti a trangugiare negroni e andare a letto insieme. Era stata Elena a fare gli occhi languidi, a fissare Paolo oltre le pupille, come faceva lei, entrandogli dentro la testa, nei pensieri, brandendo le sue ansie per sedarle, come creature arrendevoli a cui bastava che lei cantasse una ninna

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