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Parigi mon amour: Cronache di un inviato un po' flaneur e un po' speciale raccolte e curate da Pino Pelloni
Parigi mon amour: Cronache di un inviato un po' flaneur e un po' speciale raccolte e curate da Pino Pelloni
Parigi mon amour: Cronache di un inviato un po' flaneur e un po' speciale raccolte e curate da Pino Pelloni
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Parigi mon amour: Cronache di un inviato un po' flaneur e un po' speciale raccolte e curate da Pino Pelloni

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La Parigi del dopoguerra con i suoi personaggi, i suoi locali, le sue mode raccontata dalla penna virtuosa di un inviato un po’ flaneur e un po’ speciale, per le pagine letterarie del Corriere della Sera e di altre testate italiane, raccolte e curate da Pino Pelloni.
Gian Gaspare Napolitano fu un viaggiatore curioso e un cronista scrupoloso, un vero cittadino del mondo. Fu scrittore, drammaturgo e cineasta. Il suo Magia verde, un documentario sull’Amazzonia, vinse nel 1953 l’Orso d’Oro al Festival di Berlino.
Sempre in movimento: dalla Bucarest degli anni Trenta a Lisbona, per passare a Madrid e Londra ma soprattutto Parigi che fu la città che più amò. A Parigi soggiornò per un anno tra il ’46 e il ’47, tornandovi successivamente sempre come corrispondente del “Corriere della Sera”, a cui spediva regolarmente articoli, elzeviri, interviste e la cronaca della vita letteraria e culturale.
Erano gli anni in cui debuttava sulle scene Juliette Greco, Sartre si incontrava con Simone De Beauvoir, Prévert scriveva le sue poesie che diventavano canzoni. Il panorama culturale parigino e l’umore di una città notturna e magica viene fuori dalle interviste fatte a Malraux, a Lévi-Strauss, a Sartre, a Maurois; dalle cronache teatrali degli spettacoli della “Comédie francaise" e dell’emergente Ionesco; dalle insonni conversazioni con i personaggi del “tout Paris”.
Ritratti unici, di un palermitano curioso e sospeso tra letteratura e giornalismo, che vanno a disegnare il mosaico di una stagione irripetibile di una città che, dopo la guerra, era tornata alla joie de vivre.
Il libro contiene il ritratto-ricordo che gli dedicò l’amico e collega Luigi Barzini jr. e si chiude con l’articolo che Napolitano scrisse nel 1947 per il settimanale Europeo dedicato a Luigi Barzini padre.
LanguageItaliano
Release dateDec 12, 2015
ISBN9788895226446
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    Parigi mon amour - Gian Gaspare Napolitano

    biografiche

    Un siciliano a Parigi

    di Pino Pelloni

    L’odore della carta velina ingiallita dal tempo, la ruggine delle graffette che tengono raccolti i fogli, le correzioni a mano fatte con un inchiostro antico, le attenzioni grafiche per i linotipisti, quando era in uso che la parola sottolineata aveva l’obbligo del corsivo e che l’obbligo del neretto era simboleggiato invece da due righe sotto la parola. Giornalismo d’altri tempi. Quello fatto di corrispondenze telegrafate o inviate per fuori sacco. Un mestiere per gente curiosa e amante dell’avventura. Innamorata della vita. Io ho fatto appena in tempo, agli esordi dello – chissà perché? – sconsigliato mestiere, a vedere i linotipisti bere bottiglioni di latte per difendersi dal piombo nemico; i correttori di bozze perdere la vista su fogli male inchiostrati; i tipografi chiudere le pagine compresse in enormi telai di legno; a portare, a turno con altri giovani redattori, con una Lambretta male in arnese, i fuori sacco alla stazione nelle mani del capotreno.

    Così, quando Giovanna Napolitano mi ha affidato le pagine di suo padre Gian Gaspare, quelle pagine consunte ma bellamente titolate e corredate con tanto di occhiello e catenaccio, perché a quei tempi non c’erano nelle redazioni i titolisti specializzati, mi sono rivisto, d’un colpo solo, lo sbarbatello che fui, alle prese con i tasti della Olivetti lettera 22 che mio padre mi regalò a maturità conseguita.

    È facile comprendere perché mi sia subito innamorato delle pagine di Gian Gaspare Napolitano. Per quell’aria del tempo andato, ma soprattutto per una scrittura pulita, evocatrice di umori e caratteri, per la scelta dei personaggi e dei luoghi di una Parigi che non c’è più. Come non c’è più la Roma della via Veneto e della speranza. Quella Roma che Gian Gaspare visse e raccontò. Una città che bighellonava tra piazza di Spagna e Piazza del Popolo, oziando nelle piccole trattorie di via Margutta e il Babuino, curiosa di tutto quanto arrivasse da fuori. Dall’America, da Parigi. Con il poeta Cardarelli che pontificava dal Caffè Strega e i cinematografari a pasteggiare da Doney, mentre i borderline Flaiano, Ercole Patti, Vincenzino Talarico e Sandro De Feo erano fissi da Rosati. Il Café de Paris non faceva per loro. Gian Gaspare sostava da una parte e dall’altra per un buon bicchiere in compagnia. Osservava e studiava questa fauna umana da attento entomologo e raccontava questo mondo alla sua maniera. Da grande scrittore, innamorato di quella Commedia umana balzacchiana alla vaccinara.

    Ma è la Parigi del dopoguerra, città che Gian Gaspare amò tantissimo, che viene raccontata in questo libro attraverso le puntuali cronache che egli inviava ai giornali cui collaborava. Dopo aver girato mezzo mondo, soggiornò a Parigi per un anno tra il 1946 e il 1947, tornandovi successivamente sempre come corrispondente del Corriere della Sera, a cui spediva regolarmente articoli, elzeviri, interviste e la cronaca della vita letteraria e culturale.

    Erano gli anni in cui debuttava sulle scene Juliette Gréco, Jean-Paul Sartre si incontrava con Simone De Beauvoir, Jacques Prèvert scriveva le sue poesie che diventavano canzoni. Il panorama culturale parigino e l’umore di una città notturna e magica viene fuori dalle interviste fatte a Malraux, a Lévi-Strauss, a Sartre, a Maurois; dalle cronache teatrali degli spettacoli della Comédie francaise e dell’emergente Ionesco; dalle insonni conversazioni con i personaggi del tout Paris. Ritratti unici, di un palermitano curioso e sospeso tra letteratura e giornalismo, che vanno a disegnare il mosaico di una stagione irripetibile di una città che, dopo la guerra, era tornata alla joie de vivre.

    Com’era e cosa era Parigi (e la Francia) negli anni del dopoguerra? Quella vissuta e raccontata da Gian Gaspare Napolitano in queste pagine?

    Fra l’aprile del 1945, in cui Mendès France lascerà il governo provvisorio, sino al suo ritorno come Presidente del Consiglio nel 1954, la Francia conosce le ristrettezze del dopoguerra, l’uscita dei comunisti dal governo nel 1947, la Guerra Fredda e la ripresa dell’economia nazionale. Ma sono anche gli anni in cui i Francesi cominceranno a possedere i primi elettrodomestici, a partire per le vacanze, ad acquistare un’automobile, a riprendersi la vita nelle città, andare a teatro, ascoltare musica nuova, frequentare bar e parchi. Ossequiosi al preambolo della Costituzione approvata il 16 aprile 1946 che recitava: La culture la plus large doit être offerte à tous sans autre limitation que les aptitudes de chacun.

    Nel biennio 1944-45 Parigi si trovava in uno stato pietoso. La guerra, con l’occupazione tedesca, le privazioni, i bombardamenti alleati, i 600mila francesi scomparsi, un quarto del patrimonio immobiliare distrutto, 400.000 case danneggiate, aveva ingigantito tutti i problemi che la città ferita sopportava già dal 1941. Con i trasporti inadeguati, la crisi degli alloggi, la scarsità dei prodotti alimentari, i gravi disagi nelle periferie.

    Parigi era una città irriconoscibile. Non più la decantata Ville Lumière di prima della guerra, quella raccontataci, per intenderci, nel 1929 da Walter Benjamin. Non più ombelico del mondo, fucina delle idee, con la borghesia legata ai valori repubblicani e liberali che non si riconosce più in se stessa e con le forze progressiste allo sbando. Prima la mobilitazione, poi l’esodo e l’occupazione disperdono la società francese, dividono gli intellettuali, disorientano il popolo, creano inquietudine. Gli intellettuali si schierano su barricate opposte. Da una parte gli scrittori collaborazionisti e dall’altra coloro che si impegnavano in attività clandestine e che nel 1943 si riuniranno nel Conseil National des écrivains. È la capitale di un paese prima vinto, poi collaborazionista, infine resistente e combattente.

    Gian Gaspare incontra una Parigi che si sta togliendo di dosso l’ultima polvere di questi anni bui, che parla americano, che recupera i suoi luoghi e i suoi protagonisti. Una città che si riappropria dei suoi spazi e della sua antica vocazione naturale, ripulita dalla vergogna della souillure allemande e collaborazionista. Che tira fuori dagli scaffali le opere di quegli autori che la censura e i decreti antisemiti avevano fatto sparire dalle librerie. Che mette al bando i libri degli scrittori collaborazionisti e lancia quelli di autori che provengono dalle fila della Resistenza. Che vede i teatri riempirsi di pubblico e nuovi testi conquistare le tavole del palcoscenico. Nel 1952 il TNP di Jean Vilar s’installerà al Palais de Chaillot e Pierre Boulez inaugurerà nel 1954 il suo regno musicale. Si ricorda di quando René Leibowitz invitava gli amici, fra i quali Sartre e la Beauvoir, ad ascoltare da Leiris la musica dodecafonica che era stata proibita dai nazisti.

    Ma i parigini, pur senza gas ed elettricità, con il carbone difficile da reperire e con i mezzi pubblici in difficoltà, saluteranno l’inaugurazione del Salon d’Automne, una retrospettiva dell’arte prima della guerra. Tornarono alla luce i colori di Picasso, le tele di Braque, di Matisse, Mirò, Max Ernst. La gente va al cinema a vedere Les Enfants du Paradis e i film americani, ascolta il jazz, balla nelle piazze. Le ragazze s’imbellettano e trotterellano allegre lungo i boulevards. La gente ama passeggiare lungo le rive della Senna, dove incontra la biblioteca più vasta e varia del mondo del mondo che sono le bancarelle dei bouquinistes.

    Parigi rinasce dalle macerie materiali ed umane della guerra e comincia a recuperare i valori repubblicani e democratici che esaltano la libera espressione delle aspirazioni individuali e il valore del dibattito delle idee. La città diventa un pensatoio dove si elaborano analisi, dottrine, filosofie che riassumono i problemi che toccano tutta l’Europa. In prima linea uomini come Sartre, Camus, Merleau-Ponty: la corrente esistenzialista prende corpo attingendo alla fenomenologia, alla psicanalisi, alla filosofia husserliana e heideggeriana.

    Si torna a far figli e si comincia a star meglio, come è avvenuto per l’Italia, grazie anche al Piano Marshall. In fondo avevano vinto la guerra e sconfitto il tedesco oppressore, quando De Gaulle prese provvisoriamente il potere e guidò la transizione alla Quarta Repubblica, parlamentare e democratica sul modello italiano, ma per il resto abbastanza simile alla Terza Repubblica (quella abbattuta dai tedeschi nel 1940). Primo Presidente della Repubblica fu Vincent Auriol, mentre il primo Primo Ministro fu Paul Ramadier. Nell’immediato dopoguerra andarono al potere i partiti della Resistenza, come avvenne in Italia, cioè il Partito Comunista, il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana, ma, come da noi, i comunisti vennero esclusi dal governo. Nel 1947, si erano rifiutati di finanziare la guerra in Indocina. Il periodo successivo si contraddistinse per coalizioni di centro-centrosinistra (Troisième Force) piuttosto ampie e non troppo efficaci. La Francia, considerandosi ancora una grande potenza coloniale senza accorgersi che il mondo stava cambiando troppo velocemente, si trovò impelagata con la guerra in Indocina e Madagascar e poi, negli anni successivi, vedrà la fine delle sue colonie principali e vedrà il suo ruolo mondiale assai ridotto, cosa che porterà alla crisi della Quarta Repubblica ed alla nascita della Quinta, con il ritorno di De Gaulle. Sarà tra i paesi promotori del Mercato Comune Europeo, oggi Unione Europea, e durante la Guerra Fredda confermò la sua posizione atlantista. Solo negli anni Sessanta, con De Gaulle, uscirà dalla Nato e cercherà di mantenersi indipendente, sviluppando un proprio arsenale nucleare.

    Ho tentato di rabberciare un piccolo quadro storico della Parigi e della Francia del dopoguerra ma, seguendo le orme di Gian Gaspare Napolitano, voglio andare anch’io a gustarmi un pernod in giro per la Parigi di quegli anni. Tra la gente della rive gauche, tra i rumori del quartiere, les caves di Saint Germain des Près. In quel triangolo magico che va dal Flore ai Deux Magots alla libreria La Hune. Un pellegrinaggio che, con la guida sapiente del mio maestro Ugo Ronfani, ho fatto anch’io tra gli anni Settanta e Ottanta, quando facevo il critico di teatro e portavo i capelli un po’ lunghi.

    Un pernod con gli amici della bande à Sartre o della bande à Prévert doveva essere per forza raccontato. E Gian Gaspare l’ha fatto così bene che meglio non si poteva.

    La vogue di Saint Germain accompagnerà tutta una generazione: vi si incroceranno artisti, da Picasso a Giacometti, intellettuali esistenzialisti, surrealisti, cineasti. Juliette Gréco canterà le poesie di Jacques Prévert (la raccolta Paroles nel 1944 rappresentò un vero e proprio best-seller con la musica di Jacques Cosma) quasi a simboleggiare la fusione fra il milieu letterario che proveniva dalla guerra e la nuova generazione alla ricerca di forme espressive più popolari.

    Questo decennio che seguì alla Liberazione coincise con gli anni di Jean-Paul Sartre. Ma furono anche gli anni che videro la nascita di Critique la rivista diretta da Georges Bataille (1946) e La Table Ronde animata da François Mauriac (1948). La comparsa del gruppo legato al giornale Action (Pierre Courtade, Pierre Hervé, Edgar Morin, Roger Vailland) quelli della Rue Saint Benoit (Margherite Duras, Robert Antelme, Mascolo). L’uscita nelle librerie de La Peste di Albert Camus, dopo il successo de L’Etranger (1942).

    Una ricucitura con la Parigi degli anni Trenta, dopo la dolorosa frattura della guerra. Quella Parigi capitale mondiale di tutte le arti: dall’impressionismo al cubismo, al simbolismo, al surrealismo e alla avanguardie a venire. C’erano stati Paulbot, Utrillo, gli immigrati del Bateau-Lavoir, la vecchia fabbrica di pianoforti che accoglieva artisti squattrinati, i buontemponi del Lapin Agile, i poeti della Closerie des Lilas con i loro abiti a volte stravaganti, le loro feste incredibili, le provocazioni ai ‘borghesi’, le risse e, ancora, la Ruche e l’Ecole de Paris, le cravatte di legno di Vlaminck, i cappelli di Braque, le tute blu di Picasso e di altri spagnoli. Fu il periodo degli esuli politici (nel 1935 erano circa trentamila), degli Americani che ritrovano in Europa la gioia di vivere di cui il probizionismo li ha privati, dei russi che applaudono Diaghilev e i suoi fasti.

    L’ufficio di Gian Gaspare, al solito, era il bancone del bar. Il suo osservatorio privilegiato, il luogo degli appuntamenti e delle conversazioni. I bar di Parigi sono un luogo dell’anima e per dirla con Gide un luogo di loisirs: Les Deux Magots, il Café de Flore, la Brasserie Lipp. Raccontano che al Flore, prima che divenisse luogo di culto da parte degli scrittori e degli artisti, agiva un’orchestra femminile. Furono i prevértiani a rendere famoso il locale che ospitò tra i tanti anche Jean-Paul Sartre, Simone Signoret e il fidanzato Daniel Gélin, con gli assidui Raymond Queneau, Robert Desnos, Paul Eluard, Albert Camus e il regista Jean Vilar.

    A proposito di Sartre, qualche maligno insinua ancora oggi che fu il Flore a creare la notorietà del padre dell’esistenzialismo e non il contrario. Gian Gaspare non è stato un abitueé della Brasserie Lipp. Ma il locale, nato nel 1880 e frequentato da intellettuali e giornalisti a partire dal 1920 con la conduzione di Marcellin Cazes, merita una battuta. Per la sua facciata esterna in legno su due livelli risalente al XIX secolo; per i suoi arredi venuti dopo, le novecentesche maioliche della prima sala che portano la firma del ceramista Lèon Fargue, le sue specchiere alle pareti, i dipinti e i lampadari in ferro battuto.

    Mentre il caffè letterario più antico, apparso nel 1880 in quello che fu un noto negozio di tessuti e biancheria dal quale prenderà il nome, è proprio Les Deux Magots. Tanti personaggi sono passati nelle sue sale: Verlaine, Rimbaud e Malharmé, André Gide, Jean Giraudoux, Pablo Picasso, Fernard Léger, Jacques Prévert, Ernest Hemingway, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Francois Mallet. Joyce vi beveva in disparte e silenzioso il suo caffè. Ma la mappa dei bar parigini è infinita come è infinita la migrazione da uno all’altro: il Bar Vert di rue Jacob, ad esempio, era l’unico luogo di Parigi in cui si serviva il cappuccino ed il fautore di quel rito era stato Jacques Prèvert.

    Fu dopo la Liberazione di Parigi che aprirono altri locali, chiamati caves. Il più famoso è Tabou di rue Dauphine, un ‘bistrot’ con la scritta in lettere gialle sulla facciata che, con il passa parola, già nel 1946 è un posto alla moda. Cultura e mondanità fanno ressa per entrare e ascoltare del buon jazz suonato da musicisti di colore venuti dall’America, per vedere la coppia Juliette Gréco e Anna Marie Cazalis assediata dai paparazzi. Poi, al numero 13 di rue Saint Benoit aprì i battenti il Club Saint-Germain-des- Prés con il suo bar-libreria, riconoscibile dalla testa di cavallo in cartapesta e una donna barbuta come insegna. È l’epopea degli zazous e dei loro ‘surprise-parties’. Si balla il ‘jitterburg’ e il ‘boogie-woogie’; si copia il trucco lunare di Juliette Gréco e il vestirsi diventa qualcosa d’impossibile. Trionfano i maglioni neri. Un’epopea raccontataci poi dal vulcanico Boris Vian, precocemente morto a soli 39 anni nel 1959.

    Anche Gian Gaspare Napolitano se n’è andato troppo presto. A soli 59 anni, il 5 gennaio 1966. Ci restano le sue cronache che noi affidiamo alla vostra lettura.

    Napolitano – ebbe a scrivere Giovannino Russo – è stato un grande inviato del Corriere della Sera che viaggiava in tutto il mondo quando, fino alla metà degli anni Cinquanta, non c’era la televisione né si viaggiava facilmente. Insieme con pochi altri come Virgilio Lilli, Paolo Monelli, Luigi Barzini junior era, nello stesso tempo, testimone di paesi ignoti e spesso misteriosi e protagonista di avventure giornalistiche che non sono state più possibili dopo l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa. Mario Pannunzio, il direttore de Il Mondo, considerava Napolitano non solo uno dei maggiori giornalisti, ma anche uno dei più significativi scrittori del tempo. La novità di fronte ad altri scrittori degli anni Cinquanta sta nella sua capacità di lasciare un’impronta nell’animo del lettore.

    Gian Gaspare Napolitano

    Luigi Barzini jr*

    Gian Gaspare Napolitano era molto bello da giovane. Era alto, sottile, diritto come un ufficiale della guardia, con i capelli ricci un poco in disordine, la bocca che pareva disegnata da uno scultore barocco, gli occhi piccoli ma scintillanti del colore azzurro chiaro di certe acque di mare trasparenti sopra ciottoli bianchi.

    Era bello ed anche, dopo aver ottenuto i primi successi concreti, elegante, come erano eleganti a quel tempo certi giovani attori noti, i buoni romanzieri mondani, e i figli di nobili famiglie meridionali che perdevano le serate nel bar dei grandi alberghi romani. Gian Gaspare era però sempre un poco trasandato, come se non avesse attribuito importanza al vestito di taglio impeccabile, alla camicia rara, alla cravatta sopraffina, al cappelluccio basso e tondo come una forma di pecorino. Ricordava allora, pur senza somigliargli affatto, Lord Byron, anche egli riccioluto, fiero, poetico, amato dalle donne, e irrequieto, anche lui pronto a partire per paesi lontani e rischiare la pelle. Ma Gian Gaspare non aveva nulla di tenebroso, infelice, vizioso, o ambiguo. Rideva (come ha riso fino all’ultima volta che l’ho visto, qualche tempo prima della morte) con grandi oneste risate che gli venivano su dal ventre e lo scuotevano tutto, risate contagiose che mettevano allegria ai più melanconici e che lo lasciavano talvolta trafelato, come dopo una corsa, con gli occhi inumiditi di lacrime. Non c’era in verità nulla di torbido in lui.

    Noialtri, i suoi colleghi coetanei, che cominciavamo la carriera pressappoco in quegli anni, lo si guardava con una certa invidia, non tanto perché fosse bello ed elegante, ma perché era già arrivato a farsi considerare qualcosa di più di un buon giornalista. Giovanissimo, era riuscito a fare alcune delle cose difficili (e forse irraggiungibili) a cui noi si sognava di poter arrivare un giorno, quando avessimo avuto il tempo, l’esperienza, e la tenacia.

    Aveva debuttato da ragazzo nel teatro di A. G. Bragaglia in via degli Avignonesi con una commedia audace e poetica, Il venditore di fumo, dove i simboli affioravano quasi afferrabili come fogli in uno stagno. Più tardi aveva inventato, scritto e aiutato a realizzare un film famoso, Passaporto rosso, sugli immigrati italiani in Canada; scriveva racconti, quasi che la fatica di scrivere tutti quegli articoli non lo svuotasse, racconti talvolta lunghi come romanzi brevi. Anche nei servizi di viaggio era chiara la vena del narratore, che gli permetteva di descrivere panorami, disegnare ritratti in poche righe, e dare a ogni pezzo una invisibile tensione drammatica. Gian Gaspare conosceva tutti a Roma ed era accolto come

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