Imparziali ma non indifferenti: Il giornalismo di Redattore Sociale, agenzia di stampa quotidiana
By Pina Lalli
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Imparziali ma non indifferenti - Pina Lalli
best practices
collana di studi
a cura di
Pina Lalli
Graziella Giovannini
Imparziali ma non indifferenti
Il giornalismo di Redattore Sociale, agenzia di stampa quotidiana
a cura di Pina Lalli
Indice
Parte prima: introduzione
1. L’informazione specializzata: il caso di Redattore Sociale . Battaglie militanti o strategie di conquista dell’attenzione pubblica?, di Pina Lalli
2. Una fonte scomoda per il giornalismo italiano, di Mauro Sarti
Parte seconda: la ricerca
1. Temi, metodi e obiettivi della ricerca
2. Voci di redazione, di Barbara Raffaeli
3. Le regole del giornalismo: notiziabilità, generi di notizia e routines produttive, di Elisa Soncini
4. Redattore Sociale vs. Ansa: notizie a confronto, di Lorenzo Sarti
5. Copertura, articolazioni produttive e rapporto con le fonti, di Lorenzo Sarti
Conclusioni. Percorsi di costruzione della notizia sociale
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
APPENDICI
ILe caratteristiche del sito, di Elisa Soncini
II Giornalisti e collaboratori: cenni biografici, a cura di Barbara Raffaeli
III "Agenzia Redattore sociale . Questi primi mesi", intervento deregistrato di Stefano Trasatti
IV Comunicato stampa per il I anno di vita dell’agenzia Redattore Sociale
PARTE PRIMA
INTRODUZIONE
1. L’informazione specializzata: il caso di Redattore Sociale
Battaglie di militanza civile o strategie di conquista dell’attenzione pubblica?
di PINA LALLI
De tant d’histoires auxquelles nous participons, avec ou sans intérêt, la recherche fragmentaire d’un nouveau mode de vie reste le seul côté passionnant.¹
(Guy Ernest Debord, 1955)
La ricerca che qui presentiamo² s’interroga su uno degli aspetti oggi presenti nelle arene pubbliche di informazione. Alcuni mutamenti in atto non lasciano ancora individuare con chiarezza i possibili sviluppi futuri. Basti pensare all’ingresso massiccio di nuove figure nel campo dell’informazione e della comunicazione: i comunicatori pubblici, i comunicatori sociali, gli addetti stampa dei vari uffici governativi nazionali e locali, i consulenti d’immagine
o di comunicazione scelti da politici e amministratori. Possiamo senz’altro affermare che, tendenzialmente, non esistono più soltanto aree d’informazione che costituiscano un supposto sistema dei media
a sé stante e gestito da una medesima comunità professionale specializzata. Il monopolio dell’informazione e della formazione della sfera pubblica potrebbe non essere più garantito unicamente dai mass media tradizionali.
La metafora postale
o telegrafica
della comunicazione³ potrebbe manifestare in modo esplicito tutti i suoi limiti e le sue incongruenze. Il mero trasporto
o invio di messaggi basta davvero ad esaurire l’ampio processo in cui significati e problemi sociali diversi si susseguono e s’intersecano in molteplici arene di dibattito pubblico quotidiano?
Sorgono inoltre nuovi luoghi di discussione e conversazione, sia sul versante propriamente mass-mediatico (il cosiddetto infotainment, ad esempio), sia nelle istituzioni pubbliche o in altre agenzie sociali che da anni dedicano uno spazio speciale alla comunicazione (col cittadino, con i media, con l’utenza
, con gli sponsor potenziali di questa o quell’iniziativa sociale, e così via). Comincia ad emergere l’idea che – rispetto ad esempio all’ormai classica analisi di Habermas (ed. or. 1962) – esistano oggi spazi pubblici plurali, anche se parziali, se non addirittura parcellizzati. Affiora anche qualche confusione concettuale: quale rapporto esiste fra alcune critiche alla cultura di massa
e la sua troppo facile identificazione con una sfera pubblica ridotta ad opinione pubblica
costruita da sondaggisti e media insieme (cfr. Champagne 1990)? Se ci si basa sul consueto (e individualistico) presupposto che, in un "vero spazio pubblico democratico ogni individuo è, per così dire,
tenuto" a costruirsi una propria opinione argomentata su base razionale, si finisce per dimenticare che, specie in una società complessa, le persone non vivono in modo isolato. Esse non solo fanno parte di gruppi diversi, ma possono attraversarli, combinarli e riconfigurarli diversamente nei vari momenti del ciclo di vita o d’esperienza sociale.
Il suggerimento analitico che ci dava Habermas conteneva, forse, qualcosa di più pregnante e profondo e che molto si addice alle trasformazioni televisive dei decenni successivi: l’avvento della grande stampa di larga diffusione, col suo uso consumistico
di notizie di cronaca, di costume, di sport ecc., le aveva fatto perdere il ruolo di mediazione razionale
che l’élite colta metteva a disposizione dello spazio pubblico collettivo. Il giornalismo intellettuale d’opinione cedeva il passo alle esigenze dei numeri di vendita e delegava gran parte del ruolo di filtro ad agenzie specializzate nella caccia di notizie, o all’inviato di punta, al quale però si chiedeva il racconto di storie accattivanti e coinvolgenti, più che un contributo alla costruzione di questioni e problemi sociali. La notizia
– suggeriva Habermas – diventava in primo luogo merce da vendere: informazione da trasmettere
, un pacchetto postale da incartare in modo accattivante per attirare il lettore-consumatore, dismettendo il ruolo di riflessione, di accesso pubblico ad un dibattito comune su questioni che riguardassero la collettività o sue importanti minoranze. I mezzi di comunicazione diventano così il semplice tramite di una cultura volta a "trasmettersi" ad una grande massa di consumatori.
L’invasione di un’istanza di mera commercializzazione della dimensione pubblica è dunque, per Habermas, il nocciolo del problema: per la notorietà di un giornale, un editore abile nel marketing diventa più importante di un bravo giornalista; al redattore si chiede di servire gli interessi del giornale in quanto azienda privata rivolta al profitto, e di conformare a questo il suo lavoro e le sue competenze (cfr. Habermas 1984, 197 ss.). Tutto ciò Habermas lo intravedeva in nuce già nelle trasformazioni tecnologiche della stampa di fine XIX secolo, quando ancora, forse, il peso degli interessi degli inserzionisti, le trappole dei contratti, la forza delle multinazionali, dei grandi gruppi editoriali o delle lobbies politico-economiche, nonché lo sfruttamento massiccio (e quindi la ricattabilità) di un vero e proprio esercito di sottoproletariato giornalistico malpagato e precario erano ancora agli albori del loro rigoglio attuale.
Come ebbero a notare negli anni ‘40 Horkheimer e Adorno, la mercificazione dei media e della «pubblicità» fa dismettere loro il ruolo sociale che ci si attendeva fosse prevalente: orientare il consumatore per facilitarne la scelta, agevolando l’accesso informativo in un mondo concorrenziale abitato da fornitori lontani e «sconosciuti». Essa tende, invece, a far assumere loro un ruolo di controllo o dominio sistematico che mantenga ben saldo «il vincolo che lega i consumatori alle grandi ditte» (Horkheimer e Adorno 1966, 174).
In sostanza, dunque, Habermas e la Scuola di Francoforte allertano l’attenzione sui rischi, per la costruzione dello spazio pubblico, del cambiamento di ruolo della «stampa d’opinione»: da strumento emancipatore essa si trasforma in medium mercificato, soggetto agli interessi privati del profitto. Lo spazio diventa quindi falsamente pubblico
, nel senso che – non più orientato alle dimensioni collettive delle questioni sociali – rimane pubblico solo in un’accezione postale
o telegrafica
di trasmissione (confezionata) delle informazioni. Potremmo quasi dire, essa rinuncia al ruolo di costruzione critica dei significati, per immaginare di dover prevalentemente raccontare fatti
che attirino pubblico e consumatori; così, rischia di dimenticare che tali significati comunque esistono, quant’anche semplificati nella forma di una merce destinata a standardizzarsi ed omologarsi. Una trasformazione, accelerata poi – ci dicono altri studi successivi – dai nuovi mezzi radiofonici e audiovisivi, fino all’introduzione ludica dell’ibridazione dei generi televisivi e quindi dell’infotainment. Lo stesso Habermas, trent’anni dopo, in una nuova introduzione al libro sull’opinione pubblica, nota più recenti forme di organizzazione, distribuzione e consumo della cultura: ulteriori specialismi, da un lato, hanno adattato i prodotti a nuove categorie di consumatori; dall’altro, hanno contribuito ad un intreccio sempre maggiore fra «distrazione» e «informazione», mostrando un parallelo declino di spazi pubblici locali, legati a forme associative militanti
.
Ora, secondo alcuni (cfr. ad es. La Haye 1984; Miège 1997) si annuncia oggi un’altra trasformazione, legata appunto all’ingresso di nuovi soggetti del mondo della comunicazione, e in particolare di quella politica e sociale. Una trasformazione che può incamminarsi verso strade diverse:
a) L’uso, da parte di agenzie istituzionali e sociali, di tecnologie e tattiche comunicative più o meno sofisticate può preludere ad un controllo generalizzato delle relazioni pubbliche , rivolto soprattutto all’adesione e al consenso su temi condivisi.
b) La presenza di nuovi soggetti istituzionali e sociali può rimodellare gli stessi media di comunicazione di massa, che verrebbero a perdere il monopolio d’informazione e rapporto con i cittadini-consumatori
. La rapidità con cui nuovi dispositivi tecnici sono utilizzati da questo o quel soggetto pubblico/sociale potrebbe però anche suscitare nuove forme di concorrenza e saturazione, finendo per modificare la composizione delle diverse arene pubbliche e per mobilitare ulteriori interessi economici privati o, viceversa, pubblici.
c) L’esistenza di soggetti comunicatori più vicini
a questo o quell’ambito tematico o territoriale potrebbe implicare il rafforzamento empirico di una dimensione rituale
della comunicazione. Rinunciando ad esauririsi in una funzione trasmissiva, essa potrebbe ricollocare al primo posto istanze chiare di legittimazione e rilevanza delle fonti, proprio perché basate sulla maggiore vicinanza
, invece che su mitici attraversamenti spaziali da ambiti e ambienti remoti
(cioè non controllabili sulla base dell’esperienza).
Tali nuovi soggetti comportano anche una trasformazione economica
del mercato comunicativo e massmediatico: essi mettono in campo e forniscono ai media risorse economiche non indifferenti, pagano
le loro campagne informative, e possono esercitare forme di pressione culturale e ideologica, contribuendo a mutare quadri normativi e formativi. Si creano anzi nuove professionalità
, in parte distinte e in parte sovrapposte a quelle tipiche del mondo giornalistico: addetti stampa, consulenti specializzati per il ruolo di portavoce o di rapporto con i media, operatori svariati nell’ambito del marketing sociale, pubblico, sanitario, o cosiddetti comunicatori
tout court.
Tutto questo può restare una delle varie forme di pubblicità
mercantile, come la definivano gli esponenti prima citati della Scuola di Francoforte. Oppure modificare il quadro degli spazi pubblici e riproporre in modo qualificante il tema dell’ opinione
rispetto all’ "audience, oggi considerata in termini solo quantitativi e consumistici. La commercializzazione di tali forme di pubblicità delle informazioni non può legarsi indiscriminatamente agli interessi privati, poiché s’ispira a modelli di rappresentanza diversi e più
vicini rispetto a quelli sinora sperimentati. Infatti, in questo tipo di comunicazione o d’informazione, chi propone il
messaggio ricopre un diverso ruolo di rappresentanza; rappresenta un’istituzione pubblica, un ente locale, un singolo amministratore, un’organizzazione di volontariato, un’associazione sorta intorno ad una tematica di rivendicazione, un comitato locale più o meno estemporaneo, una fondazione culturale… E comunque non più un generico
cittadino-massa o
cittadino-medio, che aspetta solo di essere accattivato e catturato al consumo
facile di questo o quel giornale, di questa o quella trasmissione radiofonica o televisiva, di questo o quel sito web. Su quali basi si fonderà la consapevolezza e la
mission comunicativa e culturale di questa nuova, ibrida e per ora eterogenea
comunità professionale"?
Certo hanno anch’essi il compito di catturare l’attenzione
(pubblica), di scendere nell’arena competitiva dei diversi spazi pubblici per persuadere, farsi ascoltare, fornire informazione che assuma rilevanza per i soggetti coinvolti; suscitare consensi, adesioni. E di fronte alla pluralità delle informazioni oggi disponibili, se si parte, come fanno Hilgartner e Bosk (1988), dal presupposto che l’attenzione sia una risorsa scarsa, oltre che dall’ipotesi che siano i mass media d’intrattenimento a risultare vincenti, le tecniche
e le strategie di selezione e presentazione delle proprie istanze vanno studiate e cercate con cura. Tuttavia, l’adesione di cui questo tipo di comunicazione e informazione ha bisogno non può essere solo routinaria o ludico-consumistica, perché ha intrinsecamente bisogno di riflessività e normatività (cfr. ad es. Giddens 1991). Salvo limitarsi ad una mera attività emozional-saltuaria: di "fund-raising" nel caso di campagne sociali (correndo il rischio di incappare nel surplus di compassione o nella saturazione casuale delle elargizioni possibili); o di mera ostentazione di immagine nel caso delle istituzioni pubbliche (col rischio di rilanciare aspettative destinate ad essere frustrate o di mostrare vieppiù le incongruenze dei sistemi pubblici di servizio alla collettività).
Se il contributo alla pubblicità delle questioni sociali, pubbliche e collettive vuole tendere a rivolgersi a cittadini
più che a consumatori, se vuole mirare a diffondere opinioni
e dibattiti
, atteggiamenti e comportamenti sociali e personali, in termini ad esempio di prevenzione, di sensibilizzazione e ricostruzione di questo o quel fenomeno sociale, il marketing di prodotto
non sarà sicuramente sufficiente. Tanto più che l’attenzione da catturare non riguarda la scelta puntiforme legata ad un singolo momento di consumo, bensì l’orientamento di un’azione e di un flusso di azioni spesso collettive. Emerge, probabilmente, come prima accennavamo, la necessità di una forma di comunicazione più vicina al rituale
(cfr. Carey 1985) che non al pacchetto postale da spedire: azione per la quale basterebbe recarsi nell’ufficio postale più conveniente (ad es. l’agenzia pubblicitaria
specializzata), badare a scrivere bene l’indirizzo (il target
), ben predisporre il cartone o il cartoncino di presentazione (l’immagine
e il testo accattivante
).
Per incidere davvero nella rete di azioni collettive di gruppi e individui fra loro collegati – i soli che rendano sostanziale qualunque sfera pubblica di discussione attiva – non basta più il mito di una comunicazione efficace nel trasmettere segnali a distanza (il proiettile magico
), a fini