Formazione europea per i docenti di scuola primaria: Scambio italo-britannico
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Formazione europea per i docenti di scuola primaria - Benedetta Toni
Toni
PRIMA PARTE
MODELLI DI FORMAZIONE SULLE LINGUE STRANIERE
GIANCARLO CERINI
Formarsi per insegnare lingua inglese nella scuola primaria
Un po’ di storia
La presenza delle lingue straniere nella scuola elementare fu prevista per la prima volta nei programmi didattici approvati con D.P.R. 12-21985, n. 104. L’insegnamento ha poi preso quota anche grazie ad interventi di carattere normativo (come il D.M. 28-6-1991 contenente orientamenti applicativi dei programmi) e la messa a disposizione delle scuole di insegnanti specialisti o comunque specializzati. Nei programmi del 1985 l’insegnamento della lingua straniera assume un carattere prettamente formativo, in stretta connessione con l’educazione linguistica ed alla comunicazione. Essa è parte integrante del più ampio processo di alfabetizzazione culturale (è evidente il richiamo al pensiero di Bruner), tale che appare non determinante la stessa scelta della lingua straniera da insegnare.
Questa fu una felice intuizione degli ormai ‘mitici’ programmi del 1985, che inserirono nel curricolo ‘obbligatorio’ della scuola primaria l’insegnamento di una lingua comunitaria (inglese, francese, tedesco o spagnolo). Partendo quasi dal nulla o poco più: qualche insegnamento speciale di nicchia (nato nel seno della legge 820/1971 sul tempo pieno), qualche progetto pilota (come l’ILLSE), qualche sporadica iniziativa dei Comuni più illuminati. Addirittura, il curricolo degli istituti magistrali prevedeva un ridotto ed incompleto insegnamento ‘letterario’ delle lingue straniere per i futuri maestri elementari. In vent’anni l’impegno è stato massiccio.
L’insegnamento delle lingue straniere – attraverso misure amministrative e finanziarie – si è progressivamente esteso a tutte le classi (in particolare le terze, quarte, quinte elementari), usufruendo di un pacchetto consistente di ore settimanali (in genere tre, aggiuntive al normale curricolo comune), affidato ad insegnanti elementari formati e reclutati ad hoc (i cosiddetti specialisti) oppure ai docenti di classe ‘specializzati’ attraverso apposite attività di formazione.
Una forte pressione sociale verso la lingua inglese ha poi condizionato i modelli organizzativi e didattici adottati dalle scuole primarie. Si può dire che la bussola è rimasta l’apprendimento della lingua straniera attraverso il suo uso come strumento di comprensione e comunicazione. Si sono sviluppati anche azioni di sostegno formativo ai docenti, produzione di materiali didattici appositi e di libri di testo, realizzazione di progetti sperimentali nell’ambito dell’autonomia (Lingue 2000).
L’insegnamento si è specializzato, ma forse si è perso qualche valore in rapporto al più ampio concetto di educazione linguistica. Il meccanismo di composizione degli orari (le tre ore settimanali affidate spesso ad altri docenti, esterni al team) ha contribuito a quell’effetto di secondarizzazione e di frammentazione del progetto educativo che non era stato certamente messo in conto dagli estensori dei programmi del 1985.
L’unitarietà degli insegnamenti
La prospettiva di affidare l’insegnamento della lingua straniera ad un docente di classe, che è stata rilanciata nelle recenti leggi finanziarie (quindi in una ottica di contenimento della spesa pubblica) è certamente coerente con l’idea di team docente, cioè di un insegnamento specifico comunque curato dall’equipe docente, tenuta a farsi carico in maniera unitaria di tutti gli insegnamenti rivolti ad una classe o ad un raggruppamento di classi (organizzate a modulo).
Nella scuola elementare, il pregio del team è stato proprio quello di salvaguardare la specificità degli apporti disciplinari e delle relative competenze dei docenti (ivi compresa la lingua straniera), con la pari esigenza di assicurare l’unitarietà dell’insegnamento, cioè di ricondurre ad unità pedagogica la molteplicità degli interventi di più docenti. Viceversa, la moltiplicazione di figure specialistiche, proprio per facilitare l’estensione della lingua straniera, ma anche per il sostegno agli alunni disabili, per l’insegnamento della religione cattolica, a volte per altri progetti, si è rivelato il ‘germe’ che ha finito con il mettere in crisi il team docente. Se oltre alla pluralità dei docenti di ambito (3 per classe) è necessario aggiungere altri specialisti (3 o 4 su diverse discipline) – si è polemizzato – quale mai idea di ambiente educativo di apprendimento sarà possibile garantire ai piccoli allievi?
Oggi, inoltre, occorre ricollocare l’insegnamento delle lingue comunitarie all’interno delle nuove Indicazioni per il curricolo (D.M. 31-7-2007) nelle quali si recupera una forte attenzione alle competenze alfabetiche di base e l’apprendimento di una lingua straniera è ricondotto all’idea di una competenze plurilingue, tenendo conto del variegato ambiente linguistico (dialetti, lingua italiana, lingue comunitarie, lingue extracomunitarie) che si riscontra ormai nelle nostre classi. Un più significativo legame tra lingua 1 e lingua 2 sembra essere la motivazione che ha portato il legislatore a riscoprire il concetto di ‘area linguistico-artistica-espressiva’. Come si può notare sono notevoli i richiami all’impostazione originaria che era stata data all’insegnamento delle lingue nell’ormai lontano 1985. Anche se oggi in primo piano sta il dialogo tra i saperi, di cui si parla nella premessa delle Indicazioni, sempre più necessario all’acquisizione di una cittadinanza non solo nazionale, ma europea e, addirittura, planetaria. La padronanza di più lingue sembra diventare indispensabile per colmare il divario tra dimensioni ‘globale’ e ‘locale’ che caratterizza la società contemporanea.
Specialisti o generalisti?
Queste considerazioni ‘pedagogiche’ possono aiutare a capire la scelta di affidare ai docenti di classe (i c.d. ‘generalisti’) l’insegnamento della lingua straniera. Assegnare l’insegnamento di lingua 2 ai docenti del team non è un processo semplice e scontato. Non si tratta solo di mettere in conto un atteggiamento di pregiudiziale ostilità sindacale dovuta a comprensibili ragioni di occupazione, ma di ripensare al senso vero di questo insegnamento nella scuola primaria (precoce abilitazione alla lingua straniera o costruzione di un atteggiamento di disponibilità alla comunicazione plurilingue?) e soprattutto di considerare le condizioni professionali per un efficace e produttivo insegnamento.
Lo specialista assicura, non in tutti i casi, una migliore competenza linguistico-comunicativa; il ‘generalista’ (definito nella normativa ‘specializzato’) un miglior raccordo con le didattiche di classe. Entrambi richiedono un rigoroso profilo di formazione, con tempi assai più distesi di quelli immaginati dal piano nazionale varato dal Ministero della Pubblica istruzione nel 2005 (a seguito della legge finanziaria, intenzionata a riassorbire l’organico degli specialisti).
La formazione degli insegnanti elementari dovrebbe essere più prolungata nel tempo (un solo biennio di durata appare fortemente compresso nel caso di percorsi che si avvicinano alle 400 ore), dovrebbe puntare a standard più rigorosi (la soglia B1 è appena sufficiente), ed essere accompagnata da un’efficace assistenza sul piano metodologico-didattico (la formula ‘on line’ curata dall’INDIRE rivela parecchi limiti), capace di rinnovare l’insieme degli insegnamenti linguistici.
La formazione potrà avere successo se sarà percepita dai docenti come opportunità di elevazione professionale (conoscere e praticare una lingua attesta comunque un più elevato profilo culturale della docenza) e di miglioramento delle pratiche didattiche (per lavorare meglio ed in modo meno frettoloso e frammentato). Occorre poi stabilire degli incentivi consistenti a chi si impegna in questi percorsi.
Inoltre, è indispensabile non disperdere il patrimonio accumulato in quasi vent’anni grazie all’impegno di tanti docenti specialisti. La loro esperienza non può essere considerata ad esaurimento. È necessario salvaguardare buone competenze presenti nella scuola elementare, evitare un fenomeno di fuga verso altre collocazioni professionali (ad esempio, nella scuola secondaria). Per trattenere tali docenti sarebbe utile consolidare la presenza presso ogni istituto scolastico (direzione didattica o istituto comprensivo) di almeno una figura di docente (lo specialista, appunto) capace di essere un presidio per la diffusione di buone pratiche di insegnamento, cui affidare la conduzione e la responsabilità del laboratorio linguistico, il coordinamento del relativo dipartimento disciplinare di lingua straniera, la formazione ricorrente dei colleghi impegnati nell’insegnamento della lingua, la preparazione di materiali didattici ad hoc, il raccordo delle programmazioni didattiche e la cura di un sistema interno-esterno di valutazione-certificazione. Il costo di questa operazione dovrebbe essere considerato un investimento indispensabile per il nostro paese, non certo una spesa superflua.
Lo stato di salute dell’insegnamento (nella scuola primaria)
La scuola elementare si è impegnata a fondo nella sfida dell’insegnamento delle lingue, con proprie risorse umane, elaborando una propria didattica, investendo nei corsi di formazione per i propri insegnanti (dalla prima alfabetizzazione alle attività di perfezionamento o sviluppo linguistico). Si è consolidata anche una ricca prassi di scambi internazionali, sia per insegnanti e – soprattutto – per classi e alunni, attraverso progetti finanziati dagli organismi europei (Comenius, ecc.). La scuola elementare italiana, anche per questa via, si è rinnovata, si è aperta ad un orizzonte più ampio, ha cominciato a gettare le basi di una effettiva cittadinanza europea. Quando nelle indagini si scopre che i cittadini italiani esprimono una delle più forti vocazioni europeistiche, forse occorre ritornare anche all’umile e pionieristico contributo della scuola primaria.
Certo, sarebbero necessari dati più probanti sull’efficacia di tale insegnamento, con qualche riscontro sui livelli di effettivo apprendimento delle lingue straniere, perché potremmo magari scoprire che allo sforzo imponente non ha corrisposto un eguale risultato in termini di produttività culturale (di competenze morfo-lessicali, di padronanza delle strutture sintattiche, di fluidità d’uso, di consapevolezza culturale). Ma, come sappiamo, quello degli standard di apprendimento è uno dei punti dolenti del nostro sistema scolastico, non solo per la lingua straniera. Anzi, la cultura degli standard, la pratica della verifica, la disponibilità di repertori e quadri di riferimento rispetto ai quali commisurare (e certificare) le competenze via via acquisite, ha cominciato a diffondersi proprio a partire dalle pratiche didattiche connesse all’insegnamento delle lingue comunitarie.
Resta da compiere, comunque, un bilancio critico e spassionato sulla ricaduta dell’insegnamento generalizzato della lingua straniera (potremmo ormai dire dell’inglese) nella scuola primaria. Ad esempio, qual è il quadro delle competenze che gli allievi dimostrano in ingresso alla scuola media? Quali gli esiti a lungo termine dell’insegnamento? Quale la propensione all’uso della lingua straniera nella comunicazione, negli scambi, nella fruizione di letture, di spettacoli, di eventi multimediali? Come si vede, molto dipende dalla scuola, dai suoi metodi, dalla capacità di coinvolgimento attivo degli allievi nell’apprendimento, ma il consolidamento della competenza iniziale si lega soprattutto alle pratiche sociali di uso reale della lingua appresa (e quindi alla disponibilità di opportunità informali e non formali che affianchino l’esperienza curricolare).
Modelli di formazione
La formazione dei docenti, iniziale ed in servizio, è un elemento decisivo per qualificare l’insegnamento delle lingue comunitarie nella scuola primaria. Esiste una tradizione di corsi di formazione che hanno coinvolto negli ultimi vent’anni migliaia di insegnanti elementari. Recentemente, a partire dal 2005, è stata rilanciata una intensa attività di formazione che coinvolge circa 20.000 docenti elementari in moduli formativi di durata variabile, in base ai livelli iniziali di competenza posseduta (ed accertata).
Vediamo quali sono gli aspetti innovativi dell’attuale piano di formazione sulla lingua inglese:
- intanto, si indica un obiettivo ‘visibile’ da conseguire al termine del percorso formativo, individuato nel livello B1 del quadro europeo di riferimento. È pur vero che si tratta di un livello soglia, quasi un ‘minimo vitale’ per la vita quotidiana in un paese straniero, ma rappresenta una possibile base di sicurezza su cui innestare un ulteriore processo di miglioramento e incremento delle competenze linguistiche;
- il percorso formativo si personalizza, in quanto il punto di partenza può essere assai diverso, sulla base di una ricognizione ‘strutturata’ delle competenze di ingresso. Anche la durata della formazione può oscillare da un minimo di ore (per frequentare il modulo metodologico-didattico) o distendersi fino al massimo di 380 ore (tempo stimato per spostarsi da un livello zero al livello B1);
- il tempo della formazione diventa una variabile ‘dipendente’, funzionale al conseguimento di una certificazione di competenze, parametrata sugli standard del quadro europeo. Il legame con il sistema universitario ed i loro centri linguistici (cui si è chiesto, in base ad un protocollo ministeriale di rilasciare le certificazioni) è un’ulteriore garanzia di qualità delle attestazioni che racchiudono una verifica di competenze (e non solo del tempo passato in formazione).
Questi elementi, di per sé, qualificano il modello formativo e rappresentano un netto superamento della tendenza dei normali corsi di aggiornamento, caratterizzati da percorsi brevi, con obiettivi scarsamente precisati, senza verifica finale. Sotto il profilo metodologico i corsi si innestano sulle tradizioni consolidate in materia:
- netta prevalenza delle attività in presenza, attraverso la costruzione di un ambiente fortemente empatico, comunicativo, di interazione ravvicinata con un formatore ‘amico autorevole’ (meglio se di madre lingua o comunque di elevato profilo linguistico, con parallele competenze relazionali e di gestione della formazione per adulti);
- fornitura di un ambiente di apprendimento blended, cioè integrato on site e on line (ma con un pacchetto ridotto di ore in rete, significative, ma di completamento del percorso che resta full immersion);
- centratura sulle competenze linguistico-comunicative rispetto a quelle glotto-didattiche (nel rapporto 1 a 10), nella convinzione che l’insegnamento richiede un indispensabile livello di competenza.
Le attività, tuttavia, non sono sempre soddisfacenti. Alcune criticità dovranno essere attentamente valutate:
- difficoltà a coinvolgere il sistema universitario ed i centri linguistici in termini di ‘progettazione partecipata’ della formazione;
- tasso di abbandono dei corsisti che sembra oscillare attorno al 20 % dei partecipanti iscritti;
- mancato superamento delle prove finali e mancato conseguimento della certificazione.
Certamente pesa su questi fenomeni lo scarso rilievo (in termini di incentivi, riconoscimenti) che la formazione in servizio ha nella carriera di un docente, per cui la spinta motivazionale può affievolirsi. Ancora, l’età