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Religioni e culti nella Roma antica
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Religioni e culti nella Roma antica

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La grande eredità che Roma ci ha lasciato si è strutturata, considerando anche il periodo bizantino, in un lasso di tempo di oltre duemila anni. Il suo enorme patrimonio culturale è ancora oggi un faro di civiltà posto in essere da un popolo eclettico che seppe assorbire e mettere a frutto tutte le qualità dei popoli con cui ebbe modo di confrontarsi. Analizzando gran parte degli aspetti che la caratterizzarono abbiamo colto un anelito di grandezza e forse un desiderio di trasmettere a noi posteri dei messaggi capaci di farci riflettere sulle molteplici possibilità dell’animo umano.
LanguageItaliano
Release dateJan 22, 2014
ISBN9788898275113
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    Religioni e culti nella Roma antica - Roberto Pierpaoli

    L'autore

    INTRODUZIONE

    Mentre in Egitto, in Mesopotamia, nell'Estremo Oriente e nelle Americhe fiorivano grandi civiltà, gli abitanti della penisola italiana erano ancora ad un livello preistorico; vivevano per lo più in caverne e facevano uso di armi e di utensili in pietra. Mentre gli Achei assalivano Creta distruggendo i favolosi palazzi di Cnosso e di Festo, nella pianura Padana cominciavano ad apparire timidamente i primi villaggi su palafitta. Nulla di certo si conosce sull'origine degli aborigeni italici; ciò che appare evidente è che essi giunsero ad ondate successive e durante un lunghissimo lasso di tempo.

    Anche l'età dei metalli in Italia iniziò più tardi che altrove. L'età del bronzo iniziò soltanto tra il 1800 e il 1500 a.C. e quella del ferro intorno all'anno 1000. Molte migrazioni, quasi tutte di origine indoeuropea, arrivarono nella penisola prevalentemente dal Nord e si spinsero gradualmente verso Sud fino ai margini della pianura padana. In questi luoghi paludosi cominciarono ad apparire i primi villaggi su palafitta, edificati piantando pali presso le rive di fiumi o di laghi o su pezzi di terreno circondato da fossi artificiali: le terramare. In contrasto con gli abitanti più antichi della stessa zona che inumavano i cadaveri queste popolazioni praticavano invece la cremazione e raccoglievano le ceneri in apposite urne cinerarie che poi seppellivano. Un tipico esempio di tale usanza possiamo rintracciarlo nella cultura protoetrusca del villanoviano.

    Sembra accertato che ogni nuovo gruppo di invasori costringesse la popolazione già stanziata sul territorio a ripiegare in una zona più meridionale. Tale situazione continuò finché tra questi popoli ne sorse uno talmente forte da arrestare per molti secoli a venire queste continue correnti migratorie. Questo popolo, che nel frattempo si era strutturato, era quello romano.

    In epoca storica le popolazioni italiche nella penisola erano così distribuite: nel Settentrione vi erano i Liguri e i Veneti, nel centro gli Etruschi e le tribù umbre dei Piceni, Sabini, Volsci, Peligni, Equi, ed infine i Latini che abitavano nella pianura fra il basso Tevere e i monti Albani ed erano destinati a divenire il gruppo più compatto e vigoroso. Nel Sud vi erano i Pencezi, i Dauni e i Messapi di origine greca (Puglia), gli Osci, i Sanniti, i Campani, i Lucani, i Bruzzi (Calabria), i Siculi (Sicilia) e i Liguri in Sardegna e Corsica. Nel Sud apparvero anche Fenici, Greci ed Etruschi. Un'ultima grande ondata che giunse nel VI secolo a.C. dalle Alpi Occidentali fu un'altra invasione di Celti (chiamati Galli dai Romani). Questi erano molto combattivi e conquistarono ben presto tutto il territorio della valle del Po travolgendo i Liguri dell'Ovest, respingendo gli Etruschi verso Sud ed assalendo infine anche gli Umbri. Di queste bande le principali furono quelle degli Insubri, dei Cenomani e dei Boi. Gli ultimi a spingersi verso Sud furono i Senoni (520 a.C.) che occuparono le coste dell'adriatico dal Rubicone all'Esìno dove fondarono la città di Sena, dai Romani chiamata poi Sena Gallica (Senigallia) e di Sentino (Sassoferrato). Con Essi si chiude il grande capitolo delle immigrazioni dei popoli nordici nell'era antica. Il motivo di questo arresto che durò per molti secoli fu il sorgere della potenza romana.

    Alcuni nomi che in periodi molto antichi caratterizzarono specifiche zone italiche furono: Saturnia, Esperia, Ausonia, Enotria. Ma il nome che assunse in seguito la nostra penisola deriva dal greco Italòi, deformazione linguistica di Vitulio Viteli, una popolazione che occupava la punta estrema della penisola a sud dell'attuale Catanzaro. I Vituli erano così chiamati perché come totem o progenitore mitico avevano il toro (latino: vitulus). Tale nome nel V secolo a.C. indicava soltanto la parte meridionale della Calabria ma ben presto, con lo svilupparsi delle conquiste romane, cominciò ad indicare tutta la parte peninsulare fino al Rubicone. La parte settentrionale denominata Gallia Cisalpina venne inclusa nell'Italia propriamente detta soltanto nel 49 a.C. In seguito Augusto, nel 27 a.C., ne ampliò ulteriormente i confini, includendo ad Ovest i territori fino a Nizza e ad Est quelli fino a Fiume, nell'Istria. Le isole vennero poi aggiunte da Diocleziano nel III secolo d.C.

    ​GLI ETRUSCHI

    1.1. La prima civiltà italica

    L'Italia dell'ultimo millennio a.C. fu dunque un mosaico di diverse compagini etnico-linguistico-culturali. Fra queste un posto di primo piano spetta agli Etruschi, il più grande dei popoli italici prima dell'avvento della potenza romana. Come avviene sempre nel processo di formazione di una nazionalità storica, l'ethnos etrusco è il risultato di una progressiva formazione di varie influenze culturali. In questo caso abbiamo tre componenti fondamentali: indigena, indoeuropea e orientale. Proprio per questa mescolanza di influssi di varia provenienza questo popolo era a suo tempo conosciuto con diversi nomi. Quello che essi stessi si erano dati era il nome alquanto generico di "Rasena" (uomini). Dai Latini erano invece conosciuti come Tusci e dai Greci come Tirreni. La loro fortuna e la loro influenza politica derivò in maniera decisamente rilevante dalla ricchezza mineraria del sottosuolo in cui erano stanziati. Questa ricchezza di minerali, in particolare il ferro e il rame, fece sorgere un lucroso commercio con i popoli del Mediterraneo che li portò ben presto ad un elevato livello di organizzazione sociale. Le manifestazioni dell'età del ferro in Etruria (IX-VIII sec.a.C.) corrispondenti alla facies villanoviana (da Villanova: luogo vicino Bologna ove furono rinvenuti numerosi manufatti risalenti a questo periodo) sono infatti la prima risultanza di questo ethnos ormai consolidato che durerà fino al I secolo a.C. e che si articolerà in vari periodi storici definiti come:

    Villanoviano (XI-IX sec. a.C.)

    Orientalizzante (VIII-VII sec. a.C.)

    Arcaico (VI-V sec. a.C.)

    Ellenizzante (dal IV secolo fino alla loro scomparsa)

    Il periodo Villanoviano o Proto etrusco potremmo anche definirlo Celtico in quanto sono chiaramente rintracciabili le caratteristiche di queste popolazioni provenienti dall'area mediorientale. Il simbolo della svastica presente sulle anfore è già un marchio che li caratterizza. Essi abitarono a grandi linee l'attuale Emilia Romagna, la parte alta della Toscana e del Lazio, alcune zone delle Marche e della Campania in insediamenti primitivi scelti, per ragioni logistiche, su alture a scopo difensivo e in prossimità di fiumi e di terreni adatti alle coltivazioni dei campi. Oltre che coltivatori essi erano anche allevatori di buoi, pecore, capre e praticavano caccia e pesca. Avevano inoltre raggiunto un buon livello di attività artigianale con la lavorazione del bronzo. I loro modesti villaggi con abitazioni a capanna a pianta circolare o ovoidale erano costruite con materiale deperibile.

    Queste case villanoviane, di cui abbiamo testimonianza attraverso urne cinerarie, erano evidentemente una grande capanna barbarica di modeste dimensioni con pareti di fango pressato su di una struttura interna di pali, canne e giunchi intrecciati.

    Davanti all'unico ingresso vi era generalmente un piccolo portico coperto da una tettoia sorretta da due pali verticali. L'ambiente non era suddiviso in stanze e al massimo presentava un soppalco al di sotto del tetto. Le terminazioni dei travicelli che sostenevano il tetto, sporgenti oltre il colmo, assumevano spesso la forma di belve feroci, serpenti e animali fantastici di evidente significato apotropaico. Alla gronda venivano inoltre appesi ornamenti in bronzo che tintinnavano se agitati dal vento per allontanare eventuali influenze negative. Se molto poco è rimasto di queste strutture di cui rimangono soltanto i basamenti, molto di più si conosce delle necropoli scavate nel tufo. Queste, in genere, erano costituite da vasti campi d'urne con tombe a pozzetto nel cui dolio o ziro era deposto un vaso d'impasto per lo più in forma biconica che conteneva le ceneri del defunto e qualche oggetto d'uso personale e d'arredo.

    I Villanoviani, come la maggior parte dei popoli indoeuropei usavano cremare i loro defunti e deporre poi le ceneri in urne a capanna, come quella mostrata nella prima figura, o, più frequentemente in contenitori di terracotta e talvolta in bronzo, detti biconici per la forma che ricorda due coni sovrapposti. Questi vasi con un solo manico, ad indicare l'uso funebre, venivano poi chiusi con una ciotola rovesciata o con un elmo a calotta o crestato se le ceneri erano quelle di un guerriero. In queste tombe venivano inoltre inseriti degli oggetti appartenuti al defunto come fibule, rasoi od altri oggetti di uso personale da cui era possibile individuarne il sesso di appartenenza se non erano presenti altri segni evidenti.

    Già nelle tombe di questa facies primitiva cominciano a trovarsi alcuni manufatti di notevole pregio artistico e funzionale come spade e lance, morsi di cavallo in bronzo o in ferro, bronzetti nuragici, vasi greci o fenici: simboli questi della classe sociale che stava emergendo in virtù dei profitti ricavati dallo sfruttamento e dal commercio delle risorse minerarie. La produzione artigianale (in particolare metallotecnica) da una parte e il giro commerciale dall'altra, sono ormai due attività ben affermate che permettono il passaggio graduale dal villaggio primitivo alla città che necessita non soltanto di una maggiore estensione dell'area abitata ma soprattutto di una razionalizzazione degli spazi. Vengono definiti i luoghi pubblici per riunioni civili (piazze) o religiose (templi e santuari), sono inoltre regolarizzate le strade ed eseguite opere di fortificazione. Dall'epoca villanoviana si passa gradualmente a quella etrusca vera e propria, caratterizzata da scrittura e da abitazioni molto più solide. Ora le pareti di mattoni crudi, o in blocchi di fango pressato in apposite forme, sono intonacate e poggiano su un basamento lapideo, mentre il tetto è ancora costituito da una copertura lignea fortemente decorata.

    Tutto questo avanzamento tecnologico e sociale ha inizio tra la fine del IX e l'inizio dell'VIII sec. a.C. quando l'Italia comincia ad avere il primato assoluto riguardo alle risorse minerarie: un primato che si incrementa notevolmente nei secoli successivi. L'elemento fondamentale di scambio è il ferro che costituisce il principale interesse dei Greci e dei Fenici. Le colonie greche di Pitecusa e di Cuma, che sono le più antiche e le più vicine all'Etruria, svolgono un importante ruolo di mediazione nel traffico di minerali che da questa regione proseguono poi verso il bacino dell'Egeo e del Mediterraneo orientale. Diodoro Siculo (I sec. a.C.) afferma che i mercanti compravano il minerale ferroso presso l'isola d'Elba ridotto in pezzi simili a grandi spugne e lo smistavano a Pozzuoli.

    Tra il VII e il VI secolo con i periodi orientalizzante e arcaico vengono edificati i grandi centri urbani di Volterra, Populonia, Vetulonia, Veio, Cerveteri, Cortona, Arezzo, Perugia e molti altri ancora.

    Tramite il commercio con i Fenici giungono i capolavori dell'artigianato di diverse regioni del Vicino Oriente, della Grecia, dell'Europa centrale, della Sardegna. Arrivano vasi e idoletti di faience dall'Egitto, coppe e brocchette d'argento dalla Fenicia e da Cipro, coppe di bronzo sbalzato dalla Siria, scarabei, coppe fittili da Rodi, grandi crateri fittili da Corinto. Dalla Sardegna arrivano bottoni, modellini bronzei di faretre e di navicelle. Dall'Europa Settentrionale e Centrale arrivano ambra e vasellame di vario tipo in bronzo, come situle e attingitoi.

    Ma insieme agli oggetti arrivano anche personaggi influenti come il ceramista Aristonothos a Cerveteri e Demarato da Corinto a Tarquinia, con un seguito di artisti, artigiani e dotti,che favoriscono il sorgere di nuove tecniche e nuove idee. Si sviluppa inoltre una tradizione artistica locale che risente molto delle esperienze culturalmente avanzate del Vicino Oriente e della Grecia. La bronzistica e la ceramica si raffinano, nascono la grande pittura e la grande scultura. Anche l'architettura consegue notevoli progressi. Il rito funebre da incineratorio diventa inumatorio e di conseguenza si affermano le tombe a camera ricavate nella roccia prevalentemente tufacea o con materiali da riporto. Anche in campo sociale si hanno molte novità di notevole interesse: l'affermazione della struttura gentilizia, l'arrivo dell'alfabeto dalle colonie greche, la professionalità del lavoro artigianale, l'agricoltura intensiva.

    1.2. L'organizzazione politica

    La storia degli Etruschi è anzitutto la storia di città autonome che tendono ad un'unità politica mai pienamente realizzata. Le loro città stato sono governate, come in Grecia, da oligarchie aristocratiche che intorno al 600 a.C. si uniscono in leghe formate da dodici città. Nel V secolo il loro dominio si estende su tutto il Lazio al punto tale che anche Roma viene governata da almeno tre re etruschi della dinastia dei Tarquini: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Si spingono poi fino in Campania e per ben due secoli divengono anche una grande potenza marinara, rivaleggiando con i Greci e i Focesi fondatori di Marsiglia. Dopo la cacciata dei Tarquini da Roma e le dure sconfitte dei loro alleati Cartaginesi sono costretti a ripiegare verso Bologna, Adria e Spina e contemporaneamente inizia anche l'ascesa della potenza romana che accelera il loro inevitabile declino sia a livello territoriale che marittimo. Nel 396 cade la città di Veio alle porte di Roma e nel I secolo, con la Lex Julia De Civitate, la cittadinanza etrusca cessa di esistere per la legge romana, artefice di una accurata soppressione etnica e culturale. Considerando il notevole apporto che il popolo etrusco era stato in grado di offrire a questo popolo emergente nell'ambito dell'organizzazione dello stato, della religione e delle opere architettoniche e idrauliche, questa dura repressione fu decisamente troppo ingiusta e immeritata.

    Ogni città stato etrusca costituiva un mondo a se stante. Gestione interna, commerci, imprese navali erano autonome come nelle poleis greche. Da quanto afferma Tito Livio esisteva una lega o federazione di 12 città che si riuniva annualmente al Fanum Voltumnae, presso il lago di Bolsena. A rappresentare queste 12 città vi erano 12 lucumoni (il termine lucumone è sinonimo di capo politico e religioso), uno dei quali era a capo degli altri per la durata di un anno intero. Sempre Tito Livio ci parla dell'elezione di questa figura regale da parte delle dodici città. Ciascuna di esse forniva un littore, un ufficiale pubblico che, analogamente al Licurgo dei Greci, precedeva il corteo nelle cerimonie più importanti con il fascio littorio. Questo emblema attestato a Vetulonia, forse eco di un antico simbolo minoico, era costituito da verghe d'olmo legate assieme, in mezzo alle quali si poneva una scure. I fasci rappresentavano la capacità politica e religiosa (imperium) delle varie città e la scure il potere militare e giudiziario che conquistava, arrestava, puniva e dava anche la morte ai malfattori.

    Quasi tutti i simboli del potere etrusco e molti cerimoniali vennero successivamente adottati da Roma. Tra questi ricordiamo: i fasci littori, la corona d'oro, lo scettro eburneo sormontato dall'aquila, la quadriga, la toga palmata, il trono (sella curulis), la cerimonia del trionfo, la presenza di uno scriba che registra gli atti sovrani.

    1.3. La religione

    La maggior parte degli autori latini come Cicerone, Plinio il Vecchio, Livio o Seneca erano concordi nel ritenere gli Etruschi un popolo molto religioso e i suoi sacerdoti particolarmente esperti nell'arte divinatoria.

    Purtroppo i testi che riguardavano direttamente il rapporto tra gli dèi e gli uomini, la cosiddetta "Disciplina Etrusca" sono andati quasi tutti perduti e ciò che è rimasto sono soltanto dei riporti da traduzioni mai pervenute.

    Da questi accenni si intuisce che la religione etrusca delle origini fu una religione rivelata attraverso le profezie di individui particolarmente dotati come la ninfa Vegonia e il vecchio fanciullo Tagete che comparve un giorno ad un contadino nei pressi di Tarquinia. Cicerone descrive così lo strano evento:

    "Gli Etruschi raccontano che nel territorio di Tarquinia, mentre un contadino arava un campo, da un solco che egli aveva scavato più profondamente degli altri, uscì un certo Tagete e parlò all'aratore. Secondo i libri etruschi; Tagete avena l'aspetto di un bambino e la saggezza di un vegliardo. Il contadino, impressionato dalla visione, aveva lanciato un alto grido di sorpresa. Così accorse molta folla che si trovò riunita in quel luogo. Tagete parlò a lungo dinnanzi a un gran numero di ascoltatori, affinché apprendessero e affidassero alla scrittura tutte quante le sue parole. Il suo discorso era dedicato all'insegnamento dell'arte degli aruspici..."

    Tra l'VIII e il VI secolo a.C. per l'influsso esercitato dalle colonie greche dell'Italia Meridionale vennero importate delle divinità che in alcuni casi coincidono con quelle tipiche della loro cultura più antica.

    La triade più importante a cui venivano dedicati tre templi e tre porte in ogni città è costituita da:

    Tinia o Tin è l'analogo del latino Juppiter (Giove) e del greco Zeus; egli è infatti il Signore dei cieli e capo degli dei.

    Uni, sua moglie, madre creatrice, suprema dea e signora della Terra è l'equivalente della latina Juno (Giunone) e della greca Hera. Ella era anche patrona della città di Perugia

    Menerva, dea della saggezza, della guerra, dell'arte e del commercio, è identificabile con la Minerva romana e con l'Artemide greca.

    La seconda triade in ordine di importanza è rappresentata da divinità del mondo infero tipicamente etrusche come:

    Vetisl, una divinità che nei riti divinatori richiedeva il sacrificio di una capra. il suo nome appare nella decima regione marginale del fegato di bronzo di Piacenza.

    Velchans o Sethlans, dio del fuoco, del sottosuolo e del magma che esplode nel vulcano, è paragonabile al dio greco Efesto e al dio romano Vulcano. A lui è dedicata la corporazione che conierà il bronzo dal rame e dallo stagno e che saprà produrre le meravigliose e finissime filigrane in oro.

    Charun, il demone che allontana l'anima dal corpo dei morenti con un colpo di martello, viene raffigurato con barba, naso d'avvoltoio ed orecchie aguzze. Un'altra delle sue funzioni è quella di guardiano delle porte dell'Ade (Tomba dei Caronti e degli Anina di Tarquinia). Talvolta ha dei serpenti attorno alle braccia ed ali enormi (Tomba dell'Orco di Tarquinia) ed altre volte appare anche munito di spada.

    A completare il loro operato vi era Vanth, un demone femminile alato, paragonabile alla Moira, la dea greca del fato, che tiene in mano il rotolo del destino, assiste i malati in fin di vita ed è messaggera di morte. Nella Tomba François di Vulci è rappresentata con ali multicolori mentre accompagna Patroclo ed Achille nell'aldilà. Spesso si accompagna al dio Charun che da alcuni è considerato il suo sposo.

    Tuchulcha è un altro demone con il becco da rapace, con orecchie d'asino e con la testa ornata da serpenti che infliggono supplizi alle anime dei peccatori. La sua raffigurazione più conosciuta è quella della Tomba dell'Orco a Tarquinia, pubblicizzata dal film del 1972 l'Etrusco uccide ancora.

    Vi è poi un nutrito gruppo di varie divinità minori come:

    Aplu, dio etrusco del tuono e del fulmine, paragonabile al dio greco Apollo. La sua statua in terracotta rinvenuta a Veio è uno dei capolavori dell'arte etrusca.

    Voltumna, patrono del popolo etrusco a cui veniva dedicato il rito del sacro convito a Bolsena, centro della lega delle dodici città guidate dai lucumoni.

    Hercle, figlio di Uni e Tinia, protettore dei pastori, è l'omologo del semidio greco Herakles e di quello romano Ercole.

    Maris, dio della guerra, corrisponde al dio greco Ares e al dio romano Marte.

    Satres, è l'omologo del dio greco Crono e del dio romano Saturno.

    Turms: è il nome etrusco del dio greco Hermes e del dio romano Mercurio.

    Turan, colei checomanda il cuore degli esseri umani è assimilabile all'Afrodite greca e alla Venere romana. La radice tur è la stessa dei termini torre e tiranno ed indica dominazione.

    Fufluns, figlio di Semia, dea della terra, corrisponde al dio greco Dioniso e al dio romano Bacco.

    Nethuns, inizialmente divinità dei pozzi diviene in seguito il dio delle acque e del mare. E' assimilabile al dio greco Poseidone e al dio romano Nettuno.

    Culsans, divinità, bifronte, corrisponde al dio romano Giano. Il termine latino Ianus deriva da ianua, ovvero porta. Sia Culsans che Giano sono custodi delle porte e venivano rappresentati entrambi con un doppio volto.

    Thana dea della luna, della notte, degli incantesimi e del parto, è assimilabile alla dea greca Artemide e alla dea romana Diana. Sembra infatti che Diana derivi il nome da questa dea a cui è riferita la leggenda di una giovinetta pura e indifesa che, assalita da un bruto, chiamò in sua difesa la luce lunare i cui candidi raggi spaventarono e misero in fuga il malintenzionato. Sempre a Thana è legato un importante nome etrusco: Thanaquil che significa dono di Thana. Una celebre aristocratica che porta questo nome fu la moglie di Tarquinio Prisco. Esperta in prodigi e divinazioni ella, dopo aver osservato il comportamento di un'aquila in volo, annunciò a suo marito che sarebbe diventato il primo re di Roma.

    Aita: dio etrusco dell'oltretomba è equivalente al dio greco Ade e al dio romano Plutone.

    Horta, dea dell'agricoltura, corrisponde alla dea greca Demetra e alla romana Cerere.

    Ovviamente la lista non finisce qui. Vi sono moltissime altre divinità del pantheon etrusco tra cui Februus, dio della morte e della purificazione, Feronia, dea protettrice dei boschi e delle messi, Mania, dea della follia, Northia, divinità del fato e della sorte, e una grande famiglia di divinità femminili alate come le lase che è opportuno ricordare. Esse sono conosciute con vari nomi come ad esempio: Alpena, Losna, Mean, Zipna, Vecu, Muntucha, ecc. Da esse derivano i lari romani, le entità protettrici delle famiglie e dei recinti domestici.

    Vi sono poi rappresentazioni di concezioni tipicamente indigene del sovrannaturale ove il concetto di base, comune a tutte le culture primitive, è quello di forza vitale e generativa che può essere una singola divinità (il genio) o un gruppo di spiriti come i penati divisi in quattro classi: del cielo, della terra, dell'acqua, ed appartenenti a soggetti umani. Altri rappresentanti sono i mani, e i novensiles (i nove dei folgoratori).

    L'attività religiosa preminente dei sacerdoti etruschi, che ricalca fedelmente quella già in uso nel mondo religioso della Mesopotamia, era la cosiddetta "Disciplina", un insieme di norme intese a regolare i rapporti tra gli dèi e gli uomini. Come indirizzo fondamentale quest'attività si esplicava in una scrupolosa ricerca orientata alla decifrazione della volontà divina (ostenta).

    L'attività dei sacerdoti era ampiamente differenziata. Alcuni di loro si specializzavano nell'ars fulguratoria che consisteva nell'osservare e interpretare i lampi; altri nell'interpretazione del volo degli uccelli (auspicium), ed altri ancora nell'osservazione delle viscere degli animali sacrificati (haruspicium). I presagi così ricavati potevano essere favorevoli o sfavorevoli e conoscerli in anticipo era considerato di grande importanza, soprattutto quando si dovevano compiere azioni di una certa rilevanza, come la fondazione di una nuova città, l'inizio di una guerra, l'intrapresa di un viaggio, e così via. Tra queste varie arti l'haruspicium, godeva di un grande prestigio ed era praticata da sacerdoti appartenenti a famiglie nobili come gli Spurinna di Tarquinia che predissero a Giulio Cesare la morte nel periodo delle Idi di marzo.

    Gli àuguri, i sacerdoti che osservavano i segni celesti per trarne degli auspici, avevano come simbolo il lituo, un bastone dall'estremità ricurva, rimasto nella tradizione sacerdotale romana ed ereditato infine dai vescovi cristiani. Gli aruspici, ossia i sacerdoti che praticavano l'osservazione delle viscere degli animali, durante le operazioni indossavano invece un berretto a punta conica e un manto frangiato.

    Gli Etruschi erano convinti che gli eventi non hanno un significato in quanto tale ma sono i segni visibili ed analogici di eventi molto più importanti. Dice Seneca in proposito:

    "Noi (Romani) riteniamo che i fulmini scoccano perché si son urtate le nuvole; essi (gli Etruschi) credono che le nuvole si urtino per far scoccare i fulmini. Infatti, poiché essi attribuiscono ogni cosa alla divinità, sono indotti a pensare non già che le cose abbiano un significato in quanto avvengono ma esse avvengono perché hanno un significato."

    Riguardo alla divinazione oracolare i due mondi umano e divino erano concepiti in stretto collegamento l'uno con l'altro e pertanto, come riferisce Cicerone, ciò che accade in quello divino si riflette e ripercuote in quello umano. In origine lo spazio sacro non era un edificio ma un luogo consacrato che poteva essere il cielo, un'area terrestre o una piccola superficie, come ad esempio il fegato di un animale; purché ci fossero le condizioni di orientamento e di partizione secondo il modello celeste.

    L'orientamento del tempio era determinato dai quattro punti cardinali congiunti da due rette incrociate di cui quella nord-sud fu chiamata successivamente dai Romani cardo e quella est-ovest decumanus.

    Quando il sacerdote si situava nel centro di intersezione delle due linee con le spalle volte a settentrione, si formavano quattro spazi operativi: pars postica dietro di lui e pars antica di fronte. Lo spazio alla sua sinistra, che è quello orientale, chiamato pars sinistra o familiaris era quello dei buoni auspici. Lo spazio di destra o occidentale chiamato pars dextra o ostilis era quello degli eventi sfavorevoli. La volta celeste così orientata e divisa si immaginava ulteriormente suddivisa in sedici parti minori, sedi delle diverse divinità. Quelle favorevoli venivano localizzate nelle parti orientali del cielo (nord-est) e quelle infernali e del fato si localizzavano nelle regioni occidentali dell'Occaso (nord-ovest). In tal modo la posizione dei segni che si manifestavano in cielo (fulmini o volo di uccelli) indicava da quale nume proveniva il messaggio e se esso era favorevole o di cattivo auspicio. Queste regole di planimetria sacra si osservavano anche nella pianificazione di città (o parti di essa) e nella partizione dei campi.

    I segni più frequentemente osservati in questa mappa virtuale erano rappresentati dai fulmini e la loro interpretazione era regolata da una casistica alquanto complessa. Innanzitutto era determinante il luogo e il giorno in cui essi apparivano, si teneva poi conto della forma, del colore e degli effetti provocati. Le divinità che avevano la facoltà di lanciarli disponevano di un solo fulmine eccetto Tinia che, essendo la principale divinità dei cieli, ne possedeva invece tre. Il primo tra questi era il fulmine ammonitore che il dio lanciava di sua spontanea iniziativa. Questo era interpretato come un primo avvertimento. Se questo non era sufficiente seguiva il fulmine che atterrisce, considerato come manifestazione della sua ira. Terzo

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