Lezzo
By Monica Dini
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Book preview
Lezzo - Monica Dini
Monica Dini
LEZZO
I giorni dell’ospizio
Argot edizioni
A mia madre
© Argot edizioni
© Tra le righe libri
Andrea Giannasi editore
ISBN 978 88 99735 005
www.argotedizioni.it
Acquista cosa nella tua gioventù
che ristori il danno della tua vecchiezza.
E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la sapienza,
adoprati in tal moda in gioventù,
che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento.
Leonardo Da Vinci
Il problema fondamentale
non è se esista una vita dopo la morte,
ma se esista prima.
Giovanni Badino
Introduzione
Lezzo
Ho ritrovato in queste pagine di Monica Dini molte delle caratteristiche che me l’avevano fatta apprezzare nelle due raccolte di racconti, Sulle corde e soprattutto la riuscitissima Leggerezze. In questo quadro, ben definito dal sottotitolo I giorni dell’ospizio, troviamo la descrizione di un microcosmo carico di significato, e ancora una volta Monica Dini affronta un argomento insolito: se là era la speleologia dal punto di vista di una donna, qui è uno dei massimi tabù dei nostri tempi, la vecchiaia.
Nell’ospizio di Via dei Cipressi si incontrano gli anziani più o meno acciaccati ma anche tutti quelli che devono occuparsene, Grazia la donna delle pulizie, le suore, Anita la volontaria, e in misura molto minore, i parenti.
Non conta l’intreccio ma la scrittura insolita, i personaggi, i particolari, l’herpes sul labbro della donna incinta, i jeans con il risvolto del vecchio che non sa aggiustarli, i fagioli coltivati nel bicchiere dal contadino che rimpiange la terra. La struttura è complessa, alterna i punti di vista dei personaggi, in prima e in terza persona, con brani dei ricordi di un ricoverato che legge Seneca e alle spalle ha molti dolori, in brevi tratti narrativi intervallati da riflessioni sorprendenti, paragoni efficaci, osservazioni fulminanti, e la lingua è resa più vivace dall’uso di termini vernacolari.
Più che raccontarci una vicenda Monica Dini ci porta dentro una situazione, ci butta in un luogo e ce lo fa vedere con un occhio allo stesso tempo interno per empatia e esterno per la capacità di osservazione acuta, quasi spietata. Notevole è la capacità di ritrarre anche i personaggi di contorno, e illuminare particolari che lasciano il segno, come la macchina che sgomma via dopo aver abbandonato un vecchio sulla porta dell’ospizio.
Colpisce in queste pagine la grande comprensione e accettazione della vita, ma per fortuna non ci sono melensaggini, l’autrice ha grande rispetto per i suoi personaggi, né patetici né grotteschi, esseri umani con tutte le loro caratteristiche di individui. Quello che è diminuito dall’età e dalla malattia è il corpo, non l’identità piena di dignità umana.
È importante quello che fa Monica Dini con questo libro: ci ricorda che se la vita corre fuori dall’ospizio, le lente vite che si svolgono dentro hanno comunque valore e interesse.
Consolata Lanza
In su l’estremità d’un’alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per l’orribile soperchio
del puzzo che ‘l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d’un grand’avello, ov’io vidi una scritta
che dicea: ‘Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta’.
"Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo".
(Inf., XI 1-12)
Parte prima
La vita dentro
Inaco
Lo incuriosiva considerare che di lì a poco sarebbe morto.
Non sapeva con precisione quando ma era certo che sarebbe stato presto.
C’erano delle grandi finestre nell’ospizio dove abitava. La sua stanza era la numero 23.
Si chiamava Inaco.
Il ricovero era composto da due edifici gemelli uniti all’ultimo piano da un tunnel esterno tutto a vetri.
Si capisce come? Un corridoio sospeso in aria che unisce gli ultimi piani delle due costruzioni.
La sua camera era vicino alla porta del tunnel.
L’edificio dove abitava era quello degli ospiti autosufficienti. L’altro, dove non si poteva curiosare, era quello dei vecchi allettati senza più cervello. Come ceppi.
L’ospizio si trovava in un grande giardino recintato da alte mura. Sul lato destro rispetto alla porta d’ingresso cominciava largo un viale di cipressi ordinati. Era di ghiaia bianca, finiva di fronte a un cancello di ferri aguzzi e al di là vedevi la strada comunale e le lapidi del cimitero. Alcune erano molto vecchie e i mucchi di terra fiorivano con il caldo.
Inaco lo percorreva spesso fino in fondo, non gli davano fastidio i morti.
I vivi lo annoiavano.
Ormai erano tre anni che abitava lì. Non si era pentito. Aveva una moglie che era rimasta a casa e con la quale si era stufato di vivere. Aveva altri parenti ma non provava verso di loro alcuna curiosità.
All’età di quasi novanta anni era certo che stare lì dentro, servito e curato a pagamento vicino al cancello del cimitero, fosse una comodità.
Non aveva mai occupato il suo tempo con attività materiali come fare l’orto o allevare conigli. Inaco leggeva, amava Seneca con la sua concezione della vita. La sua Bibbia era un vecchio volume con la copertina rigida delle Lettere a Lucilio. Leggeva:
ELOGIO ALLA VECCHIEZZA.
Poco fa ti dicevo che ero di fronte alla vecchiezza: ora temo di averla già lasciata dietro di me. Ormai un altro nome conviene a questi miei anni, certo a questo mio corpo, poiché vecchiezza
è il nome che si addice all’età