Matrimonio in campagna
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Lei si troverà, quindi, a lottare per affermare la sua libertà ed il suo diritto alla felicità, contro un ambiente bigotto, ipocrita e pieno di pregiudizi, che non tarderà ad emarginarla e a metterla alla gogna.
... "La prima notte di nozze, ricordò Rosa, l'avevano trascorsa nella casa vuota messa a disposizione dallo zio Calcedonio.
Si erano ritrovati soli con grande reciproco imbarazzo. Erano anche molto stanchi. Lei si era subito ritirata in bagno per svestirsi ed indossare quindi la camicia da notte del corredo. Era molto nervosa e intimidita e mentre rientrava nella camera continuava a tormentare il fiocco di raso lilla che le chiudeva la scollatura. Lui nel frattempo s'era spogliato e, infilatosi nel letto sotto le coperte, la stava aspettando.
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Matrimonio in campagna - Anna Mosca Pilato
Anna Mosca Pilato
Matrimonio
in campagna
Edizioni Lussografica
© Copyright Dicembre 2014
Edizioni Lussografica
Caltanissetta
Tutti i diritti sono riservati
ISBN 978-88-8243-353-6
Ogni riferimento a persone, cose o luoghi è puramente casuale.
Tutti i diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi e concessi solo con autorizzazione autografa dell'editore.
Parte prima
Capitolo I
Rosa si svegliò di colpo per un’acuta e dolorosissima fitta al piede sinistro. Subito cercò di sollevarsi e di muovere la gamba, del tutto immemore, in quel primo istante di brusco risveglio, di ciò che era accaduto il giorno innanzi e della vistosa e pesante ingessatura che le immobilizzava l’arto.
Poi la vide e ricordò: il rovinoso scivolone nella doccia, il suo faticoso trascinarsi verso la porta, i vicini che intervenivano, l’ambulanza, l’ospedale. Frattura scomposta della caviglia.
Si rimise lentamente giù con una smorfia di dolore e cercò cautamente di riposizionare bene il piede sulla pila di cuscini. Aveva, com’era prevedibile, dormito poco e male. Le pareva ora che la caviglia dentro l’ingessatura si fosse gonfiata enormemente e che ciò potesse essere la causa delle fitte dolorose.
Che fare? Era assolutamente sola, inesorabilmente, maledettamente sola. La sera prima, dal telefono dei vicini, dato che lei non possedeva uno, aveva chiamato sua figlia Elisabetta a casa del padre, il suo ex marito. L’aveva pregata di venire a stare con lei per qualche giorno, l’aveva supplicata dopo averle raccontato l’accaduto, ma lei, laconica e terribilmente distaccata, aveva risposto:
«Mi dispiace mamma, davvero, per quello che è successo, ma sei stata tu, lo sai, ad andartene via, a non volermi con te. E adesso che cosa vuoi? Che vai cercando? Lo sai, vero, a chi devi rivolgerti per aiuto. A me no, di sicuro. Ti saluto.»
Elisabetta aveva troncato la conversazione e lei era rimasta lì, con la cornetta in mano e quel sorriso imbarazzato sulle labbra mentre cercava invano di non fare intuire nulla ai suoi vicini. «Ha detto che verrà domani.» Così aveva sussurrato.
Sapeva di non potere contare neanche sui suoi genitori, né sui fratelli né sulle sorelle. Tutti infatti l’avevano ripudiata dopo l’accaduto, allontanandola come se avesse la peste bubbonica.
Adesso girò da un lato la testa ed una lacrima le scivolò lentamente lungo la guancia.
Dal suo letto Rosa poteva guardare attraverso la finestra lunga e obliqua, posta accanto a lei, del suo monolocale in mansarda. Da lì scorgeva i tetti dei grigi palazzi di fronte e sopra di essi una striscia di cielo.
Vedeva e udiva ora due tortore ciarliere che passeggiavano pigramente vicino alla finestra e attorno ad un ciuffo di margheritine selvatiche cresciuto tra le connessure delle tegole, più in là scorgeva un turbinio di rondini che volavano in tondo nel primo chiarore del giorno. Strano chiarore come se il sole non si mostrasse limpido in tutto il suo splendore ma velato, lattiginoso, quasi offuscato da una sottile caligine.
Quella insolita chiaria, quel sole falso che diffondeva intorno un altrettanto falsa allegria foriera, chissà, di improvvisi quanto inattesi turbamenti meteorologici, le riportarono alla mente un altro giorno, un’altra alba di afosa e pallida luminescenza, quella del suo matrimonio…
Era il 15 giugno del 1954, venti anni prima.
In un primo momento, in verità, il futuro sposo aveva proposto, per ragioni riguardanti il suo lavoro, la data del dieci di maggio, ma Assuntina, la madre di Rosa, si sera opposta fieramente:
«Mai sia! Il mese dedicato alla Madonna! Non lo sapete che la sposa majulina non si gode la cuttunina?»
Così aveva sentenziato e così era stato fatto. La data era stata cambiata affinché il matrimonio nascesse sotto i migliori auspici.
A quell’epoca Rosa aveva compiuto da poco diciannove anni. Si rivide com’era allora: delicata, un visetto grazioso e pieno di lentiggini, una gran massa di capelli lunghi e ricci, tra il biondo e il fulvo, un po’ irsuti.
Non si piaceva molto, per la verità, a quel tempo. Troppo magra e ossuta, con pochi fianchi e poco seno. Troppo pallida. L’unica cosa che veramente amava di sé erano i grandi e mobilissimi occhi tra il nocciola e il verde.
Che contrasto con il fidanzato allora venticinquenne, scuro di carnagione, anzi olivastro, scurissimo di capelli e di baffi, alto e robusto mentre lei era di media statura!
La breve e semplice cerimonia si era svolta nella piccola chiesetta normanna in mezzo al verde, appena fuori dal paese. Il successivo trattenimento invece s’era tenuto nella campagna dei nonni, dotata di una vetusta e un po’ malconcia casa rurale, non molto lontana dalla chiesa.
La scelta del luogo in cui tenere il ricevimento non era stata invero dettata da romanticismo né da criteri estetici o di originalità. Era solo una conseguenza delle ristrettezze economiche.
La famiglia di Rosa infatti era piuttosto numerosa, di semplici operai, lo sposo poi, giovane di belle speranze, come allora si diceva, futuro dottore analista, attualmente assistente con modesto stipendio presso un laboratorio di analisi, non aveva ancora ultimato gli studi e non nuotava nell’oro.
Dunque tenere un ricevimento nei locali allora più alla moda della piccola città, La lanterna blu o La Caverna del viale, era impensabile.
Rosa aveva suggerito timidamente la campagna dei nonni, con il vecchio ma suggestivo casolare.
«Giusto, magnifico, ’na bona pensata è! – aveva affermato don Salvatore, suo padre – A metà giugno sicuro una bella giornata ci sarà. Mettiamo i tavoli all’aperto, sotto la pergola. Del resto pochi siamo. Sarà una mattinata allegra, proprio quello che ci vuole: viene a dire una bella scampagnata!»
Così era stato deciso. Per il rinfresco erano stati ordinati schiumoni e pezzi duri, al pistacchio, alla nocciola, al torrone e al cioccolato. Paste di mandorla poi e dolcetti rosa e verdi, e per finire i confetti in semplici e vaporosi sacchetti di carta cellofanata, stampata in finto pizzo. Il tutto innaffiato da marsala all’uovo, vermouth e Amaro Siciliano, che non potevano mancare, e poi, per brindare, spumante Asti da servire nelle coppe di alpacca fornite dalla stessa pasticceria.
Le tortorelle non si scorgevano più dalla finestra e avevano smesso il loro incessante e monotono tubare. Dove erano adesso? Il cielo si andava via via incupendo.
Lei pensò che da un momento all’altro la sua buona vicina, Marisa, avrebbe aperto la porta con le chiavi che Rosa le aveva affidato la sera prima e le avrebbe forse portato del caffelatte, sistemato un po’ la stanza. No, non era poi così sola e abbandonata, anche se, a onor del vero, Marisa era l’unica nel palazzo che si fosse mostrata nei suoi confronti un po’ gentile ed amichevole. Gli altri, tutti gli altri inquilini, l’avevano ignorata o peggio avevano mostrato più o meno palesemente la loro ostilità. Molti addirittura non rispondevano neanche al suo saluto o le sbattevano la porta in faccia come se fosse una vera puttana. Quanti bocconi amari le toccava ingoiare ogni giorno, quanto tossico!
Rosa pensò acutamente e dolorosamente a Renato, il suo bel ragazzo lontano che ora prestava servizio militare a Napoli. Doveva avvisarlo dell’accaduto appena possibile.
Capitolo II
La vicina tardava, lei non riusciva a scorgere l’orologio a parete e dunque non aveva la più pallida idea di che ora fosse. Aveva bisogno di andare in bagno. Cercò di non pensarci. Si mise ad osservare il disegno geometrico e demodé delle piastrelle in ceramica del pavimento. Apparivano qua e là sbreccate.
Notò pure che negli angoli della stanza, quelli più vicini al divano letto, s’era depositato qualche bioccolo di polvere ed osservò ad un tratto il rapido e zigzagante transitare di una minuscola forfecchia.
Il cielo frattanto s’era fatto più bigio. «Pioverà?» – si chiese Rosa – «Sì, pioverà.» – si rispose. Le rondini continuavano a volare in larghi cerchi concentrici.
Volare. Spiccare il volo proprio da lì, dal cornicione sotto alla sua finestra. Lasciarsi andare a braccia aperte come un angelo… Non sembrava poi così difficile. Era forse quella la soluzione? Quella la fine di tutti i suoi guai? Solo così sarebbero cessate le umiliazioni, la vergogna, lo scandalo, la solitudine?
Provò a socchiudere gli occhi e a dormicchiare. Di nuovo scene del passato come un rapido trascorrere di nuvole sul sipario della sua coscienza.
Pochi mesi prima del matrimonio aveva finalmente preso il coraggio a due mani, lei la figlia rispettosa e ubbidiente, educata con severità in quella famiglia di rigida tradizione cristiana, chiusa e bigotta, di una cittadina altrettanto beghina e retriva del profondo sud, negli anni cinquanta.
«Mamma – aveva detto una mattina, dopo una notte tormentata – parlare vi devo.»
Il padre era già al lavoro, con lui non avrebbe mai osato.
«Mamma non lo voglio sposare quell’uomo!»
Donna Assunta si era irrigidita e sul suo viso si era subito diffusa, come una zacchera di vino rosso-rubino sopra una tovaglia candida di bisso, una indicibile espressione di stupore.
«Tu non vuoi? Che mi vieni a significare, cosa dici, perché?»
«Io, perché… perché non mi piace.»
«Bihhh! Non ti piace? Che vuol dire non ti piace? Ora lo dici? Cosa non ti piace?»
La donna era assolutamente sbalordita e la incalzava con le domande. Erano stati così contenti lei e suo marito dell’insperata fortuna toccata a quella loro figliola! Un medico, un partito con i fiocchi! Così serio distinto, elegante.
«Cosa non ti piace, impazzita per caso sei?»
Ed il suo sguardo indagatore aveva scrutato il viso della ragazza, cercato i suoi occhi che, dopo qualche istante, si erano abbassati.
Rosa avrebbe voluto spiegare alla madre tutte le piccole sensazioni negative avute in quei mesi. La freddezza di lui, la sua seriosità, mentre lei era aperta e solare e piena di gioia di vivere, l’impressione che Filippo evitasse di rimanere da solo con lei anziché fare al contrario, come sarebbe stato logico per un giovane fidanzato, per un innamorato.
Innamorato? Amore? Era così l’amore?
Rosa era molto giovane ed anche molto ingenua. Non sapeva granché sul sesso, argomento tabù in quegli anni per una signorina di onesta famiglia. Pure la parola sesso aveva per lei un’ aura di vergogna, un ché di misterioso, di laido e proibito. Si associava forse a lontani e angosciosi ricordi dell’infanzia.
Evocava