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La rivoluzione entra a suon di banda
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La rivoluzione entra a suon di banda

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Nel corso dell’800 i Castelli Romani conoscono un robusto movimento democratico che produce diverse amministrazioni rosse e riesce ad espugnare il collegio elettorale. Prima d’Azeglio e poi Salvemini li presentano però all’opinione pubblica italiana come un caso meridionale, estraneo a una modernità politica “fisiologica”. L’a-normalità trova le sue ragioni non già in un tirocinio inadeguato, bensì nei conflitti attorno agli istituti stessi dell’integrazione politica e nel loro uso improprio ad opera di tutti i protagonisti. Adottando una prospettiva intersoggettiva che tiene conto dei punti di vista dei diversi attori e del loro reciproco condizionamento, il volume ricostruisce la scoperta della politica da parte delle popolazioni dell’area nel primo quarantennio di vita nazionale nel suo prender corpo all’interno del confronto/scontro tra, da un lato, il progetto di modernizzazione liberale che guida i funzionari che posero mano alla costruzione della nazione in provincia e le contraddizioni entro cui si mosse la loro loro azione, e, dall’altro, i pregiudizi, gli stereotipi e gli interessi dei diversi segmenti della società locale attraverso cui vennero recepiti, ri-creati e riorganizzati temi, linguaggi, simboli circolanti nello spazio pubblico nazionale definendo nuove identità e un nuovo senso comune.

LanguageItaliano
PublisherPM edizioni
Release dateMar 10, 2016
ISBN9788899565114
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    La rivoluzione entra a suon di banda - Tommaso Petrucciani

    Tommaso Petrucciani

    La rivoluzione entra a suon di banda

    La scoperta della politica in alcune comunità laziali nell’Italia liberale (Castelli Romani 1870-1913)

    Copyright © 2015

    PM edizioni

    via XXIV Maggio, 1

    00049 Velletri (RM)

    www.pmedizioni.it

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

    Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

    ISBN 978-88-99565-11-4

    Prima edizione: novembre 2015

    Abbreviazioni

    CPC = Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale

    Luogotenenza = Archivio di Stato di Roma, Luogotenenza Generale del Re per Roma e le Provincie romane

    Prefettura = Archivio di Stato di Roma, Prefettura di Roma, Gabinetto

    Questura = Archivio di Stato di Roma, Questura di Roma

    Sottoprefettura = Archivio di Stato di Roma, Sottoprefettura di Velletri

    Jacini = Atti della Giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol XI, Relazione del Commissario Marchese Francesco Nobili-Vitelleschi, Senatore del Regno, sulla V circoscrizione (Provincie di Roma, Grosseto, Perugia, Ascoli-Piceno, Ancona, Macerata e Pesaro), tomo I, Provincie di Roma e Grosseto, Roma, Fazzoni e C. Tipografi del Senato, 1883 – rist. an., Forni, 1987

    << AL >> = L’Avvenire del Lazio

    << ET >> = L’Eco del Tuscolo, numeri in Prefettura, b. 101, f. 865K

    << GL >> = Gazzetta Latina

    << L’I >> = L’Indipendente Gazzetta Latina

    << MC >> = Il Messaggere dei Colli Tuscolani, Albani, Sabini, Lepini

    << ML >> = Il Messaggere del Lazio

    Prefazione

    Lo studio di Tommaso Petrucciani rilancia con innumerevoli motivi di interesse ed in modo metodologicamente avvertito il tema del politico nella costruzione dello stato nazionale; la sua ricerca sulla provincia romana si presenta come un esemplare caso di studio, che arricchisce le nostre conoscenze sulle culture politiche territoriali nel farsi dell’unificazione italiana, con la trasformazione delle tradizionali pratiche sociali e culturali della vita comunitaria. Lo studio riprende con finezza percorsi di ricerca che qualche anno addietro avevano rimarcato anche in Italia la valorizzazione sia della dimensione spaziale sia della più ampia sfera del politico, nella sua declinazione sociale e quindi culturale. Gli studi recenti hanno del resto evidenziato le peculiarità della storia italiana postunitaria nel contesto europeo, vale a dire una realtà frammentata sul piano territoriale e sociale, con il continuo riproporsi di un intreccio tra atavismo e modernità. In quel quadro di contraddizioni e sfide emersero anche in Italia autonome e antagonistiche pratiche di acculturazione e mobilitazione politica. Questo lavoro verifica sul terreno della ricerca ed in uno spazio bene individuato (i comuni rurali dei Castelli romani, ricompresi nel collegio elettorale di Albano) quanto Piero Bevilacqua prefigurava nel prospettare il rinnovamento della tradizionale storia politica: essa << può finalmente trasformarsi in storia della politica, ricostruzione di tutti quei processi, disseminati nell’universo sociale o strutturati nelle articolazioni molteplici dello Stato, in cui si esprime la lotta per il controllo delle risorse, per il potere di comando nelle istituzioni, per il governo degli uomini >>¹. L’indagine, altrimenti detto, sulla base di un sistematico riscontro su ogni possibile fonte disponibile, ben indaga sulle forme tramite le quali, tra 1870 e 1913, si determinò una ridislocazione dei sistemi di autorità politica e dei ruoli sociali: la figura identitaria del vignarolo nella subregione latina in primo luogo, ma anche i proprietari terrieri di estrazione aristocratico-borghese, gli artigiani, gli operai. Si indaga la complessa trasformazione di una tradizionale sociabilità senza politica in un’articolata vita associativa impregnata di valenze e motivazioni politiche. Si profila la fecondità di un rapporto più stretto tra storia, etnologia e antropologia nello studio del politico, favorendo il superamento effettivo di un’ingiustificata separazione tra la grande politica che discende dalle istituzioni (attraverso l’organizzazione amministrativa così come tramite l’applicazione del sistema della rappresentanza nelle pratiche elettorali) e la piccola politica che si auto-organizza nella vita di relazione di sudditi che divengono cittadini, muovendo da interessi, tradizioni associative e codici comportamentali chiamati a confrontarsi con le sfide della modernità; un percorso dunque di ricerca di storia della politica che richiede la coniugazione tra gli approcci della storia politico-istituzionale (le forme organizzative, la rappresentanza degli interessi, le élites dirigenti), le propensioni etno-antropologiche della storia sociale e le suggestioni della storia culturale sui linguaggi dell’immaginario sociale.

    La dimensione locale non è concepibile senza un rapporto stretto con lo spazio nazionale. È una correlazione di relazioni indispensabili, osservò Raffaele Romanelli in una chiave di lungo periodo, per comprendere << come si vanno configurando all’interno dei processi di politicizzazione e di democratizzazione dell’età contemporanea le dissonanze e le affinità, gli scambi e gli scarti tra i diversi livelli >>². In questa occasione, indagando una significativa periferia dell’Italia postunitaria (la parte latina della grande provincia rurale intorno alla nuova capitale del paese), Petrucciani dimostra che si può andare anche oltre, mettendo la dimensione locale al centro rapporto tra centro e periferie, interrogandoci cioè sull’impatto avuto dalle seconde nel declinare la discesa degli imperativi dell’integrazione istituzionale e amministrativa. La declinazione del politico tramite una storia delle comunità ha contribuito a riscoprire la dimensione territoriale nell’organizzazione nell’Italia unita, nel vivo delle pratiche sociali che allora si intrecciarono, tra politicizzazione della società e riemergente folclorizzazione del politico, pur secondo gli apparati simbolici e rituali che si andavano affermando con il primato dello Stato e l’affermarsi della moderna forma-partito. Anche il presente caso di studio dimostra per altro che la politica, nella sua versione ideologica, non solo si radicò sul terreno comunitario non prima dei decenni tra i due secoli ma che si innestò sui preesistenti conflitti, fossero di natura sociale, generazionale, fazionale o spaziale. Il senso di appartenenza politica, come ben si osservò, riguarda << tutte le sfere della mentalità e della cultura del luogo, e non solo il colore politico, anch’esso — tendenzialmente e fino a tempi relativamente recenti — più collettivo che individuale. >>³. Di qui la necessità di << ricostruire le modalità del passaggio da una sociabilità integrativa a una oppositiva >>, allo scopo di << scoprirne le condizioni a livello locale, studiando l’emergere dei partiti di massa e il loro ruolo nel cambiamento del discorso politico rivolto alle masse cittadine e contadine >>. Nella consapevolezza che nell’Italia unita l’emergere di una politica militante e di formazioni partitiche si ebbe nello spazio locale e in quello regionale ancor prima che a livello nazionale; laddove il radicamento territoriale delle culture politiche avvenne dapprima attraverso la politicizzazione delle reti associative di solidarietà e di tutela di interessi sociali anche popolari. Con lo studio di un territorio rurale dello Stato ex pontificio, significativo anche perché ascrivibile al raggio di influenza della capitale del Regno, Petrucciani affianca un diverso e originale caso di studio a quelli di cui si disponeva, relativi tanto alla campagna urbanizzata di regioni centro-settentrionali (come quelle emiliana, romagnola e toscana) che ai grossi borghi rurali e alle agro-towns del Mezzogiorno. Della peculiarità spaziale del caso di studio Petrucciani sottolinea la non riconducibilità ai consueti modelli di politicizzazione, settentrionale (progressivo ed espansivo) o meridionale (regressivo e immobile). La sfuggente provincia rurale della capitale diviene pertanto un diverso e possibile caso di studio in cui ancor meglio evidenziare continuità e innovazioni rispetto al passato; conseguente è stata la scelta del 1870 come data periodizzante di avvio, allo scopo di misurare l’impianto della politica nella rete istituzionale del centro dello Stato unitario, vedendo in particolare gli effetti locali delle riforme elettorali (politica e amministrativa) in una comunità comunque attraversata da una larga frammentazione, nella quale sopravvivevano sistemi locali di autorità sociale dotati di forme di legittimazione propria. Si ricostruisce pertanto la storia del collegio rurale di Albano, le forme e le pratiche attraverso cui l’organizzazione della parte politica (i rossi democratico-repubblicani e quindi anarchico-socialisti, i neri clericali dapprima legittimisti ma presto attori delle dinamiche sociali ed associative) andò assorbendo il tradizionale patronage comunitario, in una realtà contrassegnata da un contestuale processo di laicizzazione che avrebbe fortemente influenzato tanto le componenti laiche che quelle religiose della società civile.

    Collocando il caso di studio nell’orizzonte delle regioni euro-mediterranee, lo studio insiste sulla persistenza dei fattori propri delle società rurali e sul debole impianto di formazioni partitiche con una organizzazione nazionale che si andrà delineando come costellazione di microcosmi e culture politiche territoriali. Sotto questo profilo, attraverso un’accorta traduzione del concetto di sociabilità, proposto da Maurice Agulhon, dal caso francese a quello italiano, essa è valorizzata come categoria sociale intesa a focalizzare i processi di politicizzazione attraverso le trasformazioni nelle culture associative e nelle pratiche simbolico-rituali. Si evidenziano così i riflessi in ambito comunitario del rapporto tra consuetudini e mentalità diffuse, pratiche della vita di relazione, organizzazione degli interessi sociali e loro rappresentazione nella nascente sfera pubblica nella transizione dalla società d’antico regime alla società postunitaria. Anche per il caso della provincia romana ciò ha comportato una lettura tutt’altro che semplificata dei retaggi della pervasiva società rurale, solitamente incline a rappresentare un mondo quasi immutabile nei suoi caratteri, socialmente omogeneo e politicamente reclinato verso il passato. Ne emerge confermata l’idea che il processo di politicizzazione vada indagato non tanto come il prototipo di un univoco modello mediterraneo ma come la misura delle diverse tipologie che ne contrassegnarono l’affermazione nel corso del lungo Ottocento; in questo caso, nel diffuso reinvestimento sui caratteri latini del territorio come risorsa culturale grazie a cui ridefinire una peculiare e sedimentata identità locale etnocentrica (soprattutto ad opera della parte democratico-repubblicana) nel processo tanto di nazionalizzazione delle comunità periferiche che di politicizzazione delle pratiche di gruppo.

    Alla luce dell’orizzonte problematico e della spazialità mediterranea evocati, per il caso italiano e per avviare un necessario approccio comparativo, preliminari all’analisi del processo di politicizzazione della società rurale risultano almeno tre richiami : i tempi e le forme dell’unificazione nazionale, secondo un modello amministrativo che guardava ad uno stato unitario e fortemente centralizzato come quello francese e che però si sarebbe scontrato sia con le identità degli stati regionali preunitari sia con la funzione essenziale svolta dai poteri locali nella costruzione dello spazio politico; i caratteri di un sistema politico le cui basi di legittimità continuavano ad essere elitarie, con una società civile refrattaria a corrispondere alle moderne logiche della rappresentanza liberale, nonché con un allargamento del diritto di voto che solo a ridosso della Grande Guerra avrebbe portato l’Italia a condividere la natura universale del suffragio maschile analogamente ad altre realtà europee. Se in Italia, anche nelle campagne laziali, un primo apprentissage alla politica nella società rurale si era intravisto nel biennio 1848-49 con le esperienze repubblicane e rivoluzionarie, attraverso una sorta di eredità differita tenuta viva dai legami familiari e inter-generazionali, una effettiva politicizzazione di significativi strati sociali delle campagne si sarebbe avuta soprattutto dagli anni Ottanta. Fu allora che, mentre la società rurale era investita dalle conseguenze della crisi agraria (vinicola nel caso in questione), con la duplice riforma per l’allargamento del diritto di voto - dapprima politico (1882) e quindi amministrativo (1888) - e con il superamento del carattere organico della rappresentanza rispetto al corpo elettorale ristretto, un inedito dinamismo associativo concorse a porre in discussione le consuetudini comunitarie e a immettere le nuove forme della politica (le radici locali dei partiti nazionali) nel rituale sociale delle pratiche elettorali. In Italia inoltre, il collegio fu forse il luogo spaziale più significativo in cui prese forma e venne rappresentata la sfera politica nella sua proiezione nazionale, sia per quanto concerne i contenuti sociali sia con riguardo alle sue espressioni rituali e simboliche; uno spazio pubblico intermedio, osserva Petrucciani, anello di congiunzione tra le ristrette comunità di villaggio e l’ampio (ma anonimo e indistinto) spazio pubblico nazionale. Il collegio sembra infatti lo spazio idoneo per verificare il processo di allargamento della politica nella sfera pubblica: la formazione e i mutamenti del corpo elettorale, la legittimazione della classe dirigente, la funzione di patronage dei notabili nelle diverse (vecchie e nuove) espressioni del clientelismo politico, i linguaggi delle campagne elettorali nella contesa sull’uso dei luoghi pubblici (dal teatro alla piazza), la fisiologia della corruzione nella correlazione tra Stato e società locali (come nel caso eclatante delle elezioni del 1909), le professioni di fede dei candidati, le mediazioni sociali e culturali promosse dalle figure intellettuali nella costruzione di un pubblico discorso politico, le rappresentazioni rituali delle identità locali (sul piano politico-elettorale, ma anche civile e folclorico). L’estrinsecazione di questi fenomeni nella provincia rurale accentua inoltre la funzione del collegio in quanto luogo di mediazione tra cultura politica nazionale, identità comunitarie e emergenti culture politiche territoriali. Del resto il corpo elettorale amministrativo era più ampio di quello politico, soprattutto nei comuni rurali di piccole e medie dimensioni, dove la soglia censitaria era più bassa; fino a quando, con le riforme degli anni Ottanta, il municipio e il collegio si affermarono come le coordinate dello spazio politico nell’Italia postunitaria. Nella relazione (e dagli allegati statistici) presentata da Giuseppe Zanardelli a sostegno della riforma del voto del 1882, osservò Romanelli, si evidenziava << il marcato carattere rurale della popolazione italiana >>, laddove << il 76% degli elettori amministrativi e il 58% di quelli politici risiedevano in comuni rurali >>, con una arretratezza del corpo elettorale che veniva esemplificata dal fatto che in ben 1.242 comuni (su poco più di ottomila) risultavano meno di 10 elettori politici⁴. Come si evidenzia anche nel caso dei Castelli romani, alcuni percepibili mutamenti rispetto alle logiche comunitarie (pur modificate dal proselitismo di un influente movimento democratico-repubblicano di matrice garibaldina, grazie alla stampa in primo luogo) si sarebbero avuti soprattutto tra i due secoli con la discesa in campo delle candidature socialiste di partito; fu nel 1897 che ad Albano il socialista Guido Podrecca arrivò al ballottaggio. Fu allora che l’imperativo dell’allargamento del diritto di voto si sarebbe dovuto rapportare alla più ampia domanda di rappresentanza degli interessi di gruppi e ceti sociali, evidenziati in modo eclatante dalle agitazioni rurali e dalla diffusione dei conflitti agrari.

    Ancor più significativa, se collocata nel quadro macro-territoriale nazionale, risulta la vicenda del caso del collegio rurale di Albano (comune per altro, dal 1911 guidato da una giunta municipale di colore socialista). A suo tempo, a proposito dei diversi compartimenti territoriali (il nord, il centro, il Mezzogiorno e le isole), un politologo assai attento alla dimensione storica dell’analisi come Paolo Farneti già osservò che ancora a ridosso della Grande Guerra essi << mostrano, con pari intensità, il peso quasi doppio della campagna, intesa come provincia, sia per quanti hanno diritto di voto (elettori), sia per quanti esercitano questo diritto >>. Se poi si considerano i dati relativi all’affluenza al voto, mentre nelle regioni settentrionali gli elettori delle città si recavano alle urne alla pari e spesso anche più di quanto non avvenisse nella provincia rurale, << nel centro, come nel sud, è la campagna a partecipare elettoralmente più della città >>; una mobilitazione però, che le prime elezioni a suffragio quasi universale del 1913 contraddiranno, poiché, << mentre nel nord le popolazioni rurali tendono a rispondere all’allargamento del suffragio, le campagne del sud rimangono inerti e anzi, talvolta rilevano un tasso di partecipazione elettorale inferiore a quello che si dava sotto l’imperio del suffragio ristretto >>⁵. Quello del Regno d’Italia era pertanto un sistema elettorale dove il ritorno ai piccoli collegi uninominali (con le misure introdotte nel 1891) avrebbe ribadito il peso politico dell’Italia rurale, intrinseco alle dinamiche del processo di politicizzazione negli anni prebellici.

    Sono numerosi quindi i motivi per i quali, come qui si è ben fatto, riprendere gli studi sulle culture politiche territoriali nello spazio dei collegi elettorali e di quelli rurali in particolare, nella stretta correlazione tra i fattori integrativi dello spazio nazionale e quelli conflittuali della rielaborazione in ambito comunitario e locale; quando, sottolinea opportunamente Petrucciani a vantaggio di auspicate ed altre ricerche consimili, quel << tale rapporto fa sì che al cuore dell’integrazione si collochi un certo grado di conflittualità che condiziona termini e modi dell’integrazione stessa >>.

    Maurizio Ridolfi


    1

    P. Bevilacqua, Storia della politica o uso politico della storia?, << Meridiana >>, 3, 1988, p. 176.

    2

    R. Romanelli, Il doppio movimento. Il percorso storico della rappresentanza politica tra identità locale e spazio nazionale, << Memoria e Ricerca >>, 8, 2001, p. 159.

    3

    S. Soldani in M. Malatesta, A. Banti, S. Soldani, G. Pécout, M. Meriggi, Sociabilità e associazionismo in Italia: anatomia di una categoria debole, << Passato e Presente >>, 26, 1991, p. 24.

    4

    R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 175.

    5

    P. Farneti, Sistema politico e società civile, Torino, Giappichelli, 1971, pp. 219 e 223.

    Introduzione

    1. Questo lavoro considera 14 comuni rurali del Lazio (i Castelli Romani) nei rapporti che intrattengono con la trasformazione della politica in età liberale. Per il radicamento delle moderne famiglie politiche e la forte permanenza di identità e rivalità locali, questi paesi costituiscono infatti un contesto interessante in tale prospettiva.

    Sede di un’ antica presenza repubblicana, i Castelli ospitano la maggior parte delle sezioni socialiste della provincia. Qui è il centro nevralgico delle lotte per la terra che dilagano tra Otto e Novecento nella campagna romana¹ e qui si sviluppa << la punta di diamante del laicato cattolico del Lazio >>². Anche sotto il profilo socio-economico sono l’area più dinamica della regione, dove, a fronte dell’immobile Agro Romano, negli ultimi secoli si è diffusa una florida coltura viticola orientata al mercato. Infine, questi borghi detengono il primato laziale dell’impianto dei servizi che la civiltà moderna mette via via a disposizione (a cominciare dalla strada ferrata, introdotta già durante il regime pontificio) e quello dell’alfabetizzazione, superiore alla media nazionale³. Si tratta quindi di una realtà rurale tutt’altro che statica e isolata.

    Nonostante la serie di modificazioni che ne cambiano il volto, questo contesto viene però rappresentato da più parti — contemporanee e non — come una realtà meridionale, nel senso topico di arretratezza⁴.

    Scopo dell’indagine è allora seguire la scoperta della politica da parte di queste popolazioni, intendendola non tanto come progressivo passaggio dal locale (ipostatizione dell’arcaico) al nazionale (moderno), bensì come il doppio movimento di reciproco condizionamento che s’instaura effettivamente tra la realtà materiale e mentale del villaggio e lo spazio politico nazionale in costruzione⁵.

    2. Negli ultimi decenni la storiografia sull’Italia liberale, all’interno di una più ampia ripresa di interesse per la sfera politica, è tornata a interessarsi al problema del rapporto tra società rurali e politica moderna. Se nel dopoguerra gli studi classici sul movimento contadino avevano concentrato la propria attenzione sulla politicizzazione conflittuale — ovvero sull’emergere di un proletariato agricolo (il bracciantato) e dei suoi strumenti di lotta (le leghe), sulla loro capacità di rinnovamento della vita delle campagne e sui loro complessi rapporti con il socialismo italiano — per la storiografia recente << la questione principale è sapere se lo Stato ha effettivamente svolto quel ruolo di acculturazione che potremmo definire politicizzazione integratrice >> e in che misura a tale ruolo hanno concorso le forme di sociabilità prodotte dalle famiglie politiche che dalla vita di quello stato erano escluse⁶. È uno spostamento per molti versi inerente al più generale passaggio dalla storia sociale (dei soggetti sociali per lo più situati in basso) a una storia della società attenta alla più articolata interazione tra i diversi soggetti che compongono il quadro sociale⁷. Si è così passati dalla storia politica a quella che, facendo tesoro di oltre trent’anni di storia sociale e acquisendo gli stimoli provenienti dalla nuova storia culturale, è divenuta sempre più una storia della politica⁸. Uno spostamento attraverso cui, inoltre, lo studio della costruzione delle organizzazioni politiche e sociali e del loro funzionamento si arricchisce con la considerazione della cultura da esse ereditata e prodotta e delle modalità con cui essa è stata vissuta dai loro aderenti. Per questa via, guardando alle famiglie e organizzazioni politiche di parte quanto allo stato come produttori e diffusori di nuove culture di respiro nazionale, il problema della politicizzazione è venuto intrecciandosi — pur mantenendo una sua specificità e risultandone una componente peculiare — con quello dei processi di nazionalizzazione che attraversano con diversa intensità il lungo Ottocento, coinvolgendo territori e aree sociali diversi e in diverso modo venendo recepiti⁹.

    Per quanto riguarda il rapporto tra contadini e politica, sulla scia dei pionieristici lavori di Maurice Agulhon relativi alla prima espressione del suffragio universale e al radicamento di una cultura repubblicana nella Provenza rurale del primo Ottocento¹⁰, gli studi improntati al modello dell’integrazione si sono mossi nella prospettiva di un’<< analisi comparativa dei processi di politicizzazione e di civilizzazione nel più ampio spazio dell’Europa meridionale >>¹¹, cercando cioè di individuare ritmi e peculiarità assunti dal processo di democratizzazione delle nazioni mediterranee, più a lungo condizionate dal peso del mondo rurale rispetto ai modelli classici del liberalismo europeo¹². Si sono così meglio evidenziati i canali di circolazione delle culture politiche democratiche sul piano locale, il loro ruolo pedagogico, l’importanza del momento elettorale come snodo cruciale dello scambio tra centro e periferia e come moltiplicatore dei fattori di nazionalizzazione e organizzazione della politica.

    Gli studi che s’inscrivono in questa prospettiva, focalizzandosi sull’assimilazione, sono tuttavia risultati a lungo selettivi sia sul piano tematico che su quello territoriale. Il rapporto tra contadini e politica moderna è stato infatti considerato prevalentemente in termini di apprendistato, parte di un più ampio processo di civilizzazione attraverso cui i valori urbani e nazionali vengono assorbiti dalle popolazioni rurali in un movimento che segue prevalentemente la linea top-down e centro-periferia e in cui è il primo termine a definire norme e regolarità e dunque la direzione del processo stesso mentre al secondo è lasciata l’adesione — o meno — a quella direzione e normalità. << La politicizzazione, in quanto processo di civilizzazione ("incivilimento") >> è stata infatti pensata attraverso la << metafora corrente dell’acquisizione e della progressione dei saperi. Ci sono quelli che sanno o che si suppone sappiano da parte delle autorità garanti del nuovo ordine stabilito o che promettono l’universo vagheggiato e ci sono coloro che apprendono, volontari o costretti >>. Essa viene così intesa come << educazione alla partecipazione democratica e all’utilizzo dei canali della rappresentanza degli interessi >> o come << inculcazione della democrazia >> e quindi come ricezione — sotto tutela — da parte delle popolazioni delle campagne, di un patrimonio di pratiche, idee e conoscenze già strutturate e prodotte altrove¹³. La questione diviene allora se il mondo rurale << ha davvero appreso la politica >> e come i rurali << diventano dei cittadini italiani coscienti dei loro nuovi diritti >>¹⁴.

    Privilegiando le aree in cui l’assimilazione è maggiormente riuscita e in cui è più organico il rapporto tra città e campagna, gli studi sulla politicizzazione integratrice, al pari di quelli sul movimento contadino¹⁵, si sono dunque concentrati maggiormente sulle campagne urbanizzate della Toscana e della Valle Padana, in cui la Romagna — anche per la sua precoce e intensa vita associativa — è assurta a << una sorta di laboratorio per lo studio di queste tematiche >>¹⁶. Nella mappa così tracciata dei processi di politicizzazione, l’Italia del Centro-Sud, pur comprendendo al suo interno una notevole varietà di contesti e conoscendo peculiari e profonde trasformazioni anche sul terreno politico, ha assunto prevalentemente l’aspetto genericamente meridionale di realtà immobile e di << inquietante alterità >>, refrattaria a ogni assimilazione¹⁷.

    I risultati e la mappa sono però parzialmente condizionati anche dall’approccio adottato e quindi dal modo stesso di intendere la politicizzazione. Partendo da un modello specifico di politica moderna (la democrazia, o meglio, una certa idea di prassi democratica considerata normale) e ricercando l’assimilazione — o meno — a esso, l’esito dell’indagine rischia di risultare tautologico: il tipo di rapporto fisiologico con la politica moderna è definito in partenza, si stabiliscono le spie di tale rapporto, si individua il contesto in cui esse si presentano in maggior numero e se ne riscontra la politicizzazione. Se per questa via è stato possibile acquisire importanti risultati di ricerca, approfondire contesti specifici — quelli che hanno avuto un ruolo indubbiamente egemone in alcune congiunture della storia nazionale — e costruirne dei modelli, sono però rimaste escluse o sfocate realtà che pure hanno conosciuto il cambiamento, anche a livello politico. Ciò che non s’inscrive nel modello pre-definito, siano essi singoli aspetti o interi contesti, rimane infatti sullo sfondo appunto come alterità, arcaica e immobile in quanto non segue la dinamica e la traiettoria da cui si era partiti¹⁸. E con ciò restano in secondo piano anche i termini reali, anche se impropri e anormali, di una ricezione effettivamente avvenuta ma attraverso prassi e riusi che si discostano dalla norma proposta dall’alto e dal centro — sia esso incarnato da un’organizzazione politica o dallo stato¹⁹. Come ha infatti ricordato Romanelli a proposito del rapporto tra stato e società civile nell’Italia liberale, in un’Italia cioè segnata da un quadro istituzionale (che definisce anche le modalità dell’accesso alla vita politica ufficiale) fortemente accentrato e uniformatore e da una realtà sociale assai variegata sul piano territoriale, << non esistono paradigmi univoci e sicuri da applicare, e in base ai quali possano essere diagnosticati i casi fisiologici e quelli patologici: le cose andranno ricostruite distinguendo, e poi facendo dialogare, i linguaggi di riferimento e le concrete risultanze dell’indagine. >>²⁰

    Tali osservazioni generali valgono soprattutto quando si getta lo sguardo sulle campagne. Come ha infatti osservato Corbin, nella rappresentazione del rapporto tra contadini e politica in base all’analogia tra politicizzazione e civilizzazione, ha pesato un radicato immaginario sociale di lunga durata e di origine urbana. Gli storici che hanno affrontato i processi di politicizzazione delle popolazioni rurali hanno cioè << sposato il sogno secolare di un’educazione del popolo delle campagne che avrebbe assicurato il passaggio da uno stato di selvatichezza, ovviamente in gran parte postulato, alla cittadinanza >> mediante una serie di apprentissages²¹. Questo approccio è del resto legato a un’esperienza storica precisa, diversa da quella italiana. Come è stato notato, questa teoria dei vasi comunicanti deriva dalla << configurazione storica della borghesia francese portatrice della democrazia, della politica progressiva >>, a << classi popolari la cui storia sociale le predispone ad accogliere l’influenza morale delle classi medie >>²². E l’immaginario sociale di cui parla Corbin informa nel profondo l’approccio integrazionista della cultura francese. In Francia, infatti, << la dimensione nazionalista della cultura si cela [...] sotto un apparente universalismo: la propensione a concepire l’annessione alla cultura nazionale come promozione all’universale è alla base della visione rozzamente integratrice della tradizione repubblicana >>²³.

    La costruzione delle nazioni moderne — Italia compresa —, e quindi del loro spazio politico, ha indubbiamente rappresentato un processo << che portò i valori e modi di vivere della città a defluire verso la campagna o, per dirla altrimenti, che portò la città a colonizzare la campagna >>²⁴. Tuttavia assumere come criterio di giudizio l’assimilazione — per proseguire il paragone — dei colonizzati alla cultura del colonizzatore, ovvero quella della civiltà borghese che si va affermando proprio nel quadro degli stati nazionali e in contrapposizione a un’alterità barbarica che, all’interno, è rappresentanta prorpio dai contadini, significa confondere la modernizzazione (come effettivo processo di trasformazione sociale) con gli ideali e i valori che, nei soggetti in essa egemoni, la sostengono²⁵. Si rischia così di far propria la prospettiva soggettiva di uno degli attori coinvolti nel processo che si vuole analizzare (i dirigenti politici democratici e/o le autorità liberali) finendo per perpetrare << la medesima violenza che le popolazioni della penisola ebbero a subire per dirsi in qualche modo modernamente italiane >>²⁶. Si rischia soprattutto di lasciare sfocati, sullo sfondo come retaggi, le reazioni di queste popolazioni alle trasformazioni in cui sono coinvolte e le ragioni, culturali e materiali, di tali reazioni. È tuttavia da tale dialettica (di soggetti, bisogni, istituzioni vecchi e nuovi) che sgorga la politica, moderna non nel senso progettuale e ideologico ma della sua attualità. La pressione esterna dei processi di modernizzazione sulle campagne e i loro abitanti, anche nelle realtà più periferiche, non si esercita su una materia inerte bensì su contesti e soggetti che hanno un loro peso specifico (storico, culturale e materiale) che determina le modalità della ricezione e quindi anche le vie della politicizzazione²⁷. Tale pressione, inoltre, può essere mediata da figure intellettuali (in senso lato) che, a diversi livelli, filtrano i messaggi, traducono le culture e ne condizionano la ricezione così come influenzano — anche in campo politico — l’applicazione e la pratica effettiva delle norme proposte.

    È quanto negli ultimi anni è venuta mettendo in luce anche la storiografia sulla nazionalizzazione e sulle molteplici vie di costruzione dell’identità nazionale, la quale è stata sempre più scomposta in una pluralità di identità diverse legate alla varietà di contesti in cui viene prodotta, alle rielaborazioni che subisce, ai canali che percorre e ai soggetti che, facendola propria, la modificano. Fino a mostrare come la stessa definizione delle identità provinciali sgorghi dal confronto dialettico con la nazione, in cui si produce tanto una nazionalizzazione del locale quanto una localizzazione del nazionale. È emersa così la frantumazione che un progetto centrale come quello di nazione subisce nel suo vivere realmente nel tessuto sociale e si sono indicate le vie in senso inverso (bottom-up) che la costruzione dell’identità nazionale può percorrere²⁸. È stato da più parti mostrato anche come quel progetto non fosse necessariamente antitetico alle identità locali che mirava ad appianare ma come, anzi, proprio attraverso queste, si sia venuto realizzando concretamente. Del resto, come è stato notato, l’età del nazionalismo coincide con un secolo di municipalità²⁹.

    Anche gli studi sull’Italia meridionale hanno sempre più riportato in superficie i ritmi e movimenti specifici che la << grande campagna >> del Mezzogiorno pure conosce, anche sul terreno politico e della formazione di una sua società civile e di un’opinione pubblica locale, restituendo un’immagine più mossa e articolata delle vie che le sue componenti sociali e territoriali percorrono verso la modernizzazione e la politicizzazione³⁰. Di tale aggiornamento degli studi fa parte anche la rivalutazione laica di fenomeni politici distorti, irregolari, illeciti, o illegali come il clientelismo e la corruzione, attreverso i quali si è determinato effettivamente l’incontro tra stato e società civile e lo scambio tra centro e periferia in alcuni contesti³¹.

    Un altro filone di ricerche, che ha trovato un campo di applicazione privilegiato — ma non esclusivo — nello studio del momento elettorale, ha concentrato la propria attenzione sulla complessa dialettica tra i discorsi prodotti dal centro, il loro impiego in arene politiche e amministrative contestualizzate, la proposizione delle norme istituzionali e la loro interpretazione e messa in pratica da parte dei diversi attori in gioco³². Ne emerge così una realtà politica poliedrica, definitasi non per espansione, bensì come costruzione e ricostruzione a partire dalle visioni, dalle rappresentazioni e dalle pratiche dei diversi soggetti coinvolti, tutti con un ruolo attivo e creativo.

    In un recente bilancio, Maurizio Ridolfi ha potuto così invitare a << ripensare (e riscrivere) la storia del paese attraverso l’immagine di una Italia delle Italie >> e a indagare il rapporto tra centro e periferie << ripartendo da queste ultime e interrogandoci sull’impatto avuto sul centro dalle dinamiche locali >>. Ha quindi indicato come la nazionalizzazione della politica si sia sviluppata non come << proiezione di un coerente progetto calato dall’alto e dal centro >>, bensì attraverso la declinazione che di essa fu data nei contesti locali³³.

    3. Il caso del Lazio, in questo quadro, risulta emblematico delle difficoltà di esportare modelli costruiti su realtà differenti che hanno conosciuto storie differenti, e anche della necessità di mettere a fuoco non tanto o non solo le pressioni e gli input che provengono da fuori e la loro accoglienza ma anche le reazioni a essi dall’interno, le loro rielaborazioni e i compromessi o le commistioni che si determinano tra i due (o più) livelli.

    Gli studi sulla provincia romana, soprattutto per la prospettiva che qui interessa, non sono molti³⁴. Nettamente contrapposti sono tuttavia i quadri che i pochi lavori sulla politicizzazione degli abitanti delle campagne laziali hanno tratteggiato per il lungo Ottocento.

    Franco Rizzi, ispirandosi agli studi sulla sociabilità di Agulhon e ricostruendo le forme con cui è stata vissuta nelle comunità rurali la Repubblica Romana, individua già nel biennio 1848-49 uno << spartiacque tra un modo di intendere la politica ancorata alle logiche della comunità e alle sue gerarchie sociali, e un altro che lascia già intravedere la progettualità, l’organizzazione, la divisione ideologica come elementi costitutivi di una concezione moderna della politica. >>³⁵

    Secondo Caracciolo, che all’inizio degli anni ’50 ha seguito lo sviluppo della coscienza e dell’organizzazione di classe tra le plebi delle campagne laziali, è intorno al 1900 che si registra una << vera e propria svolta >>, quando cioè, grazie anche al clima giolittiano, << leghe contadine, cooperative, sezioni socialiste si moltiplicano prendendo la direzione delle masse rurali in movimento. >> Una svolta che nel 1904 si riflette anche sul piano elettorale, mostrando << il grande sviluppo delle nuove idee nella campagna >>. In questo quadro di crescente politicizzazione delle campagne, i Castelli, con una << tradizione rivoluzionaria già antica >>, costituiscono la << zona rossa per eccellenza >>³⁶.

    Infine Massimo Scattarreggia, che, << ricorrendo alle categorie interpretative della teoria della modernizzazione >>, analizza il corpo elettorale del Lazio in età liberale (composizione, comportamenti, fisionomia della rappresentanza espressa), sostiene che ancora all’inizio del Novecento si può parlare di << una modernizzazione della lotta elettorale in corso a Roma e ancora di là da venire in provincia >>. In questo panorama, segnato da un forte cleavage città-campagna che rispecchia quello nord-sud sul piano nazionale, i Castelli Romani (collegio di Albano) costituirebbero il luogo tipico << della dimensione assoluta del voto e del sistema di patronage. >>³⁷

    A seconda quindi del modello di riferimento (rispettivamente la sociabilità repubblicana di Agulhon; il paradigma marxista del movimento contadino; la teoria della modernizzazione) e dei sintomi di modernità politica che si cercano, la soglia della politicizzazione slitta in avanti o indietro, dando vita a quadri sostanzialmente inconciliabili. Non si tratta però di immagini non veritiere, bensì parziali. Ora mettendolo in risalto, ora sminuendone l’influenza o quantomeno annunciandone un suo indebolimento, è proprio il vischioso contesto locale a costiuire il corpo estraneo, il residuo, il retaggio. Questi quadri, nella loro inconciliabilità, ci consegnano tuttavia un’immagine complessiva articolata, segnata da continuità e mutamenti intrecciati, da realtà e soggetti sociali in gran parte non nuovi che, sotto la spinta più o meno diretta delle trasformazioni economiche in atto, degli stimoli provenienti dal vicino centro della vita nazionale, dalle opportunità e risorse messe a disposizione dalla civiltà moderna (servizi, mezzi di comunicazione, culture, notizie, ecc.) sono in movimento, utilizzando e plasmando anche gli strumenti messi a disposizione dalla politica. Tale compresenza, che, come si è detto, è molto accentuata nei Castelli, evidenzia l’impossibilità di tracciare, almeno come modello generale, una traiettoria lineare e progressiva della politicizzazione.

    Sotto questo profilo risulta quindi ancora fertile l’indicazione metodologica — che è anche invito all’umiltà — proposta dal gruppo di studiosi che, coordinato da Alberto Caracciolo, sul finire degli anni ’80 si è occupato dei riverberi della modernizzazione nello Stato pontificio di metà Ottocento facendo riaffiorare il movimento peculiare di una società che, seppure di rimbalzo, viene sempre più attraversata dalle trasformazioni che coinvolgono il resto della penisola. Presupposto di queste ricerche era infatti << un uso del tutto empirico di moderno, che scarichi il termine da ogni equazione col progresso o con una supposta superiorità verso sistemi premoderni >> per procedere << con il più grande rispetto — per così dire — verso culture radicate anche se per noi particolarmente lontane, verso la registrazione non polemica di modi di essere e di pensare alla cui logica l’uomo del Novecento è del tutto estraneo >>³⁸.

    Gli studi ispirati a tale approccio, però, se individuano gli effetti dell’onda lunga della modernizzazione che modificano i quadri — mentali e materiali — comunitari (il loro rapporto con la terra, la loro autopercezione) si fermano sulla soglia di Porta Pia, quando, cioè, l’onda si fa più corta, la pressione della civiltà moderna più incalzante e il confronto tra la nazione e i villaggi più diretto. I Castelli, nel panorama laziale, costituiscono il punto critico di questo confronto. È proprio questo rapporto, sul piano della scoperta della politica, che si è dunque voluto osservare più da vicino, tentando di metterne a fuoco i punti critici nell’intento di fornire la ricostruzione di un caso concreto a partire dal quale sollevare problemi.

    4. Per i motivi appena richiamati si è scelto il 1870 come punto di partenza dell’indagine, la quale si spinge fino a un’altra svolta istituzionale nel rapporto tra società locale e vita politica dello stato: sino cioè alla soglia dell’allargamento del suffragio del 1913 che precede il radicale sconvolgimento della Grande Guerra.

    La prima parte è dedicata al confronto e alle contraddizioni tra il progetto di modernizzazione liberale e le condizioni dei villani romani nel momento della loro integrazione nella vita politica nazionale. Partendo dalla rilettura di alcune pagine di d’Azeglio sui costumi degli abitanti dei Castelli negli anni 1820 guardati attraverso la lente della loro futura nazionalizzazione e proseguendo con le relazioni periodiche dei funzionari chiamati a realizzarla concretamente all’indomani del XX Settembre, si è seguito questo incontro dalla prospettiva civilizzatrice del nuovo stato, verificando il grado di corrispondenza e le dissonanze tra l’immagine ideale di cittadino che sorregge le istituzioni liberali e i comportamenti delle popolazioni della provincia in rapporto alla politica e mettendo in luce lo scarto tra i due livelli all’interno del quale prenderà corpo l’effettiva messa in pratica delle nuove norme da parte dei diversi settori della società locale (Cap. 1). Ci si è quindi spostati sul secondo termine del confronto, cercando di ricostruire l’ambiente umano di questi villaggi a cavallo dei due secoli per ponderarne la densità e individuarne le stratificazioni (sociali, economiche, materiali, identitarie) e le trasformazioni che esse conoscono nella nuova congiuntura (Cap. 2).

    Nella parte centrale sono trattati la formazione e i caratteri di una sfera pubblica locale come spazio intermedio tra villagio e nazione entro cui si forma l’opinione (e l’agire) delle popolazioni di questi paesi in rapporto alla politica. Come è stato scritto, << nella costruzione di una sfera pubblica per il confronto tra le opinioni e la competizione tra gli interessi, il significato profondo assunto dal processo di politicizzazione di società prevalentemente rurali (quali quelle dell’Europa meridionale e mediterranea) può forse riassumersi nel passaggio da consuetudini e comportamenti di natura ristretta a una sorta di agire comunicativo sempre meno circoscritto ai piccoli spazi del villaggio e del borgo. >>³⁹

    Tale passaggio — che non deve intendersi come superamento dei piccoli spazi del villaggio (orizzonte dell’esperienza e luogo di produzione di senso per milioni di persone) in favore dell’abbraccio dell’astratta nazione — si realizza attraverso la costruzione di spazi pubblici intermedi⁴⁰. È infatti a partire da quelle consuetudini e da quei comportamenti ristretti che le persone si rapportano, così come sono, alla nuova e più ampia dimensione. È cioè all’interno della densità di un determinato ambiente umano che messaggi, linguaggi e pratiche nuovi assumono senso e si organizzano in loco. Il processo non è unidirezionale. << Lo stesso raggio luminoso — scriveva Gramsci a proposito delle trasformazioni culturali e dei mutamenti d’opinione — passando per prismi diversi dà rifrazioni di luce diverse >>⁴¹. La circolazione delle idee e delle informazioni, infatti, << non lascia intatti gli oggetti della circolazione >> i quali, una volta ricevuti, divengono il << punto di partenza di un processo interpretativo >>⁴². La sfera pubblica locale può allora essere pensata come livello d’interazione posto a metà strada tra la comunità di villaggio e il più ampio e anonimo spazio pubblico nazionale, rappresentando lo snodo reale tra le due dimensioni in cui — per il tramite figure intellettuali poste in una posizione cruciale nelle relazioni tra l’interno e l’esterno, capaci di padroneggiare linguaggi diversi, di filtrare e tradurre messaggi e di rappresentare e farsi portavoce di istanze diffuse nel contesto di provenienza — avviene quel processo interpretativo. Più prossima e aderente all’ambito comunitario in cui si sviluppa, essa se ne differenzia in quanto definisce un campo di comunicazione e discussione interamente laico, competitivo e (potenzialmente) aperto a tutti, all’interno del quale agire e affermarsi al cospetto dei propri concittadini/compaesani per mezzo dell’argomentazione e della polemica aperta verso i poteri istituzionalizzati e quelli di fatto. Grazie anche agli spazi aperti e agli strumenti introdotti dal nuovo ordinamento, essa rappresenta un agone in cui chi possiede o riesce ad acquisire i mezzi culturali adatti e/o chi detiene o conquista un’autorevolezza personale può guadagnare consenso, modificare o acquisire posizioni a livello locale, contestare e corrodere autorità, gerarchie e deferenze tradizionali, riformulare valori e alleanze politiche. Tuttavia, nella misura in cui il pubblico che anima tale sfera appartiene a un ambiente sociale specifico, con un raggio d’azione incentrato in un contesto relativamente ristretto, la comunità locale e gli individui fisici che la compongono continuano a essere — con le loro relazioni, i rapporti personali e il quadro identitario di riferimento in un regime di conoscenza diretta — i referenti e la cassa di risonanza concreta e immediata di quanto si dice e si fa in questo spazio pubblico intermedio⁴³. In questa sezione, dunque, prenderò in esame le modalità con cui, attraverso l’intreccio delle precedenti forme di vita sociale e di comunicazione con la circolazione dei nuovi strumenti e linguaggi che animano lo spazio pubblico nazionale, si produce in loco, sin dagli anni Settanta, quell’insieme di canali e strumenti che sostanziano una sfera pubblica locale. In un gioco che, oltre alla dialettica stato/società, investe anche le divisioni e le conflittualità interne a quest’ultima. Mi soffermerò, cioè, sui colori che gli istituti di una moderna società civile, introdotti dagli ordinamenti liberali e sviluppatisi con la vita di relazione (in primo luogo stampa e associazionismo), hanno assunto qui e su come, attraverso essi, la popolazione locale è entrata in rapporto con la vita politica del nuovo stato.

    Ho quindi seguito come, grazie ai nuovi spazi di libertà aperti col 1870, gli elementi di una tradizione patriottica locale si esprimono e organizzano pubblicamente a partire dai luoghi di ritrovo quotidiano (in particolare dalle osterie) e da un antico repertorio di pratiche e linguaggi comunitari, investendoli di nuovi significati all’interno della contrapposizione tra rossi e neri determinata dal fatto stesso di Porta Pia (Cap. 3). Nella fase fluida del crollo del vecchio stato, quegli elementi (comprendenti vignaroli e operai) si presentano alle nuove autorità come unici titolari legittimi a gestire le istituzioni liberali, ricevendo in un primo momento la loro fiducia. In un secondo tempo, però, quelle autorità, di fronte allo scarto tra i modelli ideali che ne guidano l’azione e le realtà locali e alla turbolenza di alcune giunte, ritirano la fiducia accordata, affidandosi a soggetti più rassicuranti dal punto di vista sociale — tra cui alcuni clericali — e riconfermando o costruendo durature egemonie locali (Cap. 4). Dagli attriti generati da questa estromissione tra segmenti della società locale eredi della tradizione patriottica e istituzioni trae origine la stampa locale, strumento fondamentale e prerogativa del campo democratico. Tribuna unificante dei luoghi e dei soggetti di quel campo distribuiti nell’area, sede di una efficace rielaborazione culturale della tradizione e dell’identità locale di quel campo, attivissimo mobilitatore elettorale, tale strumento si radica saldamente nella vita politica di queste comunità contestando il potere, costruendo una via inedita per negoziare con esso e ingenerando reazioni sullo stesso terreno da parte degli avversari che contribuiscono a suscitare e organizzare pubblici diversi (Cap. 5). Infine, ho cercato di ricostruire il ricco ma assai frammentato tessuto associativo che anima i Castelli nei quarant’anni che seguono Porta Pia (Cap. 6 e Appendici). Tracciarne un quadro esauriente è pressoché impossibile a casa dell’intermittenza e delle imprecisioni delle fonti, anche quando hanno carattere sistematico. Nelle statistiche ufficiali spesso non compaiono società di cui invece, da altra documentazione, risulta l’esistenza, talvolta longeva. D’altra parte le società stesse rifiutano non di rado di rispondere alle richieste ministeriali. I fondi di Questura e Prefettura — fonti primarie delle stesse statistiche — sono spesso carenti, oltre che per le loro vicende conservative, anche per l’atteggiamento dei funzionari che hanno prodotto il materiale ivi raccolto, i quali manifestano avversione per le forme di aggregazione dei paesi di questa provincia, finendo per sottovalutare quanto effettivamente si muove su questo terreno. Il questore stesso riprende i delegati per la consuetudine di non inviare i rapporti periodici relativi alle società politiche, operaie e militari. Anche la più ricca fonte della Guida Monaci — che dal 1889 contiene schede dettagliate su tutti i comuni del Lazio — è tutt’altro che attendibile. I dati riportati risultano sovente sbagliati, forse influenzati anche dalle modalità della loro raccolta⁴⁴. Non è inoltre detto che ciò che compare (o scompare) nella guida compaia (o scompaia) con la stessa tempistica nella realtà: frequenti sono i ritardi nella registrazione dei sodalizi. La fonte più attendibile è allora la stampa locale che, prodotta in larga parte da elementi provenienti dalle stesse associazioni, non è però sistematica e la vita delle testate è accidentata come pure la loro conservazione. A queste difficoltà concorrono la frammentarietà e instabilità delle associazioni stesse. Nel 1878 — su richiesta del ministero dell’Interno — il questore afferma di non possedere una statistica delle società di mutuo soccorso ma che << nei comuni del Circondario non se ne hanno di regolarmente stabili. Queste società anziché prosperare, presentano, meno poche eccezioni, una continua decadenza >> rispetto alla statistica precedente. Anche la produzione di fonti dirette è così scarsa, visto che — prosegue il questore — la loro amministrazione è irregolare e la maggior parte delle società non redige un proprio rendiconto⁴⁵. Tale instabilità è dovuta a fattori diversificati: l’aggregazione e disgregazione molecolare dei partiti locali; il venir meno di un magnate da cui si dipende eccessivamente; le malversazioni di alcuni amministratori; la vigilanza (e repressione) delle autorità soprattutto dopo l’emergere di un movimento socialista locale; ecc. Incrociando le diverse fonti a disposizione nella consapevolezza dei margini di errore, è stato però possibile fornire un panorama più sistematico e realistico dell’associazionismo dell’area che consente di rivisitare un quadro che — costruito da studi saltuari e parziali risalenti ormai a diversi decenni fa e basati sui primi scavi di superficie in una documentazione dispersa — rimaneva ancorato allo schema evolutivo tipico della letteratura sul movimento contadino e forniva l’immagine statica e negativa di un mutualismo tardivo (sviluppatosi nel 1880-95) di natura urbana e artigianale, a lungo estraneo ai ceti rurali, mera espressione del paternalismo borghese⁴⁶. Si è potuto così collocare l’associazionismo locale in una più lunga durata, rintracciandone sia le eredità dalle precedenti forme di sociabilità, sia le continuità (anche nelle persone) con una tradizione politica di matrice garibaldina che si origina diversi lustri prima del 1870, coinvolgendo anche gli strati rurali nel quadro di un più generale processo di laicizzazione che, dopo Porta Pia, investe anche il mondo cattolico. In questa prospettiva, l’associazionismo — strettamente legato alla stampa locale — risulta un vettore di << irradiazione di poteri verso le comunità >>⁴⁷ nella misura in cui, a partire dall’iniziativa locale, ne organizza le diversificazioni interne facendole diventare delle forze, formalmente costituite, che in quanto tali si confrontano con le istituzioni o raccolgono consenso attorno a sé per gestirle in prima persona dopo averle conquistate per mezzo del voto. Tale associazionismo — tanto nella sua componente laica quanto in quella cattolica — si configura così come un protagonista di primo piano della sfera pubblica locale, assumendo anche un ruolo attivo nel promuovere l’istruzione dei soci e nel familiarizzarli con la stampa che viene fatta circolare al suo interno, organizzando pubblici diversi di lettori e aprendo loro la strada — con la riforma del 1882 — alla partecipazione al voto politico.

    La terza e ultima parte è dedicata ai riti della politica ovvero, in primo luogo, alle liturgie pubbliche (Cap. 7). Se nel corso del secolo — sotto la spinta delle rotture politiche (il ’49), di una più rigida regolamentazione da parte dello stato restaurato e del più generale pocesso di laicizzazione che coinvolge queste terre — il patrimonio festivo di questi paesi conosce una semplificazione e un impoverimento, dopo il 1870 esso viene rilanciato, arricchendosi e differenziandosi. Attraverso l’introduzione di nuove solennità laiche da parte dello stato nazionale, la promozione di riti e ricorrenze da parte dell’associazionismo dell’area e la diffusione di manifestazioni di partito, viene infatti riscritto il calendario festivo locale e si ridisegna il senso degli spazi pubblici. In questo processo, però, non si verifica un semplice passaggio dalle feste folkloriche a quelle civili e politiche moderne giacché gli effetti stessi dell’integrazione nazionale (la concorrenza, la crisi vinicola, il massiccio aumento del turismo) determinano la riesumazione e moltiplicazione di feste e divertimenti che, caduti in disuso, si confanno ai gusti di un nuovo pubblico borghese amante del folklore. D’altra parte, anche le nuove feste nazionali, collocate nel periodo tradizionale della villeggiatura, trovano in ciò un ulteriore motivo della loro benevola accoglienza. I due stili festivi — quello civile e quello folklorico — finiscono per fondersi in una commistione in cui entrambi vedono sbiadire il proprio senso originario, divenendo gli elementi intercambiabili — a seconda delle loro capacità attrattive — di una rinnovata festa locale orientata al mercato. La cornice festiva — dimensione fondamentale della vita comunitaria — diviene così uno degli snodi cruciali in cui, appropriandosi del repertorio dei simboli e dei linguaggi nazionali e politici, le popolazioni dell’area ridefiniscono le identità locali e radicano nella scansione della vita collettiva le proprie identità di parte (che talvolta s’intrecciano facendo delle seconde una componente delle prime). E, attraverso l’immagine che danno di sé, rappresentano la propria ricollocazione nella cornice della nazione. Proprio per le tensioni che attraversano la ridefinizione dell’uso degli spazi pubblici, monopolio del nuovo stato, questo diviene anche un terreno di scontro tra le diverse identità di parte e — soprattutto con lo sviluppo dell’associazionismo politico e l’inasprirsi del clima generale nel paese — tra queste e le autorità per l’agibilità e il controllo delle piazze. In breve, nella cornice festiva trovano espressione simbolica i sincretismi e i conflitti alla base dell’integrazione nazionale.

    In secondo luogo si è preso in considerazione — a conclusione del libro — il rito politico per eccellenza: l’esercizio del voto (Cap. 8). Come ha ormai messo in luce una storiografia consolidata, tale rito non si riduce alla compilazione della scheda e alla sua introduzione nell’urna, ma mette in moto tutto quell’insieme di procedure (designazione dei candidati, costituzione di comitati, formazione dei seggi, operazioni elettorali, proclamazioni, ricorsi, ecc.) e quella teoria di riti (riunioni, banchetti, comizi, congressi collegiali, trionfi, ecc.) di cui si compone la campagna elettorale⁴⁸. Chiamando la società locale a praticare norme e procedure stabilite dal centro per designare la propria porzione di rappresentanza nazionale e aprendo una finestra in cui mettere in campo strategie comunicative per conquistare il consenso dei propri concittadini/compaesani, il momento elettorale è un momento cruciale del confronto tra villaggio e nazione e tra stato e società. Nelle pratiche elettorali — messa in pratica delle norme e gestione delle procedure da parte di tutti i soggetti coinvolti (elettori, associazioni, autorità, ecc.) — si concretizza così lo scarto tra norma e prassi che può arrivare sino all’illegalità, anche ad opera di chi deve far rispettare la correttezza dell’esercizio di un diritto fondamentale nell’ordinamento liberale. Uno scarto in cui confluiscono e prendono corpo, attorno ai seggi, tutte le tensioni e gli attriti che attraversano la società locale e il rapporto tra essa e le istituzioni: le rivalità tra paese e paese; la competizione localistica che serpeggia in tutto il campo democratico; il conflitto con l’aristocrazia per le terre e quello tra contadini sulla loro distribuzione; ecc. Ai Castelli, sin dagli anni ’70 partecipano all’evento elettorale anche gli esclusi dal diritto di voto attraverso quei canali che rivendicheranno e organizzeranno in loco l’allargamento del suffragio. Le campagne si dilatano sempre di più, estendendosi per mesi o addirittura per anni (nella tornata del 1909). E per gli abitanti di questi paesi l’elezione — investendo precocemente i luoghi della parola e della socialità informale di artigiani e contadini, intromettendosi prepotentemente nelle conversazioni quotidiane, occupando intensamente le pagine dei giornali locali — diviene così il culmine della vita politica (e non). Il piano elettorale si delinea non solo come un momento di familiarizzazione con lo strumento indiretto del voto ma diventa esso stesso un terreno di confronto e scontro anche sulla prassi elettorale, violata da tutte le parti in causa. Brogli e irregolarità, lungi da costituire il frutto di un’imperizia iniziale, divengono rapidamente, anche per i democratici, uno strumento ordinario di lotta politica e una componente fisiologica nell’uso della scheda: il fare le elezioni a battaglia diventa nel corso dei decenni un nuovo costume locale.


    1

    A. Caracciolo, Il movimento contadino nel Lazio (1870-1922), Roma, Rinascita, 1952; G. Nenci, Realtà contadine, movimenti contadini, in A. Caracciolo (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Lazio, Torino, Einaudi, 1991; C. Cicerchia, Le origini delle Leghe di resistenza nei Castelli Romani, e D. Limiti, La Lega Braccianti di Genzano di Roma. Contributo alla storia delle sue lotte (1873-1945), entrambi in << Movimento Operaio >>, 1955, 3-4.

    2

    A. D’Angelo, Chiesa, cattolici e politica, in F. Cordova (a cura di), La provincia dimenticata. I Castelli Romani nell’Italia liberale, Roma, Bulzoni, 1994, p. 239.

    3

    Cfr. L. Piccioni, I Castelli romani. Identità e rapporto con Roma dal 1870 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1993.

    4

    Sulle accezioni di meridionale cfr. G. Gribaudi, Le immagini del Mezzogiorno, in R. Lumley-J. Morris (a cura di), Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d’Italia, Roma, Carocci, 1999.

    5

    R. Romanelli, Il doppio movimento. Il percorso della rappresentanza politica tra identità locale e spazio nazionale, << Memoria e ricerca >>, 8, 2001.

    6

    G. Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Milano, Bruno Mondatori, 1999, p. 376. Cfr. R. Zangheri, Contadini e politica nell’800. La storiografia italiana, in AA. VV., La politisation des campagnes au XIXe siècle. France, Italie, Espagne et Portugal, Rome, École Française de Rome, 2000. Per una sintesi delle stagioni storiografiche cfr. G. Crainz-G. Nenci, Il movimento contadino, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. III, Mercati e istituzioni, Venezia, Marsilio, 1991; G. Nenci, Le campagne italiane in età contemporanea. Un bilancio storiografico, Bologna, Il Mulino, 1997.

    7

    E.J. Hobsbawm, Dalla storia sociale alla storia della società, << Quaderni Storici >>, 22, 1973. Cfr. anche Id., La dimensione statale come fondamento delle articolazioni regionali, in F. Andreucci-A. Pescarolo (a cura di), Gli spazi del potere. Aree, regioni, Stati: le coordinate territoriali della storia contemporanea, Firenze, GEF, 1989.

    8

    Cfr. P. Bevilacqua, Storia della politica o uso politico della storia?, << Meridiana >>, 3, 1988. Sul rinnovato interesse per la storia politica e la considerazione, da un diverso punto di vista, dei suoi sviluppi cfr. R. Pasta, Dopo le << Annales >>: il ritorno alla storia politica, << Rivista di Filosofia >>, 1999, 2; G. Quagliariello, Il ritorno della storia politica. Note sui recenti sviluppi della ricerca, introduzione a Id. (a cura di), Il partito politico nella Belle époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia tra ‘800 e ‘900, Milano, Guiffrè, 1990.

    9

    Per uno studio sulla politicizzazione relativo al caso italiano e incentrato sulle relazioni tra quadro normativo e istituzionale disegnato dallo stato e radicamento delle diverse famiglie politiche nella costruzione dello spazio politico nazionale cfr. M. Ridolfi, Interessi e passioni. Storia dei partiti politici italiani tra l’Europa e il Mediterraneo, Milano, Mondadori, 1999.

    10

    Soprattutto M. Agulhon, La Repubblica nel villagio. Una comunità francese tra Rivoluzione e Seconda Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1991.

    11

    M. Ridolfi, La politicizzazione repubblicana nell’Europa meridionale (1830-1948). Un percorso di ricerca, << Memoria e Ricerca >>, 9, 2002, p. 16.

    12

    Cfr. M. Ridolfi, Interessi e passioni, cit.; G. Pécout, Dalla Toscana alla Provenza: emigrazione e politicizzazione nelle campagne (1880-1910), << Studi Storici >>, 1990, 3.

    13

    Risp. G. Pécout, Politisation et transition étatique dans le campagnes toscanes du Risorgimento, in AA. VV., La politisation des campagnes au XIXe siècle, cit., p. 84; Id., Politisation et intégration nationale en Italie: les campagnes toscanes des années 1860, << Revue Historique >>, 617, 2001, p. 84 ; M. Ridolfi, Sociabilità democratica e origine dei partiti politici: il caso del partito socialista italiano, p. 124, e M. Agulhon, 1848. Il suffragio universale e la politicizzazzione delle campagne francesi, p. 19, entrambi in << Dimensioni e problemi della ricerca storica >>, 1992, 1. Cfr. M. Ridolfi, La ricezione di Maurice Agulhon in Italia, << Contemporanea >>, 2002, 1.

    14

    G. Pécout, Politisation et intégration nationale en Italie, cit., pp. 84-85.

    15

    Cfr. le osservazioni di G. Nenci, Le campagne italiana in età contemporanea, cit., pp. 27-33; L. Accati, Se i contadini siano soggetti politici: un dibattito su The Journal of Peasant Studies, << Movimento operaio e socialista >>, 1977, 4.

    16

    M. Ridolfi, Il circolo virtuoso. Sociabilità democratica, associazionismo e rappresentanza politica nell’Ottocento, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1990, p. 135.

    17

    P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Roma, Donzelli, 2005, p. 14. Cfr., per un caso di studio, G. Gribaudi, A Eboli. Il mondo meridionale in cent’anni di trasformazioni, Venezia, Marsilio, 1990.

    18

    Cfr. G. Levi, Villaggi, << Quaderni Storici >>, 46, 1981.

    19

    Cfr., ad esempio, J.-L. Briquet, Potere dei notabili e legittimazione. Clientelismo e politica in Corsica durante la Terza Repubblica (1870-1940), << Quaderni Storici >>, 1997, 1, e Clientelismi, << Quaderni Storici >>, 1998, 1.

    20

    R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 8.

    21

    A. Corbin, Recherche historique et imaginaire politique. À propos des campagnes française au XIXe siècle, in AA. VV., La politisation des campagnes au XIXe siècle, cit., p. 48.

    22

    M. Malatesta in M. Malatesta, A. Banti, S. Soldani, G. Pécout, M. Meriggi, Sociabilità e associazionismo in Italia: anatomia di una categoria debole, << Passato e Presente >>, 26, 1991, pp. 19-20. Cfr. E. Grendi, La provenza di M. Agulhon, << Rivista storica italiana >>, 1972, 1; J.-L. Mayaud-P. Cornu, Peasants into Frenchmen in Francia. La posta del romanzo nazionale, << Contemporanea >>, 2010, 4.

    23

    P. Bourdieu, Spiriti di stato. Genesi e struttura del campo burocratico, in Id., Ragioni pratiche, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 103.

    24

    E. Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale 1870-1914, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 453.

    25

    Nell’Europa dell’Ottocento i contadini erano appunto, per usare le parole di Marx, << la classe che nella civiltà rappresenta la barbarie >> (K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 54). Infatti, come ha scritto Weber, << la civiltà (si pensi ai termini: civico, civile, civilizzato ...) è un fatto cittadino e così si dica dell’urbanità, ossia delle buone maniere. Parimenti è da polis (e cioè sempre dalla città) che derivano termini come politica, polizia e politesse (buona creanza). Ebbene, che cosa mancava ai contadini? La civiltà, appunto. >> (E. Weber, Da contadini a francesi, cit., p. 23). Per la mutua dipendenza dei concetti di civiltà e barbarie cfr. I. Sachs, Selvaggio/barbaro/civilizzato, in Enciclopedia, vol. XII, Torino, Einaudi, 1981. Per lo stato nazionale come quadro di sviluppo della civiltà borghese cfr. E.J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia (1848-1875), Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 101-120; Id. Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà, Torino, Einaudi, 2002.

    26

    R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Bologna, Il Mulino, 1979, p. 10. Per alcuni spunti cfr. P. Capuzzo, Nuove dimensioni del rapporto centro-periferia: appunti per un dossier, << Storicamente >>, 1, 2005.

    27

    Cfr. P. Bevilacqua, Quadri mentali, cultura e rapporti simbolici nella società rurale del Mezzogiorno, << Italia Contemporanea >>, 154, 1984; Id., Stato, culture consuetudinarie, legalità. Stato nazionale e società rurali del Mezzogiorno, in F. Andreucci-A. Pescarolo (a cura di), Gli spazi del potere, cit.; A. Di Nola, Dal mondo magico al museo contadino, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. III, cit.; J.-L. Briquet, Clientelismo e processi politici, << Quaderni Storici >>, 1998, 1.

    28

    Cfr. R. Balzani, La Romagna, Bologna, Il Mulino, 2001. Un recente confronto su questi temi è stato il convegno di Ghent (Belgio, 7-8 marzo 2008) su National identification from below. Per gli apporti della storia culturale alla storia del nazionalismo e il passaggio a un’impostazione che privilegia le rielaborazioni e i riusi di quanto viene dal centro così come i momenti di creazione dal basso cfr. P. Burke, La storia culturale, Bologna, Il Mulino, 2006.

    29

    Cfr. C. Sorba, Amministrazione periferica e locale, << Storia amministrazione costituzione >>, 5, 1997; I. Porciani, Identità locale-identità nazionale: la costruzione di una doppia appartenenza, in O. Janz-P. Schiera-H. Siegrist (a cura di), Centralismo e federalismo tra Otto e Novecento. Italia e Germania a confronto, Bologna, Il Mulino, 1995; S. Adorno-F. De Pieri (a cura di), Le città italiane nell’Ottocento, << Contemporanea >>, 2007, 2. La dialattica tra omologazione al centro e identità locale attraversa anche M. Degl’Innocenti, Identità nazionale e poteri locali in Italia tra ’800 e ’900, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2005; problema già posto dall’autore in Geografia e istituzioni del socialismo italino, Napoli, Guida, 1983, a proposito della genesi della prima organizzazione politica di massa.

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    Sotto la direzione di Piero Bevilacqua << Meridiana >> ha portato avanti un lavoro di emencipazione della storia dell’Italia meridionale dalla condizione di << residuo della storia degli altri >> in direzione di un

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