Una storia meridionale
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La storia che sto per raccontare è simile a tante altre, vissute dalle famiglie italiane; fatte di sacrifici, emigrazione, lontananze. Ma vorrei che i ragazzi delle nuove generazioni non dimenticassero chi è stato in gran parte artefice del loro odierno benessere. Chiedo scusa se quanto scrivo non è sempre del tutto preciso, fin nei particolari, ma il mio racconto è basato su ricordi ormai piuttosto lontani: ho cercato qualche aiuto, conferme da parenti che hanno vissuto i fatti e che ricordano gli avvenimenti di cui parlo. Li ringrazio - in particolare zia Lina, per le notizie preziose e le foto di famiglia - ma, ad essere sincera, non credo sia così importante che ogni particolare sia esatto!
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Una storia meridionale - Maria Luisa Caminiti
L’infanzia di Peppina
Mia nonna Peppina era nata negli ultimi anni dell’ 800 a Buscemi, un paesino sui monti Iblei nella Sicilia orientale, dimenticato da tutti, anche da quel governo dei Piemontesi che da qualche decennio governava l’isola dopo che Garibaldi l’aveva conquistata ai Borbone. Eppure il paesetto aveva un passato alquanto illustre, tanto che il suo nome e la sua posizione sono riportatati sulla carta geografica della Sicilia dei Musei Vaticani - nella galleria delle carte geografiche - con il suo nome più antico, Buxema. Le origini del paese sono certamente più lontane, infatti, sia la dominazione bizantina prima, che quella araba poi, hanno lasciato le loro tracce - ad esempio nella chiesa rupestre di Santo Pietro. La testimonianza certamente più significativa del suo passato, tutto sommato illustre, sono i ruderi del castello Requisenz, che ancora oggi accompagna chi si allontana dal paese, e dà il benvenuto a chi vi torna. I ruderi risalgono alla lunga dominazione araba di tutto il territorio circostante, quando il paese, posto in una posizione strategica, si chiamava Qal’at alr Samah, che ha lo strano significato di "Forte dedicato a quello con il neo" che sembrerebbe essere addirittura Maometto. La fortificazione fu in seguito distrutta e poi ricostruita dai normanni, dopo che questi ultimi si insediarono nella zona, al seguito di Riccardo Montalto: l’ubicazione era importante per la sua posizione strategica, dal momento che da quel sito si domina tutta la valle dell’Anapo, di cui si gode ancora una bellissima veduta. Gli Spagnoli, che dominarono la Sicilia per un periodo lungo ben cinque secoli, resero Buscemi un feudo della famiglia Requisenz. Il terribile terremoto del 1693 distrusse molti paesi della Sicilia orientale, e Buscemi fu uno di quelli che subirono i danni maggiori: fu del tutto ricostruito in un luogo diverso, nel giro di pochi decenni, e abbellito da chiese, monasteri e palazzi nobiliari; tanto che gli abitanti, orgogliosi, lo chiamavano - forse esagerando un po’ - "Palermo a picciola" (la piccola Palermo).
Mia nonna Peppina era l’ultima di tre figlie rimaste orfane della mamma, morta di parto. Il padre, un bell’uomo alto, biondo e con degli straordinari occhi azzurri, erede nei tratti somatici della lunga dominazione normanna, pur essendo rimasto vedovo ancora molto giovane, non aveva voluto risposarsi, temendo di dare alle figliolette una matrigna poco affettuosa. Si occupava lui dell’educazione delle bambine, con l’aiuto di qualche volenterosa sorella; Carmelo, per tutti Meno, era un contadino semianalfabeta, come del resto quasi tutti i suoi coetanei, ma aveva un grande dono: sapeva raccontare benissimo le favole della tradizione siciliana, tanto che nelle lunghe serate d’inverno, nella sua casa, si radunavano tutti i bambini del vicinato, intorno al braciere per sentire dalla sua calda voce, le favole di Marannunna. Marannunna non voleva sposare l’uomo che le era stato destinato; invece, si era innamorata di un ragazzetto, che come un novello Romeo, le diceva da sotto il balcone: "Marannunna, Marannunna, ietta i trizzi quantu chianu". Oppure Meno, raccontava le avventure comiche di Giufà, un po’ sciocco, un po’ furbo, che sapeva risolvere a suo vantaggio tutte le strane situazioni in cui si andava a ficcare.
Vedere tutti quegli occhioni dei bambini spalancati ad ascoltarlo, rendeva felice Meno, che spesso arricchiva con la fantasia le favole che gli erano state tramandate - non sapeva neppure più lui da chi - o ne inventava lui stesso di nuove, a cui dava finali strampalati. In particolare aveva notato uno dei bambini che non si stancava mai di sentirlo raccontare: era un ragazzetto magro magro, con i vestiti un po’ logori, che sicuramente erano stati portati per più stagioni dai suoi molti fratelli; si chiamava Salvatore, sedeva sempre vicino la sua Pippinedda, ed insieme commentavano a bassa voce, le vicende dei protagonisti delle storie, mentre le braci arrossavano i loro volti e scaldavano le loro mani coperte di geloni.
Spesso, i genitori che venivano a chiamare i figli per la cena, si fermavano anche loro affascinati da quell’uomo, bello e gentile, che con i suoi racconti faceva dimenticare per qualche minuto la vita difficile e faticosa di ogni giorno; la sua fama di narratore si era sparsa nella zona e venivano a sentirlo anche dai paesi vicini. Peppina era orgogliosa di questo papà speciale, che voleva per le figlie quell’istruzione che lui non aveva avuto; e così, quando cominciò ad andare a scuola, si impegnava ad essere la più brava della classe, per fargli onore, e diceva alla maestra che lei era la figlia di quello che "facìa li cunti".
In ricordo della mamma morta, che si chiamava Pasqua, le tre sorelline erano soprannominate da tutti, le Pasqualine. Per loro il momento più bello era quando a giugno il papà le metteva tutt’e tre sull’asino, e le portava in campagna per la mietitura. Il grano veniva raccolto e legato in grandi covoni, in cui era divertente tuffarsi mentre i contadini cantavano delle canzoni dolci e malinconiche, mangiavano pane nero con le dolci cipolle di Giarratana e bevevano l’acqua fresca dai bummuli di terracotta. A settembre poi c’era la vendemmia, e quando l’uva veniva scaricata dai carri nel palmento, anche loro avevano il permesso con i piedini nudi di schiacciarla. Più di una volta era successo che qualcuna di loro uscisse con la testa che girava, brilla per i fumi dell’uva spremuta, e con la vesticciola macchiata dal succo del frutto della vite. Quanta importanza abbia avuto l’agricoltura a Buscemi si può capire dal fatto che ancora oggi, chi si trova a visitarlo, può ripercorrere - in un giro etnoantropologico che si estende per tutto il paese - il ciclo del grano, dell’olio e dell’uva, ed avere un’esatta visione di come era la vita di chi di agricoltura è vissuto per secoli, passeggiando per quel museo all’aperto che è diventato il nostro paesello.
La terza domenica di settembre si festeggiava la Santa Patrona del paese: la Madonna del Bosco - oggi la festa è stata anticipata all’ultima domenica di agosto. La leggenda vuole che due eremiti muti avessero trovato, a circa due chilometri dal paese, un bellissimo dipinto raffigurante una Madonna con bambino, che tiene in mano un melograno; gli abitanti del paese decisero allora di dedicare alla Vergine un santuario nel luogo del ritrovamento. Ma c ‘era un problema: come portare l’acqua necessaria alla costruzione del santuario, dal momento che il paese era alquanto lontano? Certamente grazie ai due eremiti, evidentemente rabdomanti. Ecco infatti sgorgare una sorgente di acqua freschissima che ancora oggi zampilla dalla roccia ed è incanalata in una fontana. Da qui, ogni anno partono i festeggiamenti in onore della santa! Con i pensieri alla festa, quindi, Peppina con tutti i bambini del paese, si riuniva a casa di qualche parente, già mesi prima, per ritagliare i nzareddi, le lunghe fettucce di carta arrotolata e colorata, che sarebbero state lanciate in aria al momento in cui la statua della Madonna fosse salita dalla scalinata della Matrice, la chiesa al centro del paese, che è punto di arrivo della processione. Si trascorrevano così lunghi pomeriggi estivi. Ma la festa cominciava ancor prima del giorno stesso della Santa: con il triduo al Santuario e con il viaggiu scauso - quest’ultimo significava fare a piedi, scalzi, quel tratto di strada di circa due chilometri che ancora oggi porta dal paese al santuario, per poi raccogliersi in preghiera. Questo gesto solitamente lo compivano le mamme, le fidanzate, o le aspiranti tali, per ottenere una grazia dalla Madonna oppure per sciogliere un voto.
Era difficile per Peppina però dire quale fosse la festa più attesa. Infatti, un altro giorno atteso da tutti i bambini era "il giorno dei morti", quando la mattina vicino al letto, svegliandosi trovavano fichi secchi, noci, melograni mandarini, saschiteddi - un tipo di biscotti ripieni di frutta secca - ed anche qualche bambolina di pezza fatta dalle zie che, come diceva il papà di Peppina, sicuramente aveva portato la povera mamma, che dal cielo le proteggeva tutte. Ancora oggi, in Sicilia, non c’è Babbo Natale che tenga: ai bambini, i regali li fanno trovare i nonni e gli zii che sono andati in cielo; e così, fra i bambini ed i morti si tesse un rapporto di fiducia e amore.
A sorpresa, nella primavera in cui compiva otto anni, il suo amico Salvatore le annunciò che sarebbe partito per la Merica. Avrebbe raggiunto i suoi fratelli più grandi, che lo avevano preceduto in quel posto lontanissimo. Erano gli anni della grande migrazione, i giovani che erano abbastanza intraprendenti lasciavano le terre aride della Sicilia e andavano a "cercà fortuna all’estero" - come diceva la canzone -, specialmente negli Stati Uniti, tanto che nelle periferie delle città oltreoceano cominciavano a proliferare le Little Italy. Salvatore partì una mattina fredda e piovosa e Peppina si sentì molto sola. Quello fu il primo dolore della sua vita.
La Grande Guerra
Piano piano, la vita riprese i suoi ritmi consueti, la bambina si trasformava in una bella ragazza, con un leggero strabismo che dava al suo sguardo un non so che di intrigante. Quando la mattina della domenica le tre sorelle si recavano a messa, tutte e tre alte più delle coetanee e floride come voleva la moda dell’epoca, i giovanotti lanciavano sguardi di ammirazione. Nel periodo di carnevale spesso venivano organizzate feste da ballo, alle quali Peppina partecipava sempre con le sorelle. Il padre era molto ricercato in quelle occasioni, perché sapeva comandare in francese la quadriglia: il ballo di moda all’epoca che vedeva fronteggiarsi dame e cavalieri, e la giovane donna veniva spesso invitata a ballare dai ragazzi del paese. Una volta, durante un ballo in piazza - aveva sedici anni ed un vestito nuovo di mussola azzurra -, venne invitata a ballare un valzer, nientedimeno che dal barone di un paese vicino; questo episodio la consacrò la più bella del paese.
La stagione dei balli e della