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L'architetto dei sogni
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Ebook276 pages4 hours

L'architetto dei sogni

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About this ebook

La storia di un architetto del presente si fonde con quella di Gino Coppedè, geniale inventore di uno dei quartieri più affascinanti di Roma, in una trama mistery che guarda al soprannaturale.
Tra le decorazioni fantastiche che animano il Quartiere Coppedé si muove una creatura senza nome e senza volto mentre l’architetto Virginia Marchi e Giulio Sartorio, operaio che si rivela brillante e frustrato archeologo, indagano alla ricerca della verità su una morte misteriosa avvenuta decenni prima. Ma se non fosse l’unico omicidio dimenticato?
Ispirato alla guida “Il fantastico Quartiere Coppedè tra simboli e decorazioni”, il romanzo racconta una storia fantastica in luoghi reali.
LanguageItaliano
Release dateMar 16, 2016
ISBN9788892571976
L'architetto dei sogni

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    L'architetto dei sogni - Giovanna Pimpinella

    Giovanna Pimpinella

    L'architetto dei sogni

    Proprietà letteraria riservata

    Giovanna Pimpinella

    Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni

    I edizione marzo 2016

    www.giovannapimpinella.it

    info@giovannapimpinella.it

    UUID: 09172594-eb8a-11e5-a0b6-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Nota dell'autrice

    Parte I Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto. (Italo Calvino)

    PARTE II Sol omnibus lucet Il sole splende per tutti (Petronio)

    PARTE III I concetti creano gli idoli di Dio, solo lo stupore coglie qualcosa! (Gregorio Nisseno)

    Ringraziamenti

    Nota dell'autrice

    Questo libro nasce da uno studio scientifico che è poi diventato un incontro con la meraviglia che Gino Coppedè ha donato a Roma nella progettazione del Quartiere Coppedè.

    Le architetture e le decorazioni seguono uno stile unico che per questo le fa identificare con il cognome del loro autore. Proprio questa unicità ricca e vitale le ha rese spesso bistrattate dalla critica, ma molto amate da chi le ammira.

    Gli esterni degli edifici che sono protagonisti del racconto esistono veramente, come sono corretti i significati iconologici dei simboli che vengono presentati nel corso della storia, mentre sono frutto di fantasia i personaggi e gli interni, nonché la biografia di Gino Coppedè, le cui spoglie mortali riposano tranquillamente a Firenze insieme a quelle dei familiari.

    Ma anche se il Quartiere è costruito sulla fantasia, forse alcune cose sono più reali di altre, così non sorprendetevi se, nel fare una passeggiata, potrete ritrovare, tra le tante cose, una grata dall'aspetto familiare da cui si vedono gradini che scendono nell'oscurità...

    Parte I

    Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto. (Italo Calvino)

    Piazza Mincio, 30 settembre 1927

    Aveva mal di stomaco, un dolore latente e costante, iniziato con un po’ di acido ed aumentato fino a diffondersi come in un moto circolare a tutta la pancia. "Mi duole, pensò secco toccandosela leggermente, Devo smetterla di ingozzarmi, continuò a pensare altrimenti non solo ingrasserò, ma starò sempre così male".

    Il pensiero non era confortante, come non era confortante quel fastidio silenzioso, non era mai stato un tipo capace di fare sacrifici o rinunce quando si trattava di mangiare. La fame era qualche cosa che faceva parte della sua classe sociale, e per questo, in un certo senso, andava rispettata.

    Invece ora era seduto sul sedile che affiancava l’ingresso dell’edificio in piazza Mincio n. 2, con le braccia incrociate e una mano inconsapevolmente sullo stomaco, a domandarsi come avrebbe fatto a rinunciare a una delle cose che gli procurava più piacere: la lasagna.

    Si fece uscire un sospiro neanche troppo silenzioso e guardò l’orologio, era arrivato dieci minuti in anticipo, grazie a Dio c’era quel sedile, altrimenti sarebbe dovuto stare in piedi ad aspettare. Intanto guardava i passanti, pochi per la verità. Gli appartamenti non erano stati ancora venduti tutti. C’era poco da fare, quella era ancora campagna, a Roma la crisi dopo la Prima Guerra Mondiale si sentiva ancora tutta.

    "Hanno voglia a pontificare i Piemontesi, qui di case ce ne sono anche troppe, tutte vuote, e loro permettono che si continui a costruire, ovunque case, case, case…" – guardò la fontana, era lucida sotto i raggi del sole del mattino, non credeva che con il cemento armato si potessero fare fontane così belle, era abituato al Bernini lui, mica a questa roba finta che però possedeva un fascino tutto suo.

    Lo sguardo si spostò più in alto, verso il palazzo di fronte, dove sul portone era stato dipinto un grande ragno nero che restava appeso ad un fondo dorato così da sembrare ancora più nero e ancora più vivo.

    Ecco la sensazione di disagio che tornava, ma non era solo il mal di stomaco, era anche per una serie di circostanze che lo innervosivano. Primo fra tutti la persona che aspettava, l’ingegnere era Gran Maestro Architetto, mentre lui era Apprendista Libero Muratore.

    Era entrato solo da pochi mesi nell’Ordine, era stato grazie a suo cugino, perché da solo non si sarebbe mai potuto permettere di far parte di quella élite tanto prestigiosa, anche se lui era l’equivalente di una donna delle pulizie al momento, ma aveva speranza di migliorare, e mentre lo diceva si toccava il piccolo ciondolo che aveva al collo. Clara non lo sapeva e non lo doveva sapere, era una fervida cattolica, mentre lui si sentiva un liberale, e per questo il dono di quel ciondolo, durante dell’iniziazione, era stato uno dei momenti più belli della sua vita. Ricordava ancora lo stupore quando glielo avevano aperto davanti. Sembrava una pallina d’argento ed invece si schiudeva come un fiore e mostrava tutti simboli di cui, gli avevano detto, avrebbe imparato man mano il significato. Ma la piramide con l’occhio e il compasso li aveva riconosciuti subito.

    Quindi era un po’ nervoso quel giorno perché l’Ingegnere non lo sapeva che anche lui ora era un confratello, ma non era sicuro di volerglielo dire, anche perché pensò al secondo motivo per cui era a disagio: quel posto dove era stato costretto a venire. L’insieme non era niente che avesse mai visto, ma il particolare, le maschere romane, i leoni, gli scudi, erano tutti elementi familiari e rassicuranti, presi singolarmente. Il problema era l’insieme.

    Gli sembrava quasi che le decorazioni si spostassero, si muovessero. La zampa del ragno sembrava più a destra qualche secondo prima, e anche le rane della fontana, credeva fossero otto, invece erano nove…

    La sensazione di disagio stava diventando nausea. "Maledetta lasagna", pensò alzandosi per cercare di respirare meglio, si sentiva come sopraffatto da quel sentimento così inusuale per lui, doveva essere stata proprio la lasagna a farlo stare male. Trasse di tasca il fazzoletto, si alzò il cappello sulla fronte e se l’asciugò, era coperta di un sottile strato di sudore freddo. E in quel momento una mano leggera gli si posò sulla spalla provocandogli un sussulto involontario.

    - L’ho spaventata? - chiese l’uomo, gli occhi azzurro pallido lo guardarono con quell’espressione fredda che aumentò il suo disagio.

    - Ma si figuri! Ero solo sovrappensiero – minimizzò rimettendosi il fazzoletto in tasca e cercando di ricomporsi sistemandosi il cappello.

    - Allora vogliamo andare a vedere questa cantina? – disse l’Ingegnere con un tono affabile mentre si lisciava i mustacci brizzolati in un gesto quasi compiaciuto.

    -Certo, certo, non capisco come sia stato possibile che sia saltato l’impianto, Maurizio, il ragazzo che ha eseguito il lavoro, garantisce di essere stato molto attento.

    - E’ per questo che ho chiamato lei e non Maurizio. Si rende conto che se la Società Anonima venisse a sapere che succedono questi guai di manutenzione a poco tempo dalla consegna sarebbe capace di farvi causa? Considerato poi che qui ancora non si è ancora venduto tutto dobbiamo preservare l’immagine del Quartiere, la sua aurea di modernità e lusso. Converrà con me che è fondamentale che rimanga immacolata.

    - E infatti la ringrazio Ingegnere. Lei si che è sempre stato una persona su cui si poteva contare, anche quando c’era il cantiere. – Intanto si malediceva per non essere venuto con Maurizio, allora responsabile di quel lato del Palazzo, e per essersi preso l’onere da solo di quel pasticcio. Mentre attraversavano l’androne, decorato da una testa orripilante con la bocca spalancata, sentì con sgomento che la lasagna iniziava a farsi strada verso l’uscita, ma stoicamente decise di rimandarla indietro.

    Guardando verso le scale che si addentravano nelle viscere del Palazzo degli Ambasciatori, così chiamato, aveva saputo, perché degli Ambasciatori erano stati tra i primi a comprare gli appartamenti, ripensò che non era tornato in quel palazzo dal giorno della consegna, tre anni prima, nel 1924 quando, grazie a Dio, la ditta lo aveva mandato a costruire un villino a Prati.

    Aveva odiato quel lavoro dal primo giorno, era lontanissimo da casa sua, figurarsi che lui abitava a S. Pietro. Quando avevano iniziato a lavorare non ci arrivavano ancora i filobus, c’era solo la chiesa e qualche altro palazzo.

    All’inizio, nonostante la situazione disagevole, sembrava comunque un buon lavoro, Clara lo esortava ad avere pazienza, considerato che avevano iniziato proprio durante la guerra la cosa non era male. Non era infatti da sottovalutare che mancava la manodopera, tanti ragazzi erano andati nelle trincee e non erano più tornati, quindi pagavano bene. Poi erano cominciati gli incidenti, e nel cantiere si era diffusa un’aria molto tetra.

    Era normale che succedessero disgrazie, che la gente si facesse male, che al limite morisse, si moriva talmente tanto in quel periodo e nei modi più strani ed improvvisi che non era poi così sconvolgente per chi lavorava in un cantiere. Ma ciò non toglieva che quel progetto che veniva messo su, pietra dopo pietra, gli procurava un costante senso di smarrimento, come se quell’insieme di creature che si affacciavano dalle finestre, dai portoni, letteralmente da tutti gli angoli, fossero state messe là per una ragione che gli sfuggiva, non per semplice decorazione, e che gioissero ogni volta che si versava sangue nelle loro vicinanze.

    - Eccoci arrivati – disse l’Ingegnere tirando fuori l’ultima chiave, quella che apriva l’ultima porta del corridoio scuro che avevano percorso mentre lui si era distratto a riflettere. Non era sicuro neanche di quale cantina fosse, aveva un’aria che non gli era familiare, quindi rimpianse ancora una volta Maurizio: adesso iniziava a sospettare che non sarebbe stato capace di risolvere il danno.

    La sacca gli pesava sulla spalla mentre il gesto cortese dell’ingegnere, che gli teneva la spessa porta di metallo aperta, lo invitava a precederlo nella stanza.

    Tirò fuori la torcia e gli venne un pensiero improvviso, mentre entrava in quel buio spesso come un tessuto, che lo avvolgeva a partire dalle gambe e saliva come a volergli togliere l’aria, ricordò il volto di un carpentiere che aveva conosciuto ai tempi e che gli avevano raccontato essere morto in un incidente dopo che se ne era andato lui. Era un uomo dai capelli rossi, gli occhi grandi e chiari, era caduto in una voragine mentre scavavano per le fogne sotto la fontana delle rane, si era rotto il collo all’istante. Gli sfuggiva il nome.

    – Non mi ricordo come si chiamava. – disse esprimendo il pensiero ad alta voce, rendendosene conto solo a fine frase e vergognandosi di aver parlato da solo. Eppure per quanto si sforzasse gli rimaneva davanti l’immagine del viso ma non ricordava il nome dell’uomo, un uomo col quale però aveva mangiato, scherzato e sudato insieme per almeno due mesi.

    - Adamo Bucchi – Si sentì rispondere dall’ingegnere, con il solito tono calmo e sereno, ma assolutamente fuori luogo, visto che aveva risposto ad una domanda che non poteva conoscere e che il carpentiere morto si chiamava così, ora lo ricordava. Ma non fece in tempo a sorprendersi, né a girarsi per vedere quegli occhi di ghiaccio che lo salutavano senza parole, sentì la porta che si chiudeva con un tonfo e lo scatto della serratura.

    Rimase un attimo interdetto, era successo tutto troppo in fretta, l’Ingegnere aveva risposto ad un suo pensiero come se gli avesse letto la mente, poi era sparito … No peggio, lo aveva chiuso dentro.

    Si mosse verso la porta sapendo già che era chiusa dall’esterno, la illuminò con la sua torcia e all’improvviso gli sparì il mal di stomaco.

    Il tempo si invertì e tutto diventò come al rallentatore, allungò la mano verso la maniglia illuminata dal piccolo fascio di luce gialla e mentre la toccava, nel buio che da tessuto era diventato liquido, sentì un rumore alle sue spalle. Era come un fruscio di piedi nudi che strusciano esitanti sul pavimento. Un suono breve, terrificante e rumoroso nel silenzio ovattato che lo avvolgeva. Rimase con la mano appoggiata alla maniglia senza tentare di girarla.

    Sempre alle spalle, lo colpì come un flusso d’aria gelida che gli fece rizzare i peli sul collo e gli tolse la voce, si rese conto di non essere più padrone del proprio corpo, era immobilizzato. La gola era chiusa e non pensava neanche di poter urlare. Sapeva che tutto quel disagio, tutte quelle brutte sensazioni che aveva ogni volta che arrivava in quel luogo erano vere. Sapeva che dietro alle sue spalle c’era qualche cosa da cui non poteva scappare.

    Chiuso sottoterra, attirato in un trappola da un perfetto sconosciuto che doveva essere un confratello ma lo aveva raggirato, perse la ragione o la ritrovò pensando che quello fosse un incubo e che quindi avrebbe dovuto svegliarsi.

    Era tutto troppo assurdo, irreale, una paura così era inconcepibile per lui che aveva vissuto tutta la vita in una modestia di animo e sentimenti. Decise quindi di svegliarsi, era insopportabile quella sensazione e indispensabile uscire dal sogno. Ma non ci riusciva, restava a fissare la maniglia e il fascio di luce che la illuminava. Intanto il silenzio fu spezzato da un altro rumore, gli sembrò un sospiro rassegnato ed insieme sollevato, come di qualcuno che avesse preso una decisione.

    Allora decise anche lui, magari se si fosse girato, se avesse fatto qualcosa avrebbe rotto l’incantesimo del sonno e si sarebbe risvegliato dall’incubo, con sua moglie vicino che russava, un russare basso e lento proprio come il sospiro che aveva udito.

    Prese un respiro profondo riempiendosi i polmoni dell’aria umida e densa della cantina e iniziò a girarsi lentamente perché ogni piccolo movimento gli richiedeva un’immane fatica, come se il buio intorno a lui fosse diventato cemento.

    In quei secondi interminabili compì una rotazione che lo portò con le spalle alla porta e diresse la luce dritto davanti a sé. La luce invece attraversò il buio con scioltezza, illuminando pareti nude fino ad incontrare un ostacolo. Dapprima non fu sicuro di quello che vide, fu come se la vista gli si fosse offuscata per qualche istante, poi una lacrima gli scese lentamente dall’occhio destro senza che se ne rendesse conto, mentre una sensazione di smarrimento, di puro terrore, travolse la sua mente. Il resto furono grida che si persero nel silenzio del corridoio deserto. 

    17 marzo 2010

    Aprì la persiana con un colpo secco, che insieme ruppe il silenzio e inondò tutto con un abbagliante raggio di luce gialla. Una nuvola di polvere si dissolse nell’aria, come scoperta dalla luce che aveva prepotentemente svegliato quella stanza e rotto l’equilibrio del suo disordine e del suo abbandono. Un sonoro sternuto concluse la danza improvvisata dei granelli e Elisabetta Marchi, dall’alto del suo metro e settantacinque, si aggiustò i lunghi capelli castani in un gesto automatico mentre si guardava intorno perplessa.

    "Questa polvere mi ucciderà", pensò cercando un fazzoletto per soffiare il naso improvvisamente gocciolante, poi diede uno sguardo desolato alla stanza. Il pavimento in pratica non c’era più, le pareti erano un insieme di buchi e cemento fresco, dal soffitto pendeva una lampadina solitaria. Si trovava nel paradosso dell’architetto, ovvero seguire una ristrutturazione per se stessa, e si rendeva conto che era la cosa più stressante dell’universo perché era insieme cliente e esecutore, ovvero non aveva nessuno a cui dare la colpa, oltre alla ditta naturalmente.

    Cercando di non rovinare le ballerine, si mosse leggera tra un pezzo di pavimento sopravvissuto e l’altro, verso la stanza attigua, dove il trambusto dei martelli e il vociare degli operai era incominciato da un bel po’.

    Elisabetta era un tipo che non potevi ignorare quando entrava in una stanza. E non solo per la statura, ma perché c’era qualche cosa che arrivava prima di lei, come la leggera brezza elettrica che preannuncia i temporali estivi. Gli occhi celesti del resto ricordavano proprio i cieli nuvolosi prima di una grossa pioggia, mentre l’insieme del viso era regolare ed insieme deciso. Era bella, ma di una bellezza fatta dall’insieme, perché singolarmente le orecchie erano un po’ a sventola, il naso troppo dritto, la bocca stretta, però tutti questi elementi si univano con armonia agli occhi così vigili ed insieme profondi e alla linea della mascella che le dava un aspetto serio e per alcuni gelido.

    Proprio il gelo si diffuse appena varcò la soglia, o quello che ne rimaneva. Igor e Giulio, i due operai presenti quel giorno, addetti agli impianti, si zittirono di colpo e rimasero a fissarla. Ma non perché fossero sorpresi o affascinati dalla sua bellezza, bensì perché sapevano che avrebbero ricevuto qualche richiesta assurda, oppure avrebbero dovuto rifare qualche cosa, o peggio, solo qualche invettiva che comprendeva molte parole che non capivano.

    Ma questa volta furono fortunati, Elisabetta li ignorò, aveva bisogno d’aria, la polvere era troppa quel giorno, così attraversò la stanza e si ritrovò prima sul pianerottolo e dopo mezza rampa fuori dal portone della sua nuova casa in piazza Mincio 4, nel quartiere più bello di Roma: il quartiere Coppedé.

    Attraversò rapida la piazza, diede un’occhiata alla fontana delle rane in cui da ragazza, quando andava all’attiguo liceo Avogadro, era stata più volte gettata, e si posizionò dall’altra parte, sul comodissimo sedile di piazza Mincio 2, ad ammirare la facciata del suo palazzo ed insieme a cercare di svuotare la testa dall’ansia che stava crescendo.

    I lavori erano iniziati da tre mesi e ancora non vedeva luce, casa di sua nonna, resa disponibile dopo una causa decennale con gli altri parenti e che lei aveva finalmente vinto, era stata in totale abbandono per troppo tempo, i lavori si stavano rivelando eccessivamente costosi e lei era stufa di vivere nel monolocale che era riuscita a ricavare da una parte dell’appartamento in attesa di sistemare tutto il resto.

    Mentre faceva queste riflessioni si preparava in automatico una sigaretta, si concedeva 3 sigarette al giorno, in concomitanza coi caffè, e le faceva con il tabacco perché perdendo tempo le sembrava che il rito durasse di più.

    Con un sospiro guardò prima la sigaretta, che era venuta abbastanza male, poi la facciata del palazzo di fronte a lei, sul portone c’era un enorme volto arcigno che la fissava e sopra ancora un ragno, altrettanto grande e nero, che si muoveva su una tela a fondo dorato. Ancora più su un cavallo circondato da due grifoni, con in groppa un’incudine.

    Le decorazioni complesse e importanti erano il marchio di fabbrica dei palazzi che si affacciavano sulla piazza, famosa per i Villini delle Fate, ovvero tre villini che traboccavano di affreschi e sculture talmente fantastici da non sembrare case vere, e per la Fontana delle rane, al centro della piazza. Qui zampilli allegri e lucenti uscivano appunto da simpatiche rane poste sul bordo delle vasce regalando imperdibili giochi di luce. Ma neanche quella visione confortante unita alla nicotina riuscì a farle sparire il prurito al petto, sintomo insieme di allergia alla polvere e stress emotivo.

    E mentre tirava l’ultima boccata rassegnandosi a passare un’altra giornata improduttiva dietro i due operai trogloditi ne vide proprio uno che usciva dal portone e si guardava intorno.

    Beccato che si fa la pausa caffè non autorizzata pensò alzandosi in piedi e preparandosi mentalmente la sgridata, ma non fece in tempo perché l’uomo la vide e le venne incontro con aria abbastanza agitata.

    -Architetto, può venire che Giulio ha trovato una cosa strana?

    Elisabetta sentì una fitta di prurito ma si trattenne dal grattarsi, già vedeva un tubo squarciato e una perdita zampillante come la fontana che si stava lasciando alle spalle e lei che si dannava per farlo sistemare.

    Ma non c’era acqua che zampillava, in compenso forse si dannò lo stesso. Rientrò nella stanza dove lavoravano gli operai e trovò quello italiano, Giulio appunto, con le braccia incrociate e le spalle al muro che guardava verso il pavimento, ne seguì lo sguardo e pure lei rimase un attimo imbambolata mentre metteva a fuoco.

    Dove prima c’erano le assi del parquet ora c’era una intercapedine che avrebbe al massimo dovuto contenere dei tubi, e non una specie di grosso fagotto semiputrido.

    Elisabetta si avvicinò per guardare meglio, muovendosi con attenzione per non mettere il piede in fallo in quel campo minato che era la stanza, e vide una specie di sacco cerato lungo circa un metro e cinquanta circondato da una serie di corde smangiucchiate dalle tarme. Ebbe una brutta sensazione. Non aveva senso che sotto quel pavimento ci fosse un sacco, men che meno chiuso come un bel regalo lasciato apposta per lei. Soprattutto perché sapeva che quel pavimento era originale, infatti aveva fatto smontare le assi per riutilizzarle nel pavimento nuovo che aveva in mente, quindi quella cosa stava là da un mucchio di tempo, troppo a dire la verità, sicuramente prima di sua nonna, che aveva comprato l’appartamento negli anni sessanta.

    Il silenzio irreale in cui aveva fatto queste riflessioni fu rotto da Giulio.

    -Che facciamo architè? – Giulio era sotto i quaranta, alto, un fisico palestrato con dei bei tatuaggi sulle braccia muscolose, ma non troppo, in generale un bel ragazzo, ma taciturno, uno che parlava pochissimo, chiedeva pochissimo e lavorava, stranamente, tantissimo. Era il preferito di Elisabetta, ma non lo avrebbe mai ammesso, non si poteva socializzare con gli operai, ne andava del ruolo di architetto, era una delle prime regole che si imparano: se gli dai confidenza dopo due minuti ti mangiano in testa.

    -Bella domanda, credo che la cosa più furba sia vedere che c’è dentro.

    -Sicura? –disse con un tono che la preoccupò, come lui avesse visto qualcosa che a lei sfuggiva, quindi rispose

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