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Michele Strogoff
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Michele Strogoff

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About this ebook

Nella Russia degli zar, a Michele Strogoff, valoroso capitano del corpo dei corrieri dello zar, il sovrano in persona affida l’incarico di recapitare un messaggio segreto e importantissimo a suo fratello il granduca, di stanza presso Irkutsk, capitale della Siberia Orientale, a più di cinquemila chilometri di distanza da Mosca. Le orde tartare del crudele Feofar-Khan, capeggiate dal traditore russo Ivan Ogareff, hanno invaso parte dell’impero e ne minacciano l’integrità, mettendo a ferro e fuoco villaggi e città. La sorte dell’intera Russia è racchiusa in quel messaggio e dipende dalla velocità con la quale Strogoff riuscirà eventualmente a consegnarlo. Durante il viaggio, il corriere dello zar incontra due giornalisti stranieri, il francese Alcide Jolivet e l’inglese Harry Blount, e, soprattutto, Nadia Fedor, una bellissima ragazza lettone che deve raggiungere nella stessa Irkustk suo padre, esiliato politico. Il cammino è lungo e impervio, a causa delle difficoltà offerte dalla natura e dal caso, e per l’insidia costantemente rappresentata dall’esercito tartaro. Michele Strogoff viene catturato dagli uomini di Ivan Ogareff, che lo fa condannare da Feofar-Khan alla bruciatura degli occhi per mezzo di una sciabola arroventata. Nel frattempo, l’armata tartara prepara l’assedio di Irkustk.

"Edizioni DrawUp" propone ai propri lettori, con la Collana "Classici Young", questo capolavoro narrativo di Jules Verne, edito per la prima volta nel 1876 con il titolo originale, in lingua francese, di "Michel Strogoff - De Moscou a Irkoutsk". Anch’esso incluso nella serie dei "Viaggi straordinari" del grandissimo scrittore transalpino, questo libro costituisce un caso felicemente singolo, quasi isolato, all’interno della produzione letteraria di Verne, che abbandona le tendenze divulgative e il carattere spiccatamente didascalico e abbraccia, invece, il romanzesco più puro e romantico, raccontando una storia davvero indimenticabile, che resta "impressa a fuoco" nell’animo, si potrebbe dire, attraverso gli scenari e le ambientazioni di un mondo affascinante quanto, ormai, molto lontano.
LanguageItaliano
Release dateDec 7, 2014
ISBN9788898980161
Michele Strogoff
Author

Victor Hugo

Victor Marie Hugo (1802–1885) was a French poet, novelist, and dramatist of the Romantic movement and is considered one of the greatest French writers. Hugo’s best-known works are the novels Les Misérables, 1862, and The Hunchbak of Notre-Dame, 1831, both of which have had several adaptations for stage and screen.

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    Michele Strogoff - Victor Hugo

    978-88-98980-16-1

    PARTE PRIMA

    I. UNA FESTA AL PALAZZO NUOVO

    «Maestà, un nuovo dispaccio.»

    «Da dove viene?»

    «Da Tomsk.»

    «È tagliato il filo del telegrafo oltre quella città?»

    «È tagliato da ieri.»

    «Generale, spedisci ogni ora un telegramma a Tomsk; e mi si tenga informato.»

    «Sì, Maestà» rispose il generale Kissoff.

    Queste parole erano scambiate alle due del mattino, nel momento in cui la festa, data al Palazzo Nuovo, era al massimo del suo splendore.

    In quella serata, le bande dei reggimenti di Preobrajensky e di Paulowsky non avevano cessato di suonare polche, mazurche, arie scozzesi e valzer, scelti fra i migliori del repertorio. Le coppie dei ballerini si moltiplicavano all’infinito nelle splendide sale di quel palazzo, innalzato a qualche passo dalla vecchia casa di pietra dove un tempo si erano compiuti tanti drammi terribili, e gli echi dei quali si risvegliarono, quella notte, per ripetere motivi di quadriglie.

    Il gran maresciallo di corte era, d’altronde, ben coadiuvato nelle sue delicate funzioni. I granduchi e i loro aiutanti di campo, i ciambellani di servizio, gli ufficiali del palazzo sovrintendevano essi stessi all’organizzazione delle danze. Le granduchesse ricoperte di diamanti e le dame di compagnia, con i loro costumi di gala, davano valorosamente l’esempio alle mogli degli alti funzionari militari e civili dell’antica città dalle bianche pietre. Così, quando il segnale della polacca risuonò, quando gli invitati di ogni grado presero posto per questa passeggiata cadenzata, che, nelle solennità di tal genere, ha tutta l’importanza di una danza nazionale, l’insieme degli abiti lunghi ornati di merletti e delle uniformi fregiate di decorazioni offrì una vista indescrivibile, alla luce di cento lampadari che il riverbero degli specchi decuplicava.

    Era una meraviglia!

    D’altra parte, la grande sala, la migliore fra tutte quelle che possiede il Palazzo Nuovo, faceva a questo corteo di alti personaggi e di donne splendidamente abbigliate una cornice degna della loro magnificenza. La ricca volta, con le sue dorature smorzate dalla patina del tempo, era come stellata di punti luminosi. I broccati delle tende e delle portiere erano superbamente increspati da pieghe che creavano calde sfumature, rotte violentemente agli angoli della pesante stoffa.

    Attraverso i vetri delle ampie finestre arrotondate a tutto sesto, la luce che inondava i salotti, filtrata da una nebbia leggera, si manifestava al di fuori come un riflesso d’incendio e risaltava vivamente nella notte che, da alcune ore, circondava quel palazzo sfavillante. Questo contrasto richiamava l’attenzione di quegli invitati che non si sentivano attratti dalle danze. Quando essi si arrestavano ai vani delle finestre, potevano vedere alcuni campanili, confusamente sfumati nell’ombra, che mostravano qua e là i loro enormi profili. Sotto i balconi scolpiti, vedevano passeggiare silenziosamente le numerose sentinelle, con il fucile posato orizzontalmente sulla spalla e l’elmo a puntale, sormontato da un pennacchio, che fiammeggiava al bagliore dei lumi proiettato all’esterno. Udivano anche il passo delle pattuglie che segnavano il tempo sulle lastre di pietra, con maggior precisione, forse, dei piedi dei ballerini sul pavimento delle sale. Di tanto in tanto, il grido delle sentinelle si ripeteva di posto in posto, e talvolta un richiamo di tromba, mescolandosi agli accordi dell’orchestra, gettava le sue note chiare in mezzo all’armonia generale.

    Più giù ancora, davanti alla facciata, masse scure si staccavano sui grandi coni di luce proiettati dalle finestre del Palazzo Nuovo. Erano battelli che discendevano il corso del fiume, le cui acque, picchiettate dalla luce vacillante di qualche fanale, bagnavano i primi gradini di pietra delle terrazze.

    Il principale personaggio del ballo, chi dava la festa, e al quale il generale Kissoff aveva attribuito una qualifica riservata ai sovrani, era semplicemente vestito di una uniforme di ufficiale dei cacciatori della guardia. Quella non era affatto una posa, ma l’abitudine di un uomo poco sensibile alle ricercatezze del lusso. La sua divisa contrastava dunque con i costumi superbi che folleggiavano intorno a lui, e così egli si mostrava, la maggior parte delle volte, anche in mezzo alla sua scorta di georgiani, di cosacchi, di lesghiani, magnifici squadroni splendidamente vestiti con le brillanti uniformi del Caucaso.

    Questo personaggio, alto di statura, dall’aria affabile, la fisionomia calma, la fronte tuttavia pensosa, andava da un crocchio all’altro, ma parlava poco, anzi sembrava prestare solo un’attenzione vaga ai discorsi allegri dei giovani invitati e alle parole più gravi degli alti funzionari o dei membri del corpo diplomatico, che rappresentavano presso di lui i principali stati d’Europa. Due o tre di questi perspicaci uomini politici - fisionomisti di professione - avevano in realtà creduto di notare sul viso del loro ospite qualche sintomo d’inquietudine, di cui sfuggiva loro il motivo, ma nessuno osò interrogarlo in proposito. In ogni modo, l’intenzione dell’ufficiale dei cacciatori della guardia era, senza dubbio, che le sue segrete preoccupazioni non turbassero in alcun modo la festa, e siccome era uno di quei rari sovrani ai quali quasi tutto un mondo si è abituato a ubbidire anche con il pensiero, i divertimenti del ballo non scemarono un solo istante.

    Il generale Kissoff attendeva che l’ufficiale, al quale aveva comunicato il dispaccio spedito da Tomsk, gli desse l’ordine di ritirarsi, ma quello rimaneva silenzioso. Aveva preso il telegramma, l’aveva letto, e la sua fronte si corrugò maggiormente. Portò anche, involontariamente, la mano all’elsa della spada e quindi agli occhi, che coprì per un istante. Si sarebbe detto che la luce dei lampadari gli desse fastidio, e che cercasse l’oscurità per meglio vedere dentro di sé.

    «Così» riprese dopo aver condotto il generale Kissoff nel vano di una finestra, «da ieri siamo senza comunicazioni con il granduca mio fratello?»

    «Senza comunicazioni, Maestà, e c’è da credere che, presto, i dispacci non potranno più passare la frontiera siberiana.»

    «Ma le truppe delle province dell’Armar e di Iakutsk, come quelle della Transbaikalia, hanno ricevuto l’ordine di marciare immediatamente su Irkutsk?»

    «Questo ordine è stato dato con l’ultimo telegramma che abbiamo potuto far giungere di là dal lago Baikal.»

    «Quanto ai governi di Ienisseisk, di Omsk, di Semipalatinsk, di Tobolsk, siamo sempre in comunicazione diretta, dopo l’inizio dell’invasione?»

    «Sì, Maestà, i nostri dispacci arrivano, e abbiamo la certezza, a quest’ora, che i tartari non sono avanzati oltre l’Irtisc e l’Obi.»

    «E del traditore Ivan Ogareff, che notizie si hanno?»

    «Nessuna» rispose il generale Kissoff. «Il capo della polizia non è in grado di affermare se ha passato o no la frontiera.»

    «Fate mandare immediatamente i suoi connotati a Nijni-Novgorod, a Perm, a Ekaterinburg, a Kasimov, a Tiumen, a Iscim, a Omsk, a Elamsk, a Kolyvan, a Tomsk, a tutte le stazioni telegrafiche insomma, con le quali siamo ancora in comunicazione.»

    «Gli ordini di Vostra Maestà saranno eseguiti all’istante» rispose il generale Kissoff.

    «E non dovrà trapelare una sola parola!»

    Il generale fece un segno di rispettosa obbedienza e, dopo essersi inchinato, si confuse tra la folla; subito lasciò le sale, senza che la sua partenza fosse notata.

    L’ufficiale rimase pensieroso alcuni istanti. Quando tornò a mescolarsi ai diversi gruppi di militari e di uomini politici raccolti in parecchi punti delle sale il suo viso aveva ripreso tutta la calma che per un momento aveva perduta.

    Tuttavia, il grave fatto all’origine di quel rapido scambio di parole non era ignorato così come l’ufficiale dei cacciatori della guardia e il generale Kissoff potevano credere. Non se ne parlava ufficialmente, è vero, e neppure ufficiosamente, perché c’era l’ordine di mantenere il segreto, ma alcuni alti personaggi erano stati informati più o meno esattamente degli avvenimenti che accadevano di là dalla frontiera. In ogni modo, quanto essi non sapevano, forse, che in maniera assai imperfetta, ed era ignorato persino nelle conversazioni dei diplomatici presenti, veniva discusso sottovoce da due invitati, che nessuna uniforme, nessuna decorazione metteva in evidenza in questo ricevimento del Palazzo Nuovo; e ne parlavano, anzi, come se avessero avuto informazioni molto precise.

    In che modo, per quale via, grazie a quali astuzie, questi due semplici mortali sapevano ciò che tanti altri personaggi fra i più ragguardevoli supponevano appena? Nessuno avrebbe potuto dirlo. Era per un dono di prescienza o di previsione? Possedevano forse un senso supplementare, che permetteva loro di vedere di là da quell’orizzonte limitato al quale è circoscritto ogni sguardo umano? Avevano un fiuto speciale per scoprire le notizie più segrete? Forse per l’abitudine, divenuta una seconda natura, di vivere dell’informazione e per l’informazione, la loro natura si era trasformata? Si sarebbe stati tentati di crederlo.

    Di questi due uomini, uno era inglese, l’altro francese, entrambi alti e magri: l’ultimo bruno come i meridionali della Provenza, il primo rosso come un gentleman del Lancashire. L’inglese, compassato, freddo, flemmatico, parco di movimenti e di parole, sembrava parlare o gesticolare sotto la spinta di una molla che operasse a intervalli regolari. Al contrario, il francese, vivace, irrequieto, si esprimeva nello stesso tempo con le labbra, con gli occhi, con le mani; aveva venti modi di manifestare il proprio pensiero, mentre il suo interlocutore pareva non averne che uno solo, immutabile, stereotipato nel suo cervello.

    Queste dissimiglianze fisiche avrebbero facilmente colpito il meno osservatore degli uomini; un fisionomista, poi, esaminando un po’ da vicino i due stranieri, avrebbe chiaramente definito il contrasto fisiologico che li caratterizzava, dicendo che se il francese era tutt’occhi, l’inglese era tutt’orecchi.

    In realtà, l’apparato visivo dell’uno si era singolarmente perfezionato con l’uso. La sensibilità della retina doveva essere istantanea come in quei prestigiatori che riconoscono una carta da un semplice movimento rapido di taglio, o solo dalla disposizione di un tarocco non percepito da nessun altro. Questo francese possedeva dunque al massimo grado ciò che si chiama la memoria visiva.

    L’inglese, invece, sembrava fatto apposta per ascoltare e per intendere. Quando il suo apparato uditivo veniva colpito dal suono di una voce, non poteva più scordarlo, e dopo dieci anni, dopo vent’anni, l’avrebbe riconosciuto fra mille. I suoi orecchi non avevano certamente la possibilità di muoversi come quelli degli animali, provvisti di grandi padiglioni auditivi; ma, poiché i saggi hanno costatato che gli orecchi dell’uomo non sono che pressappoco immobili, si avrebbe avuto il diritto di affermare che quelli del suddetto inglese, drizzandosi, torcendosi, stirandosi in ogni senso, cercavano di percepire i suoni in maniera abbastanza evidente per un naturalista.

    Conviene fare osservare che tale perfezione di vista e di udito, in quei due uomini, li serviva a meraviglia nella loro professione, poiché l’inglese era un corrispondente del Daily Telegraph, e il francese un corrispondente del… Di quale o quali giornali egli non lo diceva, e quando glielo si domandava, rispondeva argutamente che corrispondeva con sua cugina Maddalena. In fondo, questo francese dall’apparenza frivola era molto sagace e acuto. Parlava sempre a casaccio, forse per meglio celare il suo desiderio di sapere, e non si sbottonava mai. La sua loquacità stessa l’aiutava a tacere, e forse era più chiuso, più discreto del suo collega del Daily Telegraph.

    Se entrambi assistevano a quella festa, data al Palazzo Nuovo la notte dal 15 al 16 luglio, era in qualità di giornalisti, per creare un interesse sempre maggiore nei loro lettori.

    S’intende che quei due uomini erano appassionati alla missione che avevano in questo mondo: amavano lanciarsi come furetti sulla pista delle notizie più impensate; niente li sbigottiva o li scoraggiava, pur di riuscire, e possedevano l’imperturbabile sangue freddo, vera abilità delle persone del mestiere. Veri jockeys di questo steeplechase, di questa caccia all’informazione, essi scavalcavano le siepi, attraversavano i fiumi, saltavano le panchette con l’ardore impareggiabile di quei corridori puro sangue, che vogliono giungere buoni primi o morire!

    D’altra parte, i loro giornali non lesinavano loro il danaro - il più sicuro, il più perfetto mezzo d’informazione conosciuto fino a oggi. Bisogna aggiungere ancora, a loro onore, che né l’uno né l’altro guardavano o ascoltavano mai oltre i muri della vita privata, e non agivano che quando erano in gioco interessi politici o sociali. In una parola, facevano ciò che si chiama da alcuni anni: la grande cronaca politica e militare.

    Soltanto, si vedrà, seguendoli da vicino, che il più delle volte essi avevano un modo singolare di considerare i fatti, e soprattutto le loro conseguenze, perché ciascuno dimostrava un modo proprio di vedere e di apprezzare. Ma facevano sul serio e non si risparmiavano in nessuna occasione, perciò sarebbe stato ingiusto biasimarli.

    Il corrispondente francese si chiamava Alcide Jolivet.

    Harry Blount era il nome del corrispondente inglese.

    S’incontrarono per la prima volta a quella festa di Palazzo Nuovo, della quale erano stati incaricati di dar relazione sul loro giornale. La diversità di carattere, unita a una certa gelosia professionale, doveva renderli assai poco simpatici l’uno all’altro. Tuttavia, essi non si evitarono e cercarono, anzi, di scandagliarsi a vicenda sulle novità del giorno.

    Erano due cacciatori, dopo tutto, che cacciavano in uno stesso territorio, nelle stesse riserve. Il bersaglio fallito dall’uno poteva essere vantaggiosamente colpito dall’altro, e il loro stesso interesse voleva che fossero in grado di vedersi e di comprendersi.

    Quella sera, dunque, erano entrambi in agguato. Vi era effettivamente qualche cosa nell’aria.

    Quand’anche non fosse che un passaggio di anitre, si diceva Alcide Jolivet, varrebbe il suo colpo di fucile!

    I due corrispondenti si trovarono a discutere fra loro durante il ballo, alcuni minuti dopo l’uscita del generale Kissoff, e lo fecero scandagliandosi un poco.

    «A dire il vero, signore, questa festicciola è ben riuscita!» disse con fare amabile Alcide Jolivet, ritenendo opportuno iniziare la conversazione con questa frase tipicamente francese.

    «Ho già telegrafato: splendida!» rispose freddamente Harry Blount, e scelse un aggettivo, consacrato dall’uso, per esprimere una qualsiasi ammirazione di un cittadino del Regno Unito.

    «Nondimeno» aggiunse Alcide Jolivet, «io ho creduto di dover notificare nello stesso tempo a mia cugina…»

    «Vostra cugina...?» ripeté Harry Blount in tono sorpreso, interrompendo il suo collega.

    «Sì…» rispose Alcide Jolivet. «Mia cugina Maddalena… Corrispondo con lei, perché ci tiene a essere informata presto e bene. Ho dunque creduto necessario farle notare che, durante questa festa, pareva che una specie di nube oscurasse la fronte del sovrano.»

    «A me è parso raggiante» rispose Harry Blount, che voleva forse dissimulare il suo pensiero a questo proposito.

    «E naturalmente voi l’avete fatto raggiare nelle colonne del Daily Telegraph

    «Precisamente.»

    «Rammentate, signor Blount» disse Alcide Jolivet, «ciò che è accaduto a Sakret nel 1812?»

    «Me ne ricordo come se ci fossi stato, signore» rispose il corrispondente inglese.

    «Allora» riprese Alcide Jolivet, «voi sapete che, durante una festa data in suo onore, fu annunciato all’imperatore Alessandro che Napoleone aveva varcato il fiume Niemen con l’avanguardia francese. Tuttavia l’imperatore non lasciò la festa e, nonostante l’estrema gravità di una notizia che gli poteva costare l’impero, non lasciò trapelare maggior inquietudine…»

    «Di quanta ne abbia mostrata il nostro ospite, quando il generale Kissoff gli rese noto che i fili telegrafici erano stati tagliati tra la frontiera e il governo di Irkutsk.»

    «Oh, voi conoscete questo particolare?»

    «Lo conosco.»

    «Quanto a me sarebbe difficile ignorarlo, poiché il mio ultimo telegramma è andato fino a Udinsk» fece osservare Alcide Jolivet con una certa soddisfazione.

    «E il mio fino a Krasnoiarsk soltanto» rispose Harry Blount con tono non meno soddisfatto.

    «Allora, voi sapete anche che sono stati mandati ordini alle truppe di Nikolaievsk?»

    «Sì, signore, proprio mentre si telegrafava ai cosacchi del governo di Tobolsk di concentrarsi.»

    «Niente di più vero, signor Blount; questi provvedimenti erano noti anche a me, e credete pure che la mia graziosa cugina ne saprà, fin da domani, qualche cosa!»

    «Esattamente come i lettori del Daily Telegraph, signor Jolivet.»

    «Ecco! Quando si vede tutto ciò che succede…!»

    «E quando si ascolta tutto ciò che si dice…!»

    «Un’interessante campagna da seguire, signor Blount.»

    «La seguirò, signor Jolivet.»

    «Allora è probabile che ci si ritrovi su un terreno meno sicuro, forse, del pavimento di questo salotto!»

    «Meno sicuro, sì, ma…»

    «Ma anche meno sdrucciolevole!» rispose Alcide Jolivet, sostenendo il collega, nel momento in cui perdeva l’equilibrio nell’indietreggiare.

    I due corrispondenti si separarono, abbastanza contenti, alla fin fine, di sapere che l’uno non aveva superato l’altro. In realtà le loro forze erano pari in quel gioco.

    Proprio allora si aprirono le porte delle stanze contigue al gran salone, dove erano apparecchiate spaziose tavole meravigliosamente imbandite e cariche a profusione di porcellane preziose e vasellame d’oro. Sulla tavola centrale, riservata ai principi, alle principesse e ai membri del corpo diplomatico, brillava un trionfo di valore inestimabile, fatto a Londra, e intorno a questo capolavoro di oreficeria luccicavano, alla luce dei lampadari, i mille pezzi del più meraviglioso servizio che mai fosse uscito dalle manifatture di Sèvres.

    Gli invitati di Palazzo Nuovo cominciarono allora a dirigersi verso le sale dove si cenava.

    In quell’istante il generale Kissoff, che era rientrato, s’avvicinò rapidamente all’ufficiale dei cacciatori della guardia.

    «Ebbene?» gli chiese questi con animazione, come aveva fatto la prima volta.

    «I telegrammi non oltrepassano Tomsk, Maestà.»

    «Un corriere all’istante.»

    L’ufficiale lasciò il gran salone ed entrò in una vasta camera attigua. Era un gabinetto da lavoro, ammobiliato con molta semplicità in vecchia quercia, e situato all’angolo di Palazzo Nuovo. Alcuni quadri, fra i quali parecchie tele firmate da Horace Vernet, erano appesi al muro.

    L’ufficiale aprì bruscamente la finestra, quasi gli fosse mancato l’ossigeno, e uscì a respirare, su uno spazioso balcone, l’aria pura filtrata dalla bella notte di luglio. Sotto i suoi occhi, illuminata dai raggi lunari, si ergeva una cerchia di mura fortificate, all’interno della quale sorgevano due cattedrali, tre palazzi e un arsenale. Intorno alle mura si disegnavano tre città distinte, Kitai-Gorod, Beloi-Gorod, Semlianoi-Gorod, immensi quartieri europei, tartari, o cinesi, dominati da torri, campanili, minareti, e dalle cupole di trecento chiese, dipinte di verde, sormontate da croci d’argento. Un piccolo fiume, dal corso sinuoso, riverberava qua e là i raggi della luna. Tutto questo insieme formava un singolare mosaico di case diversamente colorate, incassato in un vasto quadrato di dieci leghe.

    Il fiume era la Moscova, la città era Mosca, la cinta fortificata era il Cremlino, e l’ufficiale dei cacciatori della guardia, che con le braccia incrociate, la fronte pensierosa, ascoltava vagamente il rumore riversato sulla vecchia città moscovita dal Palazzo Nuovo, era lo zar.

    II. RUSSI E TARTARI

    Se lo zar aveva così inopinatamente lasciato le sale del Palazzo Nuovo, nel momento in cui la festa, che egli dava alle autorità civili e militari e ai principali nobili di Mosca, raggiungeva il massimo splendore, era perché gravi avvenimenti accadevano allora di là dalle frontiere degli Urali. Non se ne poteva più dubitare; una terribile invasione minacciava di sottrarre all’autonomia russa le province siberiane.

    La Russia asiatica, o Siberia, copre una superficie di due milioni e mezzo circa di chilometri quadrati e conta intorno ai due milioni di abitanti. Si estende dai monti Urali, che la separano dalla Russia europea, fino al litorale dell’Oceano Pacifico. A sud, il Turkestan e l’impero cinese la delimitano con una frontiera assai indeterminata; a nord confina con il Mar Glaciale, dal Mar di Kara fino allo stretto di Bering. La Siberia è divisa in governi o province, che sono quelli di Tobolsk, di Ienisseisk, di Irkutsk, di Omsk, di Iakutsk; comprende due distretti, di Okhotsk e di Camciatca, e possiede due paesi, al presente sottomessi alla dominazione moscovita, il paese dei chirghisi e il paese dei ciukci.

    Questa immensa distesa di steppe, che si estende per oltre centodieci gradi da ovest a est, è inoltre un luogo dove vengono deportati i criminali e una terra d’esilio per coloro che un ucase ha colpito di espulsione.

    Due governatori generali rappresentano l’autorità suprema degli zar in quel vasto paese. L’uno risiede a Irkutsk, capitale della Siberia Orientale, l’altro a Tobolsk, capitale della Siberia Occidentale. Il fiume Ciuna, affluente dello Ienissei, divide le due Siberie.

    Nessuna ferrovia taglia per ora queste immense pianure, che in alcune parti sono straordinariamente fertili. Nessuna strada ferrata porta alle miniere preziose che, stendendosi per ampi tratti del suolo siberiano, lo rendono più ricco sotto che sopra la sua superficie. Si viaggia in tarentass o in telega, l’estate; in slitta, d’inverno. Una sola comunicazione, ma una comunicazione elettrica, congiunge le due frontiere a ovest e a est della Siberia per mezzo di un filo che misura più di ottomila verste di lunghezza (8536 chilometri).

    Uscendo dalla regione degli Urali passa per Ekaterinburg, Kasimov, Tiumen, Iscim, Omsk, Elamsk, Kolyvan, Tomsk, Krasnoiarsk, Nijni-Udinsk, Irkutsk, Verkne-Nertscink, Strelinsk, Albasin, Blagovstenks, Radde, Orlomskaia, Alexandrovskoe, Nikolaievsk, e costa sei rubli e diciannove copeche per ciascuna parola lanciata al suo estremo limite. Da Irkutsk una diramazione va a saldarsi a Kiakhta, sulla frontiera mongola, e di là, a trenta copeche per parola, la posta trasporta i dispacci a Pechino in quattordici giorni.

    Questo filo, teso da Ekaterinbug a Nikolaievsk, era stato tagliato poco prima di Tomsk e, qualche ora più tardi, fra Tomsk e Kolyvan.

    Perciò lo zar, dopo la comunicazione che gli aveva fatto la seconda volta il generale Kissoff, aveva risposto con questa semplice frase: «Un corriere all’istante!»

    Lo zar era, da alcuni momenti, immobile alla finestra del suo gabinetto, quando gli uscieri aprirono di nuovo la porta.

    Il capo della polizia apparve sulla soglia.

    «Entra, generale» disse lo zar con tono sbrigativo, «e dimmi tutto ciò che sai di Ivan Ogareff.»

    «È un uomo estremamente pericoloso, Maestà» rispose il capo della polizia.

    «Era colonnello?»

    «Sì, Maestà.»

    «Era un ufficiale intelligente?»

    «Intelligentissimo, ma impossibile da dominare, e di un’ambizione sfrenata che non indietreggiava di fronte a nulla. Si buttò ben presto in segreti intrighi, e allora fu destituito dal grado da Sua Altezza il granduca, quindi esiliato in Siberia.»

    «In quale epoca?»

    «Due anni or sono. Graziato dopo sei mesi di esilio, da Vostra Maestà, è rientrato in Russia.»

    «E da allora non è più tornato in Siberia?»

    «Sì, Maestà, è tornato, ma questa volta volontariamente» rispose il capo della polizia.

    E aggiunse abbassando un po’ la voce: «Vi fu un tempo, Maestà, in cui, quando si andava in Siberia, non si ritornava più!»

    «Ebbene, finché sono vivo io, la Siberia è, e sarà, un paese dal quale si torna!»

    Lo zar aveva il diritto di pronunciare queste parole con vera fierezza, poiché sovente aveva dimostrato con la sua clemenza che la giustizia russa sapeva perdonare.

    Il capo della polizia non rispose nulla, ma era evidente che non amava le mezze misure. Secondo lui, ogni persona che avesse varcato i monti Urali fra i gendarmi, non doveva mai più rivalicarli. Ora, non era così sotto il nuovo regno, e il capo della polizia lo deplorava sinceramente! Come!

    Esiliati politici ritornavano da Tobolsk, da Iakutsk, da Irkutsk! In verità, il capo della polizia, avvezzo alle decisioni autocratiche degli ucase che mai non perdonavano, non poteva ammettere questo modo di governare! Tuttavia, tacque, in attesa che lo zar lo interrogasse di nuovo.

    Le domande non si fecero attendere.

    «Ivan Ogareff» chiese lo zar, «non è rientrato una seconda volta in Russia, dopo questo viaggio nelle province siberiane, viaggio di cui il vero scopo è rimasto sconosciuto?»

    «È tornato.»

    «E, dopo il suo ritorno, la polizia ne ha perduto le tracce?»

    «No, Maestà, perché un condannato non diventa, in verità, pericoloso, che dal giorno in cui è stato graziato!»

    La fronte dello zar si corrugò un istante. Forse il capo della polizia poté temere di essersi spinto troppo oltre, per quanto la sua ostinazione nelle proprie idee fosse per lo meno uguale alla devozione senza limiti che egli aveva per il suo sovrano, ma lo zar, sdegnando questi rimproveri indiretti, che toccavano la sua politica interna, continuò concisamente la sua serie di interrogazioni: «Ultimamente, dov’era Ivan Ogareff?»

    «Nel governo di Perm.»

    «In quale città?»

    «Nella stessa Perm.»

    «Che cosa faceva?»

    «Sembrava disoccupato, e la sua condotta non offriva nulla di sospetto.»

    «Non era sotto la sorveglianza degli alti gradi della polizia?»

    «No, Maestà.»

    «Quando ha lasciato Perm?»

    «Verso marzo.»

    «Per andare?»

    «Si ignora.»

    «E da allora non si sa che ne sia di lui?»

    «Non si sa.»

    «Ebbene, io lo so, io!» rispose lo zar. «Ho ricevuto avvisi anonimi che non son passati per gli uffici della polizia e, di fronte ai fatti che si compiono attualmente di là dalla frontiera, ho ragione di credere che siano esatti!»

    «Volete dire, Maestà» esclamò il capo della polizia, «che Ivan Ogareff ha preso parte all’invasione tartara?»

    «Sì, generale, ora ti spiegherò ciò che ancora non sai.

    Ivan Ogareff, dopo aver lasciato il governo di Perm, ha varcato i monti Urali diretto in Siberia, nelle steppe chirghise, e là ha tentato, senza successo, di sollevare le popolazioni nomadi. Allora si è spostato più a sud, fino nel Turkestan libero. Nei canati di Bukhara, di Khokhand, di Kunduse ha trovato capi disposti a gettare le loro orde tartare nelle province siberiane e a provocare una invasione generale dell’impero russo in Asia. Il movimento è stato fomentato segretamente, ma ora scoppia come un colpo di fulmine e, attualmente, le vie e i mezzi di comunicazione sono tagliati fra la Siberia Occidentale e la Siberia Orientale! Per di più, Ivan Ogareff, assetato di vendetta, vuole attentare alla vita di mio fratello.»

    Lo zar si era animato parlando e camminava a passi precipitosi. Il capo della polizia non rispose nulla, ma pensava fra sé che al tempo in cui gli imperatori di Russia non graziavano mai un esiliato, i propositi di Ivan Ogareff non avrebbero potuto attuarsi.

    Passarono alcuni minuti, durante i quali egli si tenne silenzioso. Poi, avvicinandosi allo zar, che si era buttato su una poltrona: «Vostra Maestà» disse, «ha senza dubbio dato ordini perché questa invasione sia respinta al più presto…»

    «Sì» rispose lo zar. «L’ultimo telegramma che ha potuto giungere a Nijni-Udinsk ha dovuto mettere in movimento le truppe dei governatorati di Ienisseisk, di Irkutsk, di Iakutsk, quelle delle province dell’Amur e del lago Baikal. Nello stesso tempo, i reggimenti di Perm e di Nijni-Novgorod e i cosacchi della frontiera si dirigono con marce forzate verso i monti Urali; ma, disgraziatamente, occorreranno parecchie settimane, prima che essi possano trovarsi di fronte alle colonne tartare!»

    «E il fratello di Vostra Maestà, Sua Altezza il granduca, in questo momento isolato nel governo di Irkutsk, non è più in comunicazione diretta con Mosca?»

    «No.»

    «Ma egli saprà certamente, dagli ultimi dispacci, quali sono le misure prese da Vostra Maestà e quali soccorsi deve attendere dai governi più vicini a quello di Irkutsk…»

    «Lo sa» rispose lo zar, «ma ciò che ignora è che Ivan Ogareff, mentre fa la parte del ribelle, deve rappresentare anche quella del traditore, ed è per lui un nemico personale e accanito. Ivan Ogareff deve al granduca la sua prima disgrazia, e la cosa più grave è che il granduca non lo conosce. Ivan Ogareff, dunque, si è proposto di recarsi a Irkutsk e là, sotto falso nome, offrire i propri servigi al granduca. Poi, dopo che si sarà guadagnata la sua fiducia, quando i tartari avranno accerchiato Irkutsk, egli consegnerà loro la città e con essa mio fratello, la vita del quale è direttamente minacciata. Ecco quanto so dai miei rapporti. Il granduca non ne sa ancora niente ed è necessario che sia messo al corrente.»

    «Ebbene, Maestà, un corriere intelligente, coraggioso…»

    «Lo aspetto.»

    «E che agisca con sollecitudine» aggiunse il capo della polizia, «poiché, permettetemi di aggiungere, Maestà, è una terra propizia alle ribellioni, quella siberiana!»

    «Tu vuoi dire, generale, che gli esiliati faranno causa comune con gli invasori?» gridò lo zar irritato da questa insinuazione del capo della polizia.

    «Vostra Maestà mi scusi…!»rispose balbettando costui, perché era veramente questo il pensiero che gli aveva suggerito il suo spirito irrequieto e diffidente.

    «Sono convinto che gli esiliati abbiano maggior patriottismo!» riprese lo zar.

    «Vi sono altri condannati, oltre agli esiliati politici, in Siberia» rispose il capo della polizia.

    «I delinquenti! Oh, generale, quelli te li lascio volentieri! È la feccia del genere umano. Non sono di nessun paese. Ma la sedizione, o meglio, l’invasione non è contro l’imperatore, bensì contro la Russia, contro questo paese che gli esiliati non hanno perduto la speranza di rivedere… e rivedranno...! No! Un russo non si alleerà mai con un tartaro per indebolire, sia pure per un’ora, la potenza moscovita!»

    Lo zar aveva ragione di credere al patriottismo di coloro che la sua politica teneva momentaneamente lontani. La clemenza che era la base della sua giustizia, quando poteva egli stesso dirigerne gli effetti, gli importanti provvedimenti attenuanti, adottati nell’applicare gli ucase un tempo così terribili, gli garantivano che non poteva sbagliarsi. Ma, anche senza questo potente elemento di successo a favore dell’invasione tartara, le circostanze non erano meno gravi, poiché si doveva temere che una gran parte della popolazione chirghisa si unisse agli invasori.

    I chirghisi si dividono in tre orde, la grande, la piccola e la mediana, e contano circa quattrocentomila tende, cioè due milioni di anime. Di queste diverse tribù, le une sono indipendenti, e le altre riconoscono la sovranità sia della Russia, sia dei canati di Khiva, di Khokhand e di Bukhara, cioè dei più terribili capi del Turkestan. L’orda mediana, la più ricca, è nello stesso tempo la più numerosa, e i suoi accampamenti occupano tutto lo spazio compreso fra i corsi d’acqua di Sara-Su, dell’Irrise, dell’Iscim superiore, il lago Hadisang e il lago Aksakal. La grande orda, che occupa le contrade situate a est della mediana, si estende fino ai governi di Omsk e di Tobolsk. Se dunque queste popolazioni chirghise si sollevavano, ciò significava l’invasione della Russia Asiatica e, di colpo, la separazione

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