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Pena Capitale
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Pena Capitale

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About this ebook

Ciccio ha sedici anni e vive a Tor Bella Monaca, malfamata borgata della periferia romana. Tra amici, ragazze e corse in auto clandestine trascorre le sue giornate, cercando un modo per dare una svolta alla sua vita. Ma tutto sembra inutile e i sogni del giovane si scontrano inesorabili contro la violenza e il degrado che lo circondano e che sembrano avere la meglio su di lui. Riuscirà Ciccio a risollevarsi e a scampare a un destino che sembra già scritto? E che ne sarà degli altri ragazzi della Borgata?

Pena Capitale è un romanzo duro che non risparmia niente e nessuno, entra dentro l’animo dei lettori e scava nei meandri della coscienza.
LanguageItaliano
Release dateMar 28, 2016
ISBN9788893370257
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    Pena Capitale - Silvano Assaro

    ROMANESCO

    Pena capitale

    Erano l’una e mezza passate di un torrido venerdì pomeriggio di fine luglio.

    Su tutta Roma si era fermata una cappa di aria irrespirabile e appiccicosa da fare schifo: persino i gatti non si vedevano più in giro.

    Nell’estrema periferia sud-est della capitale, a ridosso degli sbiaditi e opachi castelli romani, Torbella Monaca aveva tutta l’aria di essere un quartierone addormentato e abbandonato al suo destino borgataro. Si respirava appena la sua fama mediatica di luogo di perdizione, di tossicomania e di destini segnati, pieno di quello zoccolo duro di vite che si trascinavano tra il carcere domestico e quello statale. Piuttosto si respirava il sonno eterno della stanca società dipendente, impiegatizia e precaria di inizio secolo.

    Quel giorno, nel cielo limpido, si stavagliavano tremendi i grattacieli di Torbella con le loro sagome regolari, apparentemente prive di ogni forma vita. Guardando in alto, sembrava che quei parallelepipedi maestosi toccassero quasi il cielo e, con tutto quel caldo, veniva voglia di arrampicarsi su, magari per conquistarsi una improbabile carezza di vento.

    Dappertutto, sulle facciate arroventate, spuntavano qua e là le antenne paraboliche che parevano scrutare curiose il cielo, mentre dalle finestre fuoriuscivano gli stendini, colmi di teli da mare e di panni capovolti.

    Le strade fuori erano vuote di auto da non sembrar vero. Quella perenne, rumorosa e maleodorante fila di macchine che circondava e permeava il quartiere si era sciolta come un ghiacciaio, lasciando un paesaggio sorprendentemente vuoto e quasi irriconoscibile.

    Lontano, sullo sfondo, spiccava il gigantesco campanile della chiesa di Santa Maria Madre del Redentore con la sua caratteristica sagoma triangolare visibile da tutto il quartiere: sembrava proprio una Madonna addolorata, con le braccia aperte e il velo appeso, che benediceva e chiedeva pietà a Dio per le trentamila anime boccheggianti di quel posto di confine, sospeso tra gli ultimi stracci color paglia di campagna romana.

    La scuola era finita da un pezzo e gli esami di maturità pure, e dei pischelli della borgata, che di solito scorazzavano in giro per le strade come cani sciolti, liberi e apparentemente senza troppi pensieri, in giro non c’era nemmeno l’ombra.

    Di solito potevi vederli muoversi a piedi, in piccoli gruppi o anche sfrecciare seguiti dal ronzìo dei loro motorini puzzolenti, come sciami che si allontanavano e sembravano perdersi ma poi, poco dopo, inevitabilmente ritornavano.

    Ma in giro quel giorno a quell’ora non c’era davvero nessuno.

    Nemmeno i ragazzi e le ragazze che scendevano di casa e si incontravano in ciabatte ai soliti posti, quei muretti tutti uguali nascosti nella penombra degli alberi e del cemento, a ridosso dei giardini tra i palazzacci, appena terminati gli obblighi e le noie della vita domestica, nemmeno loro c’erano.

    Però in effetti, a guardare meglio, qualcuno in giro c’era.

    Nel baretto di Via Ferdinando Quaglia si erano rintanati alcuni pischelli della zona, a cercare un po’ di frescura. Si incontravano abitualmente lì per passare il tempo, sempre in tiro, con gli occhi gonfi di sonno arretrato, nascosti dietro la pennellata nera dei loro occhiali da sole.

    «Aoh Ciccio, anvedi chi ce sta oggi!»

    «Chi?»

    «’A ragazza tua!»

    «Aoh e nun me rompe pure te, che te do na criccata ‘n faccia».

    Ciccio, il cui vero nome era però Roberto, era un pischelletto di diciassette anni. Aveva due begli zigomi arrossati dal sole, su cui poggiavano i suoi occhiali scuri avvolgenti e una testa piena di gelatina, lucida come una lumaca. Al lobo sinistro aveva un piccolo orecchino e al collo, appesa come un guinzaglio, portava una spessa collana d’oro che spuntava dalla sua canotta nera, piena di tante scritte colorate.

    Era un bel pischelletto di Torbella, e quando camminava tutto spavaldo per strada, le ragazzine si mettevano a parlottare fra di loro.

    Quel giorno Ciccio era sceso al bar per passare un po’ di tempo e per incontrare l’amico suo, Sandro, detto Pisellino per via della somiglianza col figlio di Braccio di Ferro. Sandro infatti aveva i capelli cortissimi, pochi millimetri di vegetazione uniforme su tutta la testa e una faccia rotonda da bimbo a dispetto dei suoi diciannove anni. Ogni tanto s’infilava un cappelletto da baseball sulla testa, ma quella volta era venuto in moto e l’aveva lasciato a casa per prendere il casco che però portava puntualmente infilato sotto braccio, come fosse una borsetta, anche durante la guida.

    «A fratè, datte na carmata» disse Pisellino

    «Sì ma ‘o sai che nun me devi rompe. So’ già ddu giorni che me so’ lasciato co quella. E ‘a chiami ancora a ragazza mia».

    «Me devi scusà» replicò Pisellino sghignazzando.

    «Stronzo, nun te scuso» e pure Ciccio gli rise appresso.

    Ciccio si era infatti lasciato pochi giorni prima con Silvietta: ma in fondo di questo non gli importava molto, soltanto non voleva, per questioni di orgoglio, che la chiamassero ancora la ragazza sua.

    Silvietta arrivò al bar di via Quaglia con l’amica sua Dany e si fece una bella sfilata davanti ai due amici.

    Si era vestita con una camicetta mezza sbottonata, dalla quale spuntava la sagoma acerba del suo seno di quattordicenne. Pure lei aveva degli occhiali da sole e i suoi capelli scuri e lisci scendevano leggeri come una cascata sulle spalle, con una corta frangetta fin quasi sugli occhi.

    La sua amica aveva qualche chilo di carne in più, quasi tutto concentrato sulla faccia che, a fissarla, sembrava proprio un morbido cuscino. Quando rideva, gli occhi pressati dalle guance quasi le sparivano.

    Dopo tutta questa bella sfilata, le due amiche si fermarono di fronte a Ciccio e Pisellino. Sembrava che le ragazze avessero provato e riprovato prima quella che doveva essere la scena del loro film.

    «Ciao» disse Silvietta all’indirizzo dei due.

    «A bella!» rispose Pisellino mentre Ciccio manco si era girato a guardarle.

    «Aoh io me siedo a quer tavolo…» borbottò Ciccio in direzione dell’amico allontanandosi.

    «A Silviè tutt’apposto?» chiese Pisellino.

    «Sì sì, te?»

    «Più o meno… se nun fosse pe’ ‘sto cardo!» esclamò il ragazzo indicando fuori.

    «Che fate stasera?» disse Silvietta.

    «Boh, nun se semo organizzati, te?»

    «No, io me vedo co uno» rispose Silvietta alzando la voce e lanciando un’occhiata fugace al tavolino dove si era seduto Ciccio.

    Pisellino, un pochetto imbarazzato, non disse più una parola.

    A quel punto Dany guardò l’amica con una faccia compiaciuta e un sorriso appena accennato.

    «Ma che davero?» chiese all’amica con un tono di voce stupito «e nun me dici niente?»

    «Sì sì, l’ho conosciuto ieri» gli fece Silvietta «è proprio fregno. Ci ha ventott’anni».

    Ciccio sentendo quella frase si alzò di scatto dalla sedia e si riavvicinò al gruppo.

    «Aoh! Ma nun te vergogni?» gridò rivolto a Silvia «Che fai quindici anni quest’anno? Er ventidue de Agosto! E te metti co uno de ventotto?! Vedi de regolatte! Pisellì annamosene!»

    E i due amici uscirono dal bar, lasciando le pischelle impietrite e visibilmente imbarazzate.

    «Sta stronza» continuò Ciccio fuori dal bar «manco quindici anni ci ha. E se vole fà uno de ventotto».

    «Vabè ma che te metti a rosicà? Che no’o sai come so’ queste?» rispose l’amico.

    «Ma sì, se facesse chi vole. Tanto quello che dovevo fà co lei l’ho fatto» disse Ciccio «annamo Pisellì, damme ‘e chiavi, famme guidà a me».

    Ciccio si prese le chiavi da Pisellino e i due salirono in groppa alla moto. Quindi accese il bestione e tirò una violenta accelerata che fece tremare le saracinesche abbassate di tutti i negozi della zona.

    Con un rombo assordante i due si allontanarono, mentre un paio di persone incuriosite si affacciarono da un portone a guardarli.

    Ciccio si era messo subito a guidare come un pazzo. I due imboccarono Via di Torbella Monaca, la strada era praticamente deserta.

    «Aoh addò cazzo vai?!» chiese Pisellino.

    «A sfogamme» rispose Ciccio.

    «Nun fà er matto!» esclamò l’amico.

    Ciccio invece stava proprio facendo il matto.

    Guidava la moto come una saponetta impazzita che sguizzava a destra e a sinistra fra le poche auto. Una di queste stava girando a sinistra per imboccare una strada secondaria. Ciccio la vide perfettamente, ma invece di rallentare accelerò, superandola e rischiando per pochi centimetri l’urto.

    «A fijo de na mignottaaa!» gridò l’uomo dall’auto.

    Pisellino a quelle parole si girò e, con un ghigno, mostrò all’indirizzo del guidatore il suo lungo dito medio.

    Dopo qualche centinaio di metri Ciccio imboccò il raccordo verso la Casilina e lì, appena iniziò il rettilineo, cominciò a correre davvero.

    Cento, centoventi, centocinquanta, centosessanta.

    Pisellino, che stava seduto dietro come un ranocchio, si strinse più forte. Ciccio sentiva che l’amico iniziava a preoccuparsi, ma non gli importava: continuava a stringere il manubrio, quasi dovesse domarlo come le corna di un toro impazzito.

    Centonovanta, duecento, duecentotrenta.

    «Aooooh, ma che sei matto?!» urlò disperato al vento Pisellino.

    Ma Ciccio ormai non sentiva più niente, a parte la presa dell’amico che stringeva e faceva sempre più male.

    Duecentocinquanta, duecentosessanta, duecentosettanta.

    «A testa de cazzoooo, frenaaaaaaa, rallentaaaaaa! Ma che voi moriiiì!»

    A quel punto Pisellino iniziò a tirare una serie di capocciate alla schiena dell’amico, sempre più forti. Ne dovette tirare un bel po’ prima che Ciccio iniziasse a decelerare: solo allora Pisellino allentò la presa su di lui. Poi svoltarono all’uscita della Casilina e si fermarono poco più in là a bordo strada, scendendo entrambi dal bolide.

    «Cojone! Sei na testa de cazzo!» disse Pisellino col viso acceso di rabbia.

    «Ahah… che te sei cagato sotto?» e rise Ciccio.

    «Te ci hai propo ‘n pezzo de merda ar posto der cervello».

    «E nun me rompe…» replicò Ciccio scocciato sollevando la mano.

    Quindi Pisellino risalì sul bestione. «Vacce da solo a mmorì ammazzato!» augurò all’amico.

    «E tiettela ‘sta carozzina» disse Ciccio indicando la moto «mica so’ annato veloce. Si c’avevo ‘a Ducati se potevà fà pure de più!» e continuò a sorridere e a sfottere l’amico.

    «Si me squajavi er motore te spaccavo ‘a faccia!»

    «Ma ‘sti cazzi... daje tornamo a Torbella» gli fece Ciccio.

    «Sei propo ‘no stronzo, porco dio».

    Più tardi Ciccio tornò a casa. Erano ormai le due e cinquanta del pomeriggio, e l’androne del palazzo era vuoto.

    Il pischello abitava in uno dei tanti palazzoni di cemento tutti uguali di Torbella. Costruiti alla fine degli anni settanta per essere riempiti con la solita diaspora di meridionali e oramai pieni zeppi anche di rumeni, nigeriane, marocchini, albanesi, peruviani, filippini.

    La borgata era infatti divisa in vari lotti abitativi popolari con dei nomi che ricordavano tanto la suddivisione di un campo di concentramento nazista: erre uno, erre due, erre tre… erre dieci, erre undici, emme uno, emme due, emme tre e così via. Gli appartamenti più piccoli saranno stati grandi appena quaranta metri quadri, e di solito erano i più pieni.

    I palazzi, a guardarli meglio, sembravano veri e propri alveari, costruiti al risparmio con un cementaccio da edilizia popolare e, già dopo qualche decina d’anni, diventati terribilmente sporchi e fatiscenti.

    Il portone di casa di Ciccio era rotto e sempre aperto, e la notte spesso si popolava di tossici, intenti a cercarsi le vene con la bava alla bocca. Negli anfratti bui dell’androne era facile trovare qualche siringa e un po’ di rifiuti lasciati sparsi lì.

    Il condominio era abitato anche da varie prostitute di colore. Un giorno, rientrando a casa alle quattro di notte passate, nel portone trovò un vecchio pappone che, dopo averne picchiata una, la stava violentando in un corridoio del piano terra del palazzo, quasi sotto i suoi occhi.

    Ciccio viveva con la madre, il suo compagno e una sorella di dieci anni. Il padre aveva lasciato la famiglia qualche anno prima, per andare a vivere con una bella e giovane moldava di cui, diceva a tutti, di essersi perdutamente innamorato. Ora viveva a Borgata Finocchio, a due passi da Torbella. Ma tutti in giro sapevano che la ragazza si prostituiva e lui, trattenendole il passaporto e minacciandola, ci campava alle spalle.

    Quel venerdì Ciccio entrò nell’ascensore e si diede un’occhiata allo specchio. Poi pigiò il tasto e iniziò

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