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Vittime e Ribelli: donne di 'ndrangheta da Lea Garofalo a Giuseppina Pesce
Vittime e Ribelli: donne di 'ndrangheta da Lea Garofalo a Giuseppina Pesce
Vittime e Ribelli: donne di 'ndrangheta da Lea Garofalo a Giuseppina Pesce
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Vittime e Ribelli: donne di 'ndrangheta da Lea Garofalo a Giuseppina Pesce

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Non si può capire la particolare natura della ’ndrangheta, se non si comprende il ruolo delle donne. Un importante aspetto che Umberto Ursetta riesce a cogliere con questo libro che va ad aggiungersi nella storiografia sulla ’ndrangheta a un altro testo fondamentale, quello di Renate Siebert. Ursetta, una vita a insegnare diritto, ricostruisce in modo scrupoloso fatti, circostanze, indagini e processi. Quello che ha scritto è un libro di cui si sentiva il bisogno e che merita di essere letto.

LanguageItaliano
Release dateMar 30, 2016
ISBN9788868224134
Vittime e Ribelli: donne di 'ndrangheta da Lea Garofalo a Giuseppina Pesce

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    Vittime e Ribelli - Umberto Ursetta

    Paesi.

    Avvertenza

    Nel libro vengono rievocate diverse inchieste giudiziarie, alcune conclusesi e altre non ancora. Tutte le persone coinvolte e/o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prefazione

    È cambiato, anzi si è evoluto, il ruolo della donna nella ’ndrangheta, almeno nella comune percezione. Un sondaggio promosso dalla Fondazione Bellisario indica che il 28,7% degli intervistati vede le donne di ’ndrangheta come «una risorsa operativa e una forza lavoro qualificata», mentre il 20,6% pensa che esse rappresentino uno «strumento per sostenere e difendere i valori della cosca». Più complici che succubi, insomma, fortemente coinvolte nella gestione e nell’amministrazione delle risorse finanziarie. Donne sempre più istruite, trattano l’acquisto di armi, gestiscono conti correnti, si occupano di operazioni finanziarie, vigilano sulle estorsioni, creano imprese. E, soprattutto, crescono i figli nel rispetto di una tradizione violenta e criminale, li educano alla vendetta e li offrono all’esercito dei clan, condannandoli ad una vita nell’illegalità, una non-vita in cui tanti giovani ancora cercano e trovano il proprio futuro.

    È complesso il ruolo della donna in terra di ’ndrangheta. Può decidere di investire in interi settori di mercato, ma non truccarsi quando il suo uomo è in carcere. Può dare ordini di morte, ma non può permettersi di avere un amante o di lasciare il consorte, il marito designato. Concettina Labate, moglie e madre di cinque figli, viene ammazzata dal padre, un boss di Reggio Calabria, perché aveva intrapreso una relazione extraconiugale, disonorando l’intera famiglia. Lea Garofalo, ex convivente di uno spacciatore legato alla ’ndrangheta, viene invece uccisa e bruciata, alle porte di Milano, per aver deciso di collaborare con i magistrati.

    Nella mafia calabrese la donna esiste solo in relazione all’uomo. «Senza», scrive Roberto Saviano, «è come un essere inanimato. Un essere a metà». La ’ndrangheta è la più sicura roccaforte del maschilismo. In questa organizzazione, la donna può accrescere il potere del clan, seguendo la strategia dei matrimoni combinati, può essere una compagna fedele, una buona cuoca, una bella amante. Ma non può godere di troppa libertà, né esibire il potere.

    Maria Serraino guida un imponente traffico di droga a Milano, ma lo fa senza oscurare il figlio, capo riconosciuto della famiglia Di Giovine. «Era lei ad avere il potere», racconta la figlia Rita una delle prime collaboratrici di giustizia nella ’ndrangheta: «Era lei che decideva cosa fare e cosa non fare. Se decideva che un lavoro non si dovesse fare, allora non si faceva». Le donne di ’ndrangheta non prestano il giuramento di fedeltà, anche se quelle particolarmente meritevoli possono essere associate con il titolo di sorella d’omertà. «Ma», precisa Antonio Zagari, «difficilmente si riconosce il titolo a chi non è già moglie, figlia, sorella, fidanzata, o comunque imparentata con uomini d’onore».

    Anche se ci sono ancora famiglie che ritengono le donne inadeguate a svolgere ruoli operativi in seno alla ’ndrangheta («sono fimmine», dice il figlio di un boss di Palmi), ci sono madri o mogli di boss che masticano violenza, più o quanto gli uomini.

    Maria Teresa D’Agostino, moglie di Carmelo Bellocco, fratello di Umberto, patriarca dell’omonima famiglia, partecipa a un summit nella sua abitazione di Granarolo dell’Emilia il 21 gennaio 2009 per decidere sull’eliminazione di un ex alleato. Parlando con il figlio Umberto, la donna spazza via ogni dubbio, sostenendo la necessità di fare piazza pulita, senza risparmiare nessuno, né donne, né bambini. «Li dobbiamo prendere pari pari» – dice – «Anche perché se non staremo noi con la pace non starà nessuno».

    Dall’altra parte dell’oceano, Teresa Schirripa, madre di un trafficante di cocaina, riferendosi ad alcuni clienti insolventi, non usa mezzi termini: «Dovevamo farli a pezzi. Come Rambo, dovevamo fare, come Rambo. Perché loro non sanno chi siamo noi». Vale per tutte l’esclamazione di Graziella Manfredi che, in una conversazione con il marito, coinvolto in una guerra di ’ndrangheta a Isola Capo Rizzuto, precisa, quasi stizzita: «mica sono ciota [sciocca]». Conoscono, sanno ogni cosa, anche quando fingono di non conoscere o di non sapere. Per decenni, hanno goduto di una sorta di impunità connaturata, come la definisce Teresa Principato, magistrato del Tribunale di Palermo. «Sono state ritenute non socialmente pericolose e non rilevanti ai fini della configurazione della fattispecie associativa». Una sottovalutazione che ha portato un notevole vantaggio alle associazioni mafiose in genere, poiché le donne hanno potuto agire quasi indisturbate e, come documentano le ultime inchieste della magistratura, essere utilizzate in diversi settori.

    Ma forse anche qui, pesa la nostra stringata memoria collettiva.

    Dal 1999 al 2005 la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria indaga 594 donne. E nel 2000 un’indagine della Direzione investigativa antimafia rileva la presenza di 255 donne tra i 7.358 ’ndranghetisti schedati nella Provincia di Reggio Calabria. Dieci donne vengono condannate per associazione a delinquere dal 1880 al 1906 in Calabria e, nello stesso periodo, altre otto sono prosciolte in appello o in istruttoria.

    Negli ultimi tempi, alcune donne, come Giuseppina Pesce, scelgono di puntare il dito contro i propri famigliari, per salvare i figli da un destino segnato. Se altre dovessero seguirla su questa strada, potrebbe finalmente essere superato il ruolo di subalternità in cui tante donne di ’ndrangheta hanno finora vissuto. Una conquista della società che potrebbe scuotere la ’ndrangheta dalle fondamenta e ferirla a morte, come nessuna indagine potrebbe mai fare.

    Non si può capire la particolare natura della ’ndrangheta, se non si comprende il ruolo delle donne. Un importante aspetto che Umberto Ursetta riesce a cogliere con questo libro che va ad aggiungersi nella storiografia sulla ’ndrangheta a un altro testo fondamentale, quello di Renate Siebert. Ursetta, una vita a insegnare diritto, ricostruisce in modo scrupoloso fatti, circostanze, indagini e processi. Quello che ha scritto è un libro di cui si sentiva il bisogno e che merita di essere letto.

    Antonio Nicaso

    Introduzione

    Antico e moderno

    Le storie raccontate in questo libro sono solo un frammento della storia della ’ndrangheta, la più potente tra le organizzazioni criminali, che da qualche decennio ha messo solide radici dappertutto, in Italia come nel resto del mondo, mostrando una notevole capacità di adattamento alle diverse realtà nelle quali svolge le sue attività illegali. La ’ndrangheta, a differenza della mafia siciliana, ha come elemento caratterizzante il legame di sangue esistente tra i componenti della struttura di base denominata ’ndrina. Più ’ndrine legate tra loro formano un locale, che costituisce l’aggregazione fondamentale che si occupa della gestione delle attività criminali in un determinato territorio. Locali di ’ndrangheta esistono ovunque, in Italia e all’estero. Non c’è area del mondo in cui la mafia calabrese non ha allungato i suoi tentacoli. In ogni continente ci sono locali di ’ndrangheta.

    La sua capacità di penetrazione è stata favorita dal fatto di averne per molto tempo sottovalutato la pericolosità, essendo riuscita sempre a muoversi nel silenzio, senza fare rumore, e questo le ha consentito di agire nell’ombra e di non essere adeguatamente contrastata. Ma non è solo una questione di sottovalutazione ad averne favorito l’espansione, c’è anche il ritardo con il quale ci si è accorti dei cambiamenti avvenuti al suo interno. Non si è colta, insomma, la sua capacità di emanciparsi dallo stereotipo che si portava dietro dall’epoca dei sequestri di persona, di essere una mafia arcaica e pastorale che custodiva gli ostaggi in condizioni disumane nelle impervie montagne dell’Aspromonte. E così, mentre ci si attardava in questa visione legata al passato, la ’ndrangheta compiva un salto di qualità adeguandosi rapidamente non solo alla nuova realtà sociale ed economica, ma anche all’uso delle nuove tecnologie, passando dai pizzini all’utilizzo di strumenti sempre più sofisticati. Questo cambiamento di pelle, avvenuto nel silenzio più assoluto, le ha permesso di inserirsi nel processo di trasformazione e innovazione iniziato a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, divenendo in poco tempo l’organizzazione criminale più ricca e potente al mondo.

    Il processo di emancipazione della ’ndrangheta è stato agevolato dalla globalizzazione, le cui politiche neoliberiste, con l’eliminazione di qualsiasi controllo nella circolazione dei capitali, le hanno permesso di operare con maggiore facilità nei circuiti internazionali dell’economia illegale, con il risultato che mentre il nostro Paese, e l’intero occidente, sta vivendo la più grave crisi economica e sociale del dopoguerra, le varie mafie si stanno arricchendo sempre più, tanto da diventare oggi le sole organizzazioni in grado di disporre di una quantità enorme di denaro liquido con il quale inquinare l’economia legale.

    Ma la ’ndrangheta non è solo modernità, è anche tradizione, in quanto sa coniugare in modo efficace arcaicità e progresso. Prova ne sia che, pur restando fedelmente legata ai rituali di antica memoria, è in grado di investire una quantità enorme di capitali attraverso percorsi difficilmente individuabili. In essa passato e presente, antico e moderno, vecchio e nuovo, locale e globale, convivono perfettamente. La ’ndrangheta è, dunque, un’organizzazione capace di guardare indietro, conservando comportamenti tribali quando si tratta di questioni che riguardano l’onore e la famiglia, ma anche in avanti, mostrando di possedere una particolare attitudine nel mondo degli affari. Questo spiega perché uomini immersi nella modernità, con interessi sparsi in ogni angolo del pianeta, ricorrano ancora oggi ad un retaggio del passato, il delitto d’onore, per mantenere intatto il prestigio di cui godono dentro e fuori l’organizzazione. Senza l’ancoraggio ad una tradizione comprendente, oltre al delitto d’onore, miti, leggende e antichi rituali di affiliazione, la ’ndrangheta come oggi la conosciamo non esisterebbe. Sarebbe un’altra cosa, sarebbe come l’aveva immaginata Carmelo Novella, capo del locale di ’ndrangheta di Legnano. L’idea di Novella era quella di rendere le cosche operanti nel milanese autonome rispetto a quelle calabresi e di assoggettarle a una struttura sopraordinata denominata Lombardia, con lui al vertice. In altre parole, Novella ambiva a diventare il dominus assoluto della ’ndrangheta a Milano e dintorni senza dover rendere conto ai boss che stavano in Calabria, realizzando così una specie di secessione mafiosa. Un progetto al quale erano contrari sia i capi delle cosche calabresi che quelli delle cosche lombarde, che non potevano consentire lo smembramento dell’organizzazione. Questo è il motivo per cui Novella viene ucciso nell’estate del 2008 in pieno giorno davanti ad un bar di San Vittore Olona, in Provincia di Milano, omicidio festeggiato, secondo il racconto di uno dei killer, il collaboratore Antonino Belnome, «con champagne e pasticcini».

    Tolto di mezzo Novella, l’avvocato Pino Neri viene incaricato dalle cosche lombarde di recarsi in Calabria e prendere ordini dai capibastone locali. Durante un matrimonio tra rampolli delle famiglie mafiose dei Barbaro di Platì e dei Pelle di San Luca gli vengono impartite le direttive per mettere ordine nei locali lombardi. Neri esegue l’incarico e come referente nei confronti della ’ndrangheta calabrese viene nominato Pasquale Zappia, affiliato al locale di Corsico. Ironia della sorte, la riunione per la nomina del nuovo referente si tiene nella sede del circolo Arci per anziani di Paderno Dugnano intitolato a due simboli dell’antimafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Con la nomina di Zappia le cosche lombarde riconoscono il primato dei capimafia che risiedono in Calabria. Questo significa che gli oltre venti locali e gli oltre cinquecento affiliati[1] presenti in Lombardia possono agire in autonomia nella gestione degli affari ma devono rimettere le decisioni di natura strategica alla casa madre. Non possono, insomma, fare di testa loro e se ci provano ci pensa l’organizzazione a farli rientrare nei ranghi. Il fatto di avere il comando in Calabria consente alla ’ndrangheta, pur nella sua graduale mutazione, di conservare un saldo legame con i suoi valori arcaici, primo fra tutti il senso dell’onore inteso nell’accezione mafiosa.

    Il ruolo della donna

    La ’ndrangheta, così come le altre organizzazioni mafiose, è composta soltanto da uomini, che vengono affiliati secondo rituali vecchi di secoli. Alle donne non è consentito di entrare a far parte organicamente della ’ndrangheta, anche se in qualche caso ciò è avvenuto. La collaboratrice di giustizia Angela Donato[2], alla quale era stata proposta l’affiliazione, ricorda di aver assistito a quella di due donne, descrivendone in modo dettagliato i particolari.

    Affiliate o no, le donne in quanto madri, mogli e figlie fanno parte della ’ndrangheta. Il loro ruolo è quello di trasmettere il codice culturale mafioso, vale a dire educare i figli all’onore, alla vendetta e all’omertà, ricordandogli che occorre tener fede a tali principi. Nel fare ciò le donne mantengono saldo il legame con la tradizione, costituendo una specie di memoria storica delle ’ndrine. Quando scoppia una faida sono le più intransigenti nel volere la totale eliminazione dei componenti della cosca avversa. Ciò è quanto emerge da un dialogo intercettato tra Umberto Bellocco e la madre Maria Teresa D’Agostino. I due parlano sul da farsi nel caso in cui a Rosarno dovesse scoppiare una guerra di mafia tra la loro cosca e quella dei Pesce. Umberto si rivolge alla madre, dicendole: «Una volta che partiamo, partiamo tutti, una volta che siamo inguaiati, ci inguaiamo tutti… dopo, o loro o noi, vediamo chi vince la guerra, dopo…pure ai minorenni». Ma per Maria Teresa non è sufficiente, vuole vedere scorrere anche il sangue delle donne. «Pari pari, – dice – a chi ha colpa e a chi non ha colpa, non mi interessa niente… e femmine». Al che il figlio di rimando «e femmine no», ma la donna è irremovibile, nessuno deve essere risparmiato, «pari pari… non mi interessa, pari pari»[3].

    Ma le donne non si accontentano solo dell’uccisione dei nemici, vogliono anche vedere con i propri occhi scorrere il loro sangue. Solo così si sentono appagate, come riferisce la testimone di giustizia Loredana Patania alla quale avevano ucciso il marito durante una faida scoppiata a Stefanaconi, un piccolo centro in Provincia di Vibo Valentia. La giovane donna racconta al magistrato gli ordini impartiti dalla zia Giuseppina Iacopetta ai figli per vendicare l’uccisione del marito.Il boss in gonnella, preso in mano il comando della ‘ndrina dopo la morte del marito, aveva stabilito che Franco Meddis, appartenete alla cosca avversa, doveva essere ucciso vicino alla sua abitazione in modo da poter vedere il sangue del nemico scorrere davanti alla propria porta. E siccome ciò non bastava per appagare la sua sete di vendetta, esigeva anche che, per farlo soffrire, lo uccidessero per ultimo, dopo avergli sterminato tutti gli appartenenti al suo gruppo criminale[4].

    Anche le donne del clan dei Pesce vogliono dai propri uomini uccisioni cruente nei confronti di chi non si attiene alle regole mafiose. Durante un colloquio videoregistrato nel carcere di Opera, il detenuto Francesco Pesce viene informato dalla nonna che la sorella Giuseppina deve essere uccisa per la sua collaborazione con la giustizia e la donna mima il gesto dello sgozzamento[5]. Una modalità non solo molto violenta ma anche altamente simbolica, Giuseppina aveva parlato e meritava che le venisse tagliata la gola.

    Le donne di ’ndrangheta non solo pretendono che i loro morti siano vendicati con modalità particolarmente violente, ma esigono anche che lo si faccia in fretta. È quanto chiede Francesca Marfea, della cosca Ascone di Rosarno, alla quale avevano ucciso il figlio Domenico. La donna, in un colloquio intercettato in carcere qualche mese dopo l’omicidio, si rivolge al nipote Vincenzo Ascone, figlio del capocosca Antonio, chiedendogli che si proceda immediatamente

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