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Qualcosa anche per Ofelia
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Ebook109 pages47 minutes

Qualcosa anche per Ofelia

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About this ebook

Qualcosa anche per Ofelia (1971) è un atto unico scritto come parallelo di Amleto.
Nel diverso modo di rapportarsi alle figure di Amleto e Ofelia, il dramma offre uno schizzo di due modi opposti di rapportarsi a sé e al mondo, con la leggerezza e l’ironia che caratterizza tutta l’opera di Joan Ure.
LanguageEnglish
Release dateOct 23, 2015
ISBN9788874722594
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    Qualcosa anche per Ofelia - Ure Joan

    EPISODI

    Collana diretta

    da Adriano Marchetti

    13

    Joan Ure

    QUALCOSA ANCHE PER OFELIA

    a cura di

    Valentina Poggi

    traduzione di

    Giovanna Mancini, Enrico Monti,

    Elena Armida Olivari, Fabio Regattin

    con testo a fronte

    EPISODI - Collana diretta da Adriano Marchetti Comitato scientifico: Giovanni Cacciavillani, Alberto Destro, Vita Fortunati, Giovanni Marchetti, Piero Menarini, Patrizio Rigobon, Jacqueline Risset, Tito Saronne, Roberto Vecchi

    Titolo originale

    Something in it for Ophelia, in Five Short Plays ed. by Christopher Small, Scottish Society of Playwrights, Edinburgh, 1979

    Prima edizione: marzo 2007

    Fotografia di Joan Ure

    Proprietà letteraria riservata

    © 2007 Panozzo Editore, Rimini

    via Clodia, 25 - tel. e fax 0541/24580

    e-mail: info@panozzoeditore.com

    www.panozzoeditore.com

    ISBN: 9788874722594

    INDICE

    Introduzione di Valentina Poggi

    QUALCOSA ANCHE PER OFELIA

    Qualcosa anche per il traduttore Dialogo immaginario fra traduttore e autore

    Bibliografia

    CONTENTS

    SOMETHING IN IT FOR OPHELIA

    INTRODUZIONE

    Il bisogno di farsi un nome

    Joan Ure: nome che a un inglese evoca la Pulzella d’Orleans, giovane guerriera ispirata dal cielo e perseguitata dalle crudeli e arbitrarie convenzioni terrene; cognome che corrisponde sia a una parola norrena derivata dal latino aureus e indicante una moneta, sia alla contrazione dell’anglo-normanno ueuvre (da cui il francese oeuvre), che significa uso, costume, azione. Ma questo riferimento allo splendore genuino dell’oro e all’ideale artistico dell’opera che permane è incerto, probabilmente casuale, mentre il primo dei due suggestivi monosillabi, scelti come nom de plume da Elizabeth Carswell quando decise di darsi alla letteratura e di scrivere per le scene, fu sicuramente un tributo alla memoria della sorella minore Joan, affetta da mania religiosa e morta, sembra, suicida¹.

    Adottare uno pseudonimo era stata prassi abbastanza comune fra gli scrittori scozzesi della prima metà del novecento. Il primo e più celebre esempio è Christopher Grieve, alias Hugh MacDiarmid, poeta, critico e vigoroso polemista, che con le sue liriche giovanili ridonò piena cittadinanza letteraria allo Scots, offrendolo non più come veicolo di comico o tenero colore locale, ma come principio strutturale, rinnovatore del mezzo e del messaggio poetico, terapia d’urto contro la fiacchezza di un linguaggio e di una visione del mondo da due secoli troppo anglicizzati. In seguito il suo amico James Leslie Mitchell, tempra ancor più radicale, contestatore non di una particolare civiltà, ma della civiltà in quanto tale, pur avendo pubblicato col suo vero nome vari romanzi di genere storico e fantascientifico firmò con lo pseudonimo Lewis Grassic Gibbon una serie di saggi e racconti, e soprattutto il suo capolavoro, la trilogia di romanzi A Scots Quair (Un libro scozzese): in Sunset Song, Cloud Howe e Grey Granite (Canto del tramonto, Valle di nubi, Granito grigio) egli fece un quadro corrusco e a tratti sconvolgente di personalità singolari e forti, isolate fra le grette comunità rurali e provinciali del Nord-Est scozzese nei primi trent’anni del secolo. Un secondo romanziere, Tom MacDonald, per narrare ai suoi contemporanei lo spopolamento forzato delle Highlands gaeliche avvenuto un secolo e mezzo prima e il risultante attuale stato di degrado e umiliazione scelse un nome che suonasse più marcatamente gaelico: Fionn MacColla. La scelta dello pseudonimo James Bridie da parte di Osborne Henry Mavor ebbe invece presumibilmente un motivo più banale: trovandosi a lavorare a Edimburgo come medico nella prima fase della sua carriera, temeva forse che il successo dei suoi drammi nei teatri del West End londinese gli creasse problemi, presso pazienti e autorità sanitarie che condividevano il pregiudizio religioso antiteatrale ancora assai diffuso in Scozia; fra l’altro nelle sue commedie non mancavano punte satiriche contro i rappresentanti del clero, e molte di esse addirittura mettevano in scena personaggi della Bibbia – sia pure dei libri considerati non canonici dalla Chiesa presbiteriana – scanzonatamente riveduti e corretti.

    Gli esempi citati sono tutti maschili e risalgono alla prima metà del novecento (ce n’è solo uno femminile degno di nota, Lorna Moon, pseudonimo di Nora Low), e in seguito il fenomeno sembra scomparire; del resto anche nell’ottocento, salvo rare e oscure eccezioni, le scrittrici scozzesi – la drammaturga Joanna Baillie, le romanziere Brunton, Hamilton, Ferrier e Oliphant – a differenza di più celebri consorelle inglesi come le Brontë e la Eliot, non assunsero pseudonimi, non imitarono la civetteria di Walter Scott, che per anni preferì lasciar attribuire i suoi acclamatissimi romanzi a un anonimo "autore di Waverley o a un misterioso mago del Nord". Invece un secolo dopo, verso la fine degli anni ’50, Elizabeth Carswell sentì il bisogno di crearsi un alter ego in Joan Ure.

    Un motivo di questa decisione potrebbe essere stata l’esistenza di una scrittrice con lo stesso cognome: Catherine Carswell (nata Macfarlane), che negli anni ’20 aveva pubblicato Open the Door e The Camomile, romanzi improntati a un sobrio e vibrante femminismo. Forse Elizabeth Carswell ne era a conoscenza e volle evitare congetture su parentele inesistenti. Ma è più probabile che la causa sia stata la volontà di mantenere la sua figura pubblica, di autrice, nettamente separata, indipendente e ininfluente, rispetto alla vita privata². Più che per rivelare quella scissione interiore, quel dualismo semi-schizoide che segna autori e opere di spicco nella letteratura scozzese (da James Hogg a Robert Louis Stevenson allo stesso Mitchell-Gibbon), adottare uno pseudonimo le servì per rivendicare la propria libertà di dedicarsi all’arte, senza tuttavia rischiare di coinvolgere nella sua avventura personale il marito e la figlia, che erano parte non meno importante della sua vita, esponendoli alle chiacchiere di una società piccolo-borghese tendenzialmente gretta e maliziosa.

    La vita

    In passato si era vista rappresentare la vita e la letteratura come esperienze irreconciliabili per una donna; distruggendo, per punirla di una mancanza, il racconto scritto da lei bambina di sette anni, sua madre aveva implicitamente sentenziato che la scrittura di una femmina non era altro che una più o meno colpevole evasione, un capriccio³. Quando poi Elizabeth ebbe dodici anni le toccò occuparsi dei lavori di casa, perché la madre si era ammalata di Tbc, e a quindici, finita la scuola dell’obbligo, dovette rinunciare a proseguire gli studi perché le finanze familiari, se non carenti, non erano però floride, e il padre riteneva che l’istruzione superiore non servisse a una ragazza, specie se c’era bisogno di lei in casa. Sposatasi giovanissima alla vigilia della seconda guerra mondiale si trovò a dover allevare la figlioletta da sola, fino al ritorno del marito dalle armi nel 1945. Tre anni dopo, non ancora trentenne, scoprì che assistendo la madre malata durante l’adolescenza aveva contratto a sua volta la tubercolosi, e fu ricoverata in sanatorio.

    Non molti anni prima un analogo ricovero era servito a liberare un talento letterario che forse altrimenti sarebbe rimasto soffocato sotto le pressioni quotidiane di qualche impiego logorante: a Stromness, nelle Isole Orcadi, George Mackay Brown si era scoperto fin dall’infanzia una innata disposizione a tradurre visioni ed emozioni in parole che gli fluivano vivide dalla

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